Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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Letteratura  pag. 9


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Editoriali, recensioni e articoli di LETTERATURA

Italiana moderna e contemporanea

 

 pubblicato il 13 Marzo 2013

C'era una volta Carlos Castaneda

Gli sciamani lungo la via della luna cercano la luce e mai le ombre

 

di Pierfranco Bruni

 

      Perché letteratura e alchimia hanno sempre un viaggio interrotto e poi ripreso tra i cominciamenti dei simboli? La letteratura diventa una rappresaglia quando non si fa preghiera e illuminazione. Nel percorso di una letteratura simbolo la figura dello sciamano diventa fondamentale. Viaggiare dentro la propria anima è viaggiare nella saggezza dello sguardo, dell’ascolto, dell’impeccabilità, del guerriero della luce e mai delle ombre.

 

Il combattente del sole, della luna e mai delle ombre e delle tenebre. Carlos Castaneda. Ritorna con il silenzioso passo. Leggiamolo con umiltà e con coraggio. A chi manca il coraggio di vivere la letteratura come magia, alchimia, mistero si allontani da Carlos. Ma la parola non può esistere senza i simboli sciamanici del sogno.

Ci sono parole di consolazione ma ci sono anche illuminanti visioni in cui la letteratura non è soltanto linguaggio ma contemplante eternità. C’era una volta un tempo in cui la memoria era soltanto sogno. E il sogno si colorava di fantasie lungo i viaggi dell’essenza della vita. Il silenzio era potere. Il potere del silenzio era una arcana energia dello spirito.

 

      C’era una volta la memoria, che si sposava con il mistero e l’isola della metafora era l’isola dei segreti , dei segreti velati e poi chiariti. La magia e il mito ridisegnavano i luoghi di questo mistero.

      Nell’isola di Carlos Castaneda (in origine Carlos César Salvador Aranha Castaneda, Cajamarca, 25 dicembre 1925 – Los Angeles, 27 aprile 1998)  la magia e il mito sono richiami ed echi che ci portano nella lontananza del tempo – memoria. Ritorna con noi spesso. Spesso si fa silenzio.

 

      L’isola del Tonal di Castaneda (Rizzoli, 1997) è un intreccio di sfere la cui cultura diventa sapere dei popoli. E i popoli si impossessano di questo sapere filtrando il tempo attraverso la nostalgia. I dialoghi tra don Juan con don Genaro aprono le finestre al vento della memoria.

      Si legge: “Il mondo non si offre a noi direttamente; di mezzo vi è la descrizione del mondo. Propriamente, quindi, noi siamo sempre a un passo di distanza e la nostra esperienza del mondo è sempre un ricordo dell’esperienza. Noi siamo perennemente in atto di ricordare l’istante che è appena accaduto, appena trascorso. Noi ricordiamo, ricordiamo, ricordiamo”.

 

      È un andare tra i ricordi. Ma la distinzione tra il ricordare e afferrare la memoria è presente. Nel tempo i ricordi si frantumano e si raccolgono sulla tastiera della memoria. Nella memoria c’è il sapere e c’è il potere. Sentire, sognare e vedere. Sono i compiti anche della farfalla notturna che si metaforizza con il suo volo e con la sua presenza nel mondo. Il mondo e la memoria.

Castaneda filtra queste due dimensioni che sono delle sfere. La circolarità del tempo è un ritornare costantemente, al punto di partenza. Nel potere del silenzio c’è la circolarità del tempo – memoria. Il sognare. O il viaggiare. Già, appunto il viaggiare è il tema dominante della ricerca di Castaneda. Proprio ne L’isola di Tonal il viaggio è la trasparenza dell’isola. L’isola della partenza ma anche l’isola del ritorno. Dove i riti magici si compiono, si offrono, si avvertono. Il mondo degli stregoni non è soltanto il mondo della magia. È il mondo del sogno.

 

      Si legge in Il potere del silenzio. Arcane energie dello spirito (Rizzoli, 2001): “Il nagual Elìas aveva grande rispetto per l’energia sessuale disse don Juan. Riteneva che ci fosse stata perché la usassimo nel segno. Credeva che il segno fosse caduto in disuso perché poteva sconvolgere il precario equilibrio mentale delle persone sensibili”.

      È un itinerario lungo ma circolare. Per esempio così in Il secondo anello del potere (Rizzoli, 2001), in Il dono dell’aquila (Rizzoli, 1985), in L’arte di sognare (Rizzoli, 2000). Il sapere e il potere sono, comunque, incarnate dalla metafora della farfalla notturna che troviamo ne L’isola del Tonal. La sottolineatura è singolare oltre ad essere bella.

 

      “Il sapere e il potere. I sapienti hanno l’uno e l’altro. E tuttavia nessuno di loro potrebbe dire come riuscì ad averli: potranno solo dire che li hanno ottenuti agendo come guerrieri, e che ad un dato momento tutto è cambiato”. I guerrieri della notte si incontrano con la farfalla.

      E poi: “Un guerriero deve essere calmo e padrone di sé, senza perdere mai il controllo”. Gli stregoni e i guerrieri. Ma è Castaneda che incide un solco con queste parole: “Se volete esprimervi in modo preciso secondo gli stregoni, ma in modo molto ridicolo secondo il vostro linguaggio, potete dire che stanotte avevate un appuntamento con una farfalla notturna. Il sapere è una farfalla notturna”.

 

      Le metafore sono anch’esse circolari perché camminano nel cuore del tempo e si fanno voce dentro l’anima del guerriero. Ma queste metafore chiedono allo stregone di mobilitarsi nel linguaggio. Alla fine il tempo è sempre il mistero, che si imprigiona nella memoria e si fa destino.

      Appunto, il destino. L’incontro tra l’Occidente e l’Oriente è anche qui la trasparenza del potete del silenzio. E questo potere senza la forza e la consapevolezza del destino è follia. Ma Castaneda si rivela  nell’isola, si rivela nel silenzio, si rivela nel sogno.

      Tre percorsi la cui luce primordiale vive non solo nel passato ma nella richiesta del presente. Il futuro è già memoria. La conoscenza è destino. Il silenzio interiore è la civiltà che si fa memoria. Un invito ad andare oltre alla ragione. Oltre la ragione c’è sempre il mistero. Un mistero che fa del nostro cammino il senso e l’orizzonte nella luce illuminante. Il volto non della verità ma del viaggiare dentro la propria anima.

 

Io che ho seguito e non smetto di leggere e di vivermi nell’immaginario di Castaneda ho sempre trovato il mio compagno di strada. Un compagno nella vita e nelle parole. Nei linguaggi e di ciò che usiamo chiamare letteratura nella spiritualità del sogno. Tutto altrimenti diventa relativo. Ed io che al relativismo non mi sono mai affidato e tanto meno alla ragione trovo in lui l’aquila e il volo tra il sogno e la fede.

 

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pubblicato il 13 Marzo 2013

D’Annunzio tra il mondo albanese e il Mediterraneo

Per celebrare i 150 anni della nascita

 

di Pierfranco Bruni

 

      L'Albania in D'Annunzio. Gabriele D’Annunzio, di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita, ha molto amato la cultura albanese. Quella “albanesità” sospesa tra l’Adriatico e il Mediterraneo. Un richiamo che è evidente nelle testimonianze e nella scrittura. D’Annunzio aveva studiato e conosceva bene le imprese del condottiero e del personaggio Skanderbeg. Era nato a Pescara il 12 marzo 1863 e morto a Gardone Riviera il 1º marzo 1938. La presenza di D’Annunzio nella letteratura albanese è ben specificata, negli studi di Koliqi, attraverso una visione artistica e culturale che pone al centro una dimensione di cultura orientale. 

 

      “Si trovano palesi testimonianze della simpatia di Gabriele D’Annunzio verso l’Albania e gli albanesi visitando l’interno del Vittoriale. Nella Stanza delle Reliquie, proprio sull’altare dei cimeli di guerra e dei simboli religiosi, si può ammirare un rarissimo esemplare rilegato in pelle dell’opera su Scanderbeg dell’abate scutarino Barletio, in versione tedesca del 1561. E’ se la memoria non mi falla, uno dei quattro o cinque libri ammessi dal Poeta in quella parte mistica della sua dimora”. E’ ciò che scrive Ernesto Koliqi in Saggi di Letteratura Albanese (Olschki, 1972), nel capitolo dedicato a “Gabriele D’Annunzio e gli Albanesi”.

 

Molti scrittori albanesi lo consideravano un maestro. La poesia albanese risente del battuto lirico alcionico. Fu il poeta Lazzaro Shantoia a tradurre "La pioggia nel pineto" nel 1942 sul giornale letterario "Tomorri i' vogel (ovvero "Il piccolo Tomorri"). Ma tutta l'impostazione letteraria di Shantoia è strutturata sulla lezione dannunziana. Così pure la formazione di un altro scrittore quale fu Bernardino Palaj (1887 - 1946) o le traduzioni di Masar Sopoti (1916 - 1945), il quale tradusse D'Annunzio nella pagina letteraria in lingua albanese della "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari dove Sapoti rivestì il ruolo di redattore.

 

      Ma non è soltanto questo che ci fa stabilire il rapporto tra D'Annunzio e l'albanesità. D'Annunzio ebbe rapporti anche con il poeta Giorgio Fishta. Comunque, Ernesto Koliqi, come si è già sottolineato, ha dedicato al rapporto D'Annunzio e mondo albanese delle pagine singolari che restano nella storia di questa letteratura. D'Annunzio aveva, in fondo, uno "spirito islamico" forgiato su una visione quasi bizantina di un modello storico e culturale che aveva caratterizzato molti suoi scritti.

 

      C'è proprio una testimonianza del Koliqi nella quale si sottolinea: "Partendo dall'insegnamento dannunziano, alcuni fra i più dotati giovani scrittori intorno al 1930 aumentarono le possibilità espressive della maschia lingua schipetara e, senza lederne il sano midollo eroico - patriarcale, che ne testimonia l'antica nobiltà, la piegarono a esprimere con più sottile perizia i moti interiori e a descrivere con più lucida precisione vicende e ambienti moderni fino allora sconosciuti alla vita e alle lettere albanesi, a evocare con toni sfumati epoche e momenti suggestivi del passato, a soffondere di vaporosità sognanti il bisogno d'evasione della vita quotidiana".

 

      Da Bala in poi questa letteratura è stata attraversata da un mosaico sul quale i tasselli di una eredità favolistica hanno avuto un valore metafisico. Si pensi sia a Girolamo De Rada e a Giuseppe Schirò. A volte ci si trova di fronte ad una letteratura che sembra priva di una preoccupazione storica.     

      Sostiene sempre Koliqi: “Il D’Annunzio come spirito eclettico e per la particolare paganeggiante concezione di vita poteva considerarsi il più vicino alla mentalità e al gusto albanesi”. D’altronde la cultura orientale ha sempre affascinato il Vate. Ancora Koliqi: “Quella parte, oggi considerata la più caduca della produzione letteraria dannunziana, in cui si raffigurano personaggi violenti e nel contempo raffinati, in cui si descrivono ambienti circonfusi di fasto orientale, rispondeva al gusto bizantino infuso profondamente negli Albanesi, specie delle città, da secoli  di attiva appartenenza prima all’Impero di Bisanzio e poi a quello ottomano il quale conservò, permeandoli di spirito islamico, le fogge e le usanze della civiltà bizantina”.

 

      Su questo argomentare ho avuto la possibilità di soffermarmi in molti saggi. Per l’occasione dei 150 anni della nascita di D’Annunzio è in preparazione un lavoro sul tragico e sui modelli estetici dannunziani e il suo rapporto con l’Oriente e la cultura albanese  è parte integrante di un legame che comprende la visione letteraria e antropologica del Novecento tra le sponde mediterranee e balcaniche.

 

      Giovanni Papini ebbe a dire, a tal proposito, che in D’Annunzio si intreccia “un misto di grecità decadente e d’orientalismo: Alessandria o Bisanzio”. Un mondo in cui l’atto poetico è un tracciato il cui senso del sublime resta letterariamente (sul piano estetico) emblematico. Una testimonianza che propone ancora Koliqi ha una grande portata esistenziale e culturale “… ciò che meraviglia e appassiona nel Vittoriale il visitatore albanese è di vedere proprio sul tavolo di lavoro del Poeta, nello studio detto Officina, nel quale carte e documenti e libri rimangono com’egli li lasciò, un dizionario albanese – italiano, e precisamente quello della Società Bashkimi, edito a Scutari nel 1908. (…) L’opera… la inviò Hasan Pristina in dono al Comandante, non so se su richiesta o di spontanea iniziativa. D’Annunzio l’ebbe a portata di mano, fra gli ultimi libri di cui si circondò prima di morire”.

 

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pubblicato il 13 Marzo 2013

 

A Cento anni dalla nascita di Giorgio Caproni: una delle ultime lettere, completamente inedita.

 

Il Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, diretto da Pierfranco Bruni, in occasione del Centenario della nascita del poeta Giorgio Caproni (nato a Livorno il 7 gennaio 1912 e morto a Roma il 22 gennaio 1990), ha organizzato un incontro di studi, per ricordare l’opera e la figura di uno dei poeti più caratterizzanti del Novecento italiano, sul tema: “La poesia di Giorgio Caproni. Un centenario nel viaggio delle partenze e la profezia di Enea”.

“Bisogna necessariamente celebrare un centenario, cesella Pierfranco Bruni, in un contesto in cui la poesia costituisce un viaggio tra le parole e il sentiero dei sentimenti. Il poeta che ha tracciato un percorso virgiliano ponendo all’attenzione il mito di Enea come modello profetico e lirico”.

E' stata presentata una lettera inedita che Caproni scrisse il 24 settembre del 1989 proprio a Pierfranco Bruni. È una delle ultime lettere che Caproni scrisse. Infatti, la morte lo coglie nel gennaio dell’anno successivo.

Nella lettera ci sono alcuni passaggi profondamente malinconici e doloranti. Caproni scrive a Bruni: “… mi trovo in condizioni tali di salute da non aver nemmeno la forza di buttare giù una lettera… (…) io non ho più l’energia necessaria per star dietro a tutto, anche perché, per vivere, devo continuare a lavorare”.

E poi più avanti: “…ormai vivo isolato quasi l’intero anno in un paesino ligure, dove per ordine del medico non mi vengono spedite né lettere né altro… e questo forse le spiegherà in parte il mio silenzio, diventato un’assoluta necessità…”.

“Giorgio Caproni è un riferimento che va riletto e riproposto, osserva Pierfranco Bruni.  La sua produzione poetica, editorialmente, ha come inizio il 1936 con un testo dal titolo:  ‘Come un’allegoria’ e un congedo post mortem che ha rimandi metaforici forti: ‘Res amissa’, libro pubblicato nel 1991. Tra l’incipit e il concluso, come ferita non cucita (o percorso incompiuto) volutamente dal destino, c’è ‘Il passaggio di Enea’ che racchiude poesie tra gli spazi di un tempo che collega il 1943 al 1955. Poi ci sarà ‘Il seme del piangere’ e ancora ‘Il muro della terra’ e così tra i labirinti dei linguaggi che si focalizzano in un camminare tra città lungo le vie dei treni o i corridoi delle biciclette”. Alcune delle poesie di Caproni portano delle dediche al altri poeti e scrittori che ha amato e con i quali ha condiviso un perso di esistenza e di poesia. Tra questi poeti ci sono Michele Pierri  (al quale dedica i versi “X” tratti da “I lamenti” da "Il passaggio di Enea) e Libero Bigiaretti, le cui dediche compaiono proprio nel testo su Enea.

A Giorgio Caproni il Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” dedicherà, nel corso dell’anni, altri convegni e delle pubblicazioni.

 

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pubblicato il 12 Marzo 2013

Dibattito sul Ministero per i beni e le attività culturali

Senza provocazioni ma con serenità e serietà

Chiamiamolo Ministero della Cultura e dell’identità Italiana o trasformiamo il concetto di cultura 

 

di Pierfranco Bruni

 

 Si riapre il dibattito sulla proposta di una nuova progettualità, di un nuovo “abito”, di nuove competenze, di nuovo tutto che dovrebbe avere il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, già Ministero per i beni culturali e già ancora Ministero per i beni culturali e ambientali.

Un Ministero che si rinnova sostanzialmente o non sostanzialmente con il Codice dei beni culturali del 2005. Prima di questa data, nonostante circolari, decreti, strutture e sovrastrutture tra dirigenze varie e dipartimenti, aveva (e forse ancora lo ha) un punto di riferimento certo: la legge del 1939, la n. 1089 per i beni culturali, ovvero una Legge nata in Regime fascista. Ci fu, addirittura, il tentativo di soppressione del Ministero o dell’accorpamento.

La storia la conosciamo bene (la conosco bene anche per i diversi libri scritti sia in termini istituzionali – organizzativi che culturali: “La risorsa beni culturali” e poi “Beni culturali  identità”, 2004, 2005, sia per le diverse consulenze gratuite sul tema) sin dalla Commissione Franceschini (anni Sessanta) e poi dal 1974 e ufficialmente dal 1975. Il problema si pone per una serie di questioni. Che non abbia avuto un ruolo importante, nel corso di questi anni, non è vero. Altrimenti chi avrebbe retto tutte le strutture periferiche del mondo dei beni culturali: dagli scavi archeologici alle biblioteche, dagli archivi ai monumenti, dai musei alla promozione della cultura italiana nei paesi esteri?

Deve essere chiaro un dato: aver inserito i beni archeologici, i beni musicali, lo spettacolo dal vivo, il cinema, il teatro, le antropologie, i premi per la traduzione, il diritto d’autore in un unico taglio istituzionale è stato un fatto interessante perché è la testimonianza di una idea complessiva di cultura e aver messo insieme la valorizzazione, la tutela e le attività è stato un inizio in cui i processi vitali di un territorio si sono aperti, almeno idealmente, ad un raccordo tra risorsa, vocazione ed economia. Il nervo scoperto è che senza “finanze” non si fa cultura. Ed è una questione nevralgica emersa nel dibattito di questi giorni che sta impegnando intellettuali ed esperti. Ciò è l’antico Nodo di Gordio. Ma per chi fa cultura, secondo la mia diretta esperienza, e per chi ha rivestito cariche istituzionali proprio in questo campo anche come assessore alla cultura della Provincia di Taranto (per quattro anni) e per chi è stato in molti paesi esteri a rappresentare la cultura italiana e per chi ha ricoperto e ricopre presidenze in Comitati e Centri Studi e per chi continua a lavorare sul campo istituzionale posso affermare con consapevolezza che non tutto dipende e può dipendere dalla mancanza di risorse economiche.

Visitiamoli questi luoghi della cultura in tutta Italia, quelli che dipendono dal Ministero e quelli che dipendono dagli Enti locali, per renderci conto che le idee fanno, in molte occasioni, un salvadanaio per investimenti. Spesso ci “nascondiamo” sotto il fatto che non abbiamo i soldini per portare avanti un progetto ma il progetto ha bisogno di idee e, quindi, non solo di linee amministrative ma di percorsi culturali che tirano nel gioco altre realtà. Allestire un museo didatticamente leggibile nella modernità delle dialettiche internazionali non è solo una questione di vuoti economici. Lavorare tra Enti e associazionismo e volontariato non è questione soltanto di vuoti economici. Proporre una articolazione di mostre tra archeologia, antropologia, architettura, “emeroteche” non è questione di mancanza di economie. In quattro anni di assessorato i progetti non mi sono piovuti da Marte me li sono inventati guardandomi intorno.

Aprire un forte dibattito sulle culture sommerse è coraggio, volontà e scelte. I compiti dei beni culturali non sono solo quelli rigorosamente istituzionali ma intellettuali. L’intellettuale deve raccordarsi con il mondo vasto dei beni culturali e poi bisogna ampliare sempre più questo mondo dei beni culturali alle culture che non sono solo quelle “caratterizzate” nelle norme del Codice. Un Ministero aperto. Ovvero un Ministero della Cultura. Già, fa paura ancora parlare di Ministero della Cultura. Ci porterebbe direttamente al Min.Cul.Pop.? Invece, dell’attuale Mi.B.A.C?

Ci sono epoche che separano realtà. Bisognerebbe rileggere la posizione di un intellettuale che conosceva il fascismo della cultura e la cultura del fascismo, ovvero Giuseppe Bottai, quello che votò per l’Ordine Grandi nella seduta che fece cadere il fascismo.

In questi giorni si è parlato della “nazionalità” delle cultura e del valorizzare la cultura italiana attraverso le diverse arti. Per fare questo bisogna aprirsi ad idee divergenti e articolate per giungere ad una convergenza di una cultura dell’identità italiana. Senza una filosofia e una estetica della identità italiana non si può parlare di un Ministero dei beni culturali che sia altamente rappresentativo in tutto il mondo. È vero che le economie sono povere. Ma anche le idee non sono ricche.

Un Ministero della Cultura deve essere un Ministero delle Idee e per le idee e non tentare di fare della cultura unicamente un progetto economico “provvidenziale”. Capovolgo il discorso. Partiamo dalla cultura delle idee per  proporre una cultura che possa essere investimento. In questo discorso abbandoniamo una volta per sempre le ideologie perché nonostante si continui a dire che sono morte queste, le idee, sono ancora più vive che mai anche se si sono trasformate in pensieri sull’economia.

I beni culturali lasciamoli alla cultura e a chi fa cultura, con ciò non si intende di rinchiuderli nel cerchio degli addetti ai lavori ma il discorso è molto più alto e problematico in un coinvolgimento di visioni globali (e chi scrive ha sempre lottato per lo sdoganamento dei beni cultuali come appannaggio degli specialisti), e a chi vive la cultura con esperienze, eredità e una forte testimonianza identitaria. Perché la cultura resta l’identità di una Nazione.

Chiamiamolo, dunque, Ministero della Cultura dell’Identità Italiana. Altrimenti trasformiamo il concetto stesso di cultura.(sic!).

 

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pubblicato il 12 Marzo 2013

L’attualità del Machiavelli a 500 anni dalla proposta de “Il Principe”.

La politica nella storia letteraria di una Nazione

 

 di Pierfranco Bruni

 

Politica e letteratura. Non un legame. Anzi. Mai un legame. Ma un incontro che ha offerto, nei processi culturali, chiavi di lettura di particolare interesse soprattutto quando a porre l’attenzione su un simile “intreccio” sono stati i maestri della politica moderna. Maestri che provengono comunque della letteratura.

Cosa c’è di più attuale, rischio nell’usare il termine contemporaneo (?), di personaggi come Nicolo Machiavelli (Firenze 1469 – 1527) e Francesco Guicciardini (Firenze 1483 – Arcetri 1540) non solo con i loro scritti ma anche con il loro esempio e la loro azione?

 

Quest’anno è un anno importante proprio per una “caduta di destini” che sta a indicare modelli di cultura politica e di strategie di potere nati in un’età qual è stata il Rinascimento.

Tra i tanti anniversari e celebrazioni (da Boccaccio a Machiavelli, da D’Annunzio a Camus) lo sguardo resta puntato, proprio per il contesto politico che si attraversa con le sue difficoltà e le sue rotture storiche, sul ruolo de “Il Principe”, come metafora della politica  cortigiana o dei cortigiani che cercano nella politica un tentativo di affermazione.  

Mi riferisco al Machiavelli de “Il Principe”  risalente al 1513, di cui cadono quest’anno i 500 anni della sua nascita. Ho avuto modo di occuparmi di Machiavelli in diversi incontri, alcuni anni fa a Santo Domingo, per conto del MiBAC, relazionandolo alla funzione culturale di Giuseppe Prezzolini e ai suoi scritti su Machiavelli.

 

Il Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” ha in preparazione uno studio a più voci dedicato a “Il Principe. La politica nella cultura e l’inconoscibile antipolitica” con scritti di Carmen De Stasio, Gerardo Picardo, Micol Bruni, Neria De Giovanni, Marilena Cavallo.

“Il Principe” nella politica del 500 e dentro una riflessione a tutto tondo nella politica del 2013?  Direi proprio di sì. Il suo lavoro potrebbe essere utile a questa contemporaneità che ha smarrito il suo senso della memoria.

Chi riattualizzò Machiavelli fu Giuseppe Prezzolini, il quale nel  suo saggio scritto nel 1926  con un titolo che definisce un raccordo tra storia e modernità: “Vita di Nicolò Machiavelli Fiorentino”.

 

Con Machiavelli, secondo Prezzolini, si entra nell’epoca moderna. Proprio in questo scritto si legge: “Savonarola era il Medio Evo, Machiavelli era il tempo moderno che nemmeno i suoi tempi potevano intendere. Savonarola aspettava tutto da Dio, Machiavelli tutto dall’uomo”.

      Cultura e politica costituiscono, in Prezzolini, un unicum. La lezione di  Machiavelli diventa fondamentale tanto che pubblica nel 1971 un ulteriore testo: “Cristo e/o Machiavelli”. Un lavoro che fece molto discutere e che oggi, se avessimo la forza e il coraggio di riproporlo, acuirebbe il dibattito tra la posizione del mondo cattolico e la politica.

Prezzolini chiedeva e si chiedeva rivolgendosi, appunto, al “Principe” di Machiavelli: “Forse il cristianesimo risponde a domande intellettuali?”.

 

Credo, comunque, che uno dei concetti più forti di Prezzolini ricavato dalla attenta lettura del Machiavelli politico dell’attualismo dell’antipolitica lo porta ad una considerazione pungente tanto da considerare il Principe “metà volpe e metà leone” con la capacità però di poter “imporre la pace fra le sètte e liberare l’Italia da’ Barbari”.

Se si ritorna a discutere del “machiavellismo” nei processi politici contemporanei è anche perché quell’identità nazionale delle corti rinascimentali è rimasta nei cuori fragili della politica post fascista.

E la contemporaneità di Machiavelli si ripropone nella voce di Prezzolini che non può restare a margine di un dibattito più articolato tra politica e cittadinanza. Perché è proprio nel suo esilio che Prezzolini rilegge il fiorentino delle lettere e dei linguaggi politici. Lontano dal Regime propone Machiavelli come il vero “apostolo rinnegato dagli uomini del suo tempo” considerandolo come “il più grande pensatore politico dopo Aristotele”.

 

Di recente proprio su “Il Corriere della Sera” (6 gennaio 2013) Giuseppe Galasso lo considera come lo specchio delle diverse modernità che hanno occupato lo scenario delle civiltà come “uno snodo decisivo del pensiero e della coscienza moderna, come una spinta forte e fondamentale alla laicizzazione e alla modernizzazione dell’idea di politica”.

Un percorso dentro il quale il Novecento è anche il secolo di Machiavelli: da Croce a Gramsci, da Gentile a Gobetti, da Bottai a Prezzolini.

In una congiuntura dialettica, qual è quella che stiamo vivendo in questo nostro tempo desertificato,  la rilettura e l’interpretazione, oltre qualsiasi scuola di pensiero e oltre la visione scolastica antologica tout court, “Il Principe” potrebbe costituire un punto centrale per ricondurre il pensiero su strade di spessore sia umano sia filosofico sia politico.

 

A 500 anni dalla sua proposta non si può non ammettere che sarebbe necessario offrirlo alle nuove generazioni come elemento vitale di discussione. C’è la separazione dell’etica dalla morale, la separazione dal pensiero universale al pensare, dalla filosofia alla storiografia.

In una visione prettamente politica Machiavelli sconfigge gli eretici per diventare egli stesso eretico. Ma su questo argomentare ci ritornerò con un approfondimento attinente.

 

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pubblicato il 12 Settembre 2012

Nel Pascoli omerico  i discendenti di Ulisse tracciano la tradizione e la modernità.

Il saggio “Nel mare di Calipso. La dissolvenza omerica e l’alchimia mediterranea in Giovanni Pascoli”.

 

 di Cosimo Dellisanti

 

Tre sono i personaggi mitologici che preferisco, sin dalla mia infanzia: Taras, figlio di Poseidone e della ninfa Satyria, mitico fondatore di Taranto; Eracle, celeberrimo semidio figlio di Zeus e Alcmena, eroe mitologico per eccellenza, e, ultimo ma non ultimo, Odisseo, Ulisse, figlio di Laerte e Anticlea, marito di Penelope, padre di Telemaco e re di Itaca.

Ciò che più risalta di Ulisse, rispetto agli altri due che ho citato, ma anche rispetto a tantissimi altri eroi mitologici, è proprio la sua estrema umanità: Ulisse non è figlio di alcun dio (vanta appena una lontana ascendenza con Hermes, suo bisnonno), quindi non dispone di particolare potenza come Eracle; la sua Itaca, un isolotto popolato da pastori, non è certo la Micene di Agamennone o la Sparta di Menelao e non è particolarmente amato dalle divinità stesse, come può esserlo Achille, figlio di Teti, che vanta una panoplia forgiata da Efesto. Al contrario, Ulisse è inviso a molti, sia ad uomini che a divinità: il nome Odisseo, non a caso, significa per l’appunto “colui che è odiato”. Sua unica protettrice è proprio Atena, che lo adora per la grande astuzia, che lo distingue in mezzo a tutti gli altri.

 

Abbiamo detto che Ulisse non vanta nessun aspetto divino o particolarmente regale: eppure e lui a mettere fine alla decennale guerra contro Troia, con lo stratagemma del cavallo. Non è la forza e l’ira primordiale di Achille, che muore sotto le mura della città, colpito ad un tallone da Paride, né è la potenza di Agamennone ad aprire le porte del superbo Iliòn. No, è l’idea di un umanissimo re marinaio, che è al comando di un esercito proveniente da un’isola ionica popolata da pastori. Un re che ha in mente solo il suo ritorno a casa: non è mosso dal desiderio di gloria eterna, come il Pelide, né dalla sete di ricchezze che Troia custodisce, come l’Atride. Ulisse desidera solo tornare a casa da sua moglie e suo figlio, che non ha visto crescere. E, poveretto, non può immaginare ciò che il Fato ha in serbo per lui. 

Ulisse non è certo l’unico eroe che deve affrontare il nostos, il ritorno in Ellade. Tutti i generali Achei sopravvissuti alle battaglie, poiché meritevoli di punizione per alcuni atti empi, devono affrontare parecchie peripezie “di purificazione”, così da espiare le colpe. Il nostos di Ulisse, senza dubbio, è quello più impervio e più interessante: dopotutto Omero (o chi per lui, se non credete nella teoria unitaria) gli dedica un poema di ventiquattro libri, pari all’Iliade, ovvero il poema portante del ciclo troiano. Probabilmente anche gli aedi e i rapsodi finirono con l’essere affascinati dal personaggio, in tutto e per tutto speculare al protagonista dell’Iliade Achille: se questi era l’eroe dell’Ira Funesta, quindi degli istinti primordiali, Ulisse è l’eroe del Multiforme Ingegno, ovvero delle abilità tecniche e mentali. 

 

Personalmente, credo che fosse proprio per queste peculiarità che, in epoca alessandrina, l’Odissea fosse preferita all’Iliade. L’abilità tecnica di Ulisse (che si costruisce una zattera per andare via da Ogigia) sicuramente doveva piacere a molti greci ellenistici. Quelli erano i secoli successivi alla morte di Alessandro Magno, che aveva conquistato un impero che andava alla Macedonia all’Egitto fino ai confini dell’India (comprendeva, quindi, parecchie terre mediterranee); erano i secoli in cui scienza e tecnica cominciavano a fondersi in maniera più efficace; erano i secoli del cosmopolitismo, cioè dell’essere cittadino del mondo, viaggiatore, proprio come Ulisse.

E, di conseguenza, l’Odissea fu anche il fulcro su cui si sviluppò la letteratura latina: Roma, eccezion fatta per qualche verso ad uso rituale, fino al terzo secolo avanti Cristo non poteva certo vantare una letteratura degna di tale nome. Fu merito del  tarantino Andronico, e ci tengo a ricordare questo aspetto, se i romani furono in grado di conoscere l’Odissea, tramite la rielaborazione artistica battezzata Odùsia, e di cominciare una produzione propria di grandi opere, da cui deriverà quella italiana ed europea, e non solo. Mi piace immaginare l’Odissea come la prima tessera che cade su un’altra e scatena l’effetto domino che perdura fino ai giorni nostri.

 

L’Odissea piace molto per il senso di avventura che la permea, ma sarebbe ingiusto definire Ulisse solamente un marinaio avventuriero, magari un po’ swashbuckler, ed esploratore dell’ignoto. Ulisse è la metafora dell’intelletto umano che cerca continuamente di superare il limite della conoscenza presso cui è giunto. E’ l’uomo che, giunto ai confini dell’Universo, si chiede “e dopo, cosa c’è?”. Un elemento, questo, che dovette affascinare non poco Dante: egli inserisce Ulisse nell’Inferno. Non può inserirlo nel Limbo dei pagani virtuosi, come fa con Enea, anzi, lo affossa in uno dei cerchi più bassi, nella bolgia dei fraudolenti. E questo perché Dante, uomo medievale, non può giustificare e premiare la “follia”, ovvero la blasfemia, di colui che sfida gli dèi.

Per Dante, Ulisse, incapace di rimanere fermo a godersi la serena vecchiezza alla fine del viaggio promessagli da Tiresia, decide di ripartire con i suoi uomini fedelissimi alla scoperta del mondo, alla volta delle infinite meraviglie che ancora non era riuscito a vedere in gioventù. Ripercorre in lungo e in largo il Mediterraneo, unico oceano fino ad allora conosciuto, e, non sazio, decide di superare le Colonne d’Ercole. E, a quel punto, persino gli uomini che da sempre lo avevano seguito senza opporsi mai, tentennano. E Dante, quindi, fa pronunciare al suo Ulisse quelle frasi che, credo, rimarranno celebri e vive finché l’uomo camminerà sulla terra:

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.”

Ovvero: “Ricordate che siete uomini: non siete nati per vivere come bestie, ma per inseguire per sempre la conoscenza”. Come detto, Dante non ammette il gesto di un uomo che supera il limite che Dio ha imposto all’umanità, ovvero le Colonne d’Ercole, e che raggiunge, da vivo, la montagna del Purgatorio. Ulisse compie il “folle volo”, ovvero un viaggio blasfemo, e viene punito per la sua ybris, la sua arroganza: la stessa che, nell’Odissea, lo rende nemico di Poseidone.Perché Ulisse, in fondo, è sempre stato un po’ arrogante. Diciamo anche un superuomo nel senso nicciano del termine: non forte e potente, ma l’uomo che va sempre oltre. L’Oltreuomo, appunto.

 

L’Ulisse romantico. Ulisse, come detto, non è interessato a guadagnarsi la gloria eterna da tramandare ai posteri o la ricchezza. Lui nemmeno ci vuole andare in guerra! Certo, è merito suo se gli Achei sono costretti a partire alla volta di Ilio per recuperare Elena. E, anche questa volta, c’è di mezzo un cavallo; si potrebbe dire che la guerra di Troia cominci a causa di un cavallo e finisca per mezzo di un altro cavallo. Era accaduto che, data la bellezza di Elena, i maggiori re della Grecia erano accorsi per chiederle la mano, ma ciò stava provocando degli scontri. Ulisse, allora, propose di compiere un giuramento: sacrificarono un cavallo e, davanti alla carcassa, tutti i pretendenti giurarono che, chiunque di loro fosse stato scelto come marito di Elena, sarebbero accorsi per proteggerla. Successivamente, Ulisse ne sposa la cugina, Penelope, seconda ad Elena in bellezza ma pari al marito in astuzia; con lei concepisce Telemaco e vive tranquillo sull’isoletta popolata da pastori. Ma Elena si innamora di Paride, scappa con lui a Troia e scoppia la guerra: ora coloro che giurarono sul cavallo devono tener fede alla promessa e andare a salvare la moglie di Menelao.

 

Ma Ulisse non vuole partire: era stato lui a promuovere l’iniziativa, ma non vuole partire. Ne idea una delle sue: si fa vedere mentre ara una spiaggia e vi semina il sale nei solchi. Pensandolo pazzo, i messi di Agamennone lo avrebbero lasciato perdere, e invece no: uno di loro (in alcune versioni Diomede, che quasi lo eguaglia in furbizia e col quale Dante lo affianca nell’Inferno) mette davanti all’aratro il piccolo Telemaco e Ulisse si vede costretto a fermarsi per non travolgere e uccidere il figlioletto, dimostrando di essere savio. Perché Ulissa sarà anche l’uomo dal multiforme ingegno, ma nutre profondo amore per ogni membro della sua famiglia. Un amore che sarà fondamentale quando si troverà poi sull’isola di Calipso.

Calipso era una dea; sorella della stessa Circe che anche aveva amato e cercato di trattenere Ulisse su Eea. Viveva su Ogigia, un piccolo paradiso terrestre in prossimità delle Colonne d’Ercole, punto più estremo raggiunto da Ulisse nell’Odissea. Calipso si innamora di Ulisse e gli promette l’immortalità e l’amore eterno. Ma Ulisse non può accettare e diventa sempre più triste, nel ricordo della casa e della famiglia che ha lasciato, tanto che Atena, commossa, manda Hermes a costringere Calipso la Nasconditrice (il nome greco Calipso significa proprio “colei che nasconde”) a lasciare andare l’eroe. Ulisse, così, si costruisce da solo una zattera e riparte.

 

C’è un quadro di Arnold Böcklin, datato 1883 e intitolato, per l’appunto, Ulisse e Calipso, (in copertina al saggio di Marilena Cavallo e Pierfranco Bruni) dove la scena è divisa in due: a destra dello spettatore c’è la dea, illuminata, lussuriosa e solare, che scosta le vesti quasi ad invitare ed allettare l’avventuriero con le sue grazie. A sinistra, immerso nell’oscurità più triste e buia, ammantato di una cappa nera, c’è Ulisse, che guarda l’orizzonte, dando le spalle allo spettatore, e manda il suo pensiero alla sua Penelope e a Telemaco, del tutto indifferente agli inviti della dea. Ecco, questo è Ulisse. E mi piace leggere in lui una certa attualità: penso ai tanti ragazzi del Sud Italia che, ogni anno, partono verso il Nord, alla ricerca di conoscenza e fortuna. L’unica differenza tra Ulisse e i ragazzi è che questi, purtroppo, preferiscono rimanere con le varie Calipso, Circe e Sirene piuttosto che tornare ad Itaca, sul Mediterraneo…

 

Infine c’è l’Ulisse mai visto. E’ l’Ulisse che troviamo in Pascoli; l’Ulisse stanco, malinconico e confuso. E’ l’Ulisse dell’Ultimo viaggio (nei Poemi Conviviali). Ma Pascoli, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla morte, non racconta di un viaggio all’insegna della sete di conoscenza, come in Dante: l’ultimo viaggio dell’Ulisse pascoliano ha come fulcro la ricerca di se stesso, perché l’eroe di Itaca, dopo nove anni dal suo ritorno in patria, non sa più chi sia. Non ricorda più se quelle avventure che si narrano su di lui siano realtà o sogni. E si rimette in viaggio con i suoi fedelissimi, ripercorrendo a ritroso l’Odissea, ritornando su ogni tappa: ma Circe non esiste; Polifemo è un semplice pastore e le Sirene non sono che scogli. Scogli cui lui urla, implora per ricevere le risposte, con l’unico risultato di finirvi contro e di naufragare. E, morto, giungerà di nuovo su Ogigia, dove c’è Calipso: essa lo avvolge nel suo abbraccio e Ulisse si dissolve. Si dissolve nel mare di Calipso, nel Mediterraneo. Perché Ulisse è Mediterraneo.

Potrei forse banalizzare, ma c’è un esempio che ritengo sia sintomatico di questa idea di dissolvenza del personaggio nel Mediterraneo. Nel Sud Italia (e immagino che si usi anche altrove, dato anche il forte fenomeno dell’emigrazione) si dice molto spesso che “qualcuno faccia lo scemo per non andare in guerra”. Ho già raccontato dell’episodio della finta follia di Ulisse, ma risulta quasi incredibile che questa attualizzazione di una storia di derivazione epica appartenga soprattutto alla cultura contadina del Mediterraneo. Questo perché Ulisse è dentro noi: appartiene al nostro pensiero sin dal momento della nascita. I nostri avi, secoli e secoli or sono, hanno radicato la storia di Ulisse nella testa e, di generazione in generazione, questa è stata tramandata come una sorta di ereditarietà genetica. Noi, che viviamo sulle sponde del Mediterraneo, discendiamo tutti da Ulisse.

 

A questo proposito, rimando alla lettura del volume “Nel mare di Calipso. La dissolvenza omerica e l’alchimia mediterranea in Giovanni Pascoli”, di Marilena Cavallo e Piefranco Bruni , edito dalla Luigi Pellegrini Editore e pubblicato nel 2012. Il libro nasce in seno ad un progetto riguardante, appunto, le celebrazioni del centenario del poeta Pascoli.

In questo libro si potrà assaporare per davvero il senso di dissolvenza del personaggio nel Mare Nostrum, di cui ho solamente accennato sopra, e, insieme, apprezzare le suggestioni orientalistiche che fanno parte del bagaglio di temi caro alla produzione di Pierfranco Bruni, che, come in altri libri, riesce a rendere la prosa (che in un saggio ci si aspetta essere quanto più asettica e prolissa possibile) una vera e propria poesia, tanto che è difficile distinguere i passi poetici riportati dal testo esplicativo.

E se il lettore me lo concederà, consiglio di leggere il testo ascoltando Battiato.

 

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pubblicato il 29 Marzo 2012

CONCLUSO CON SUCCESSO IL FESTIVAL DEL DIALETTO

E LINGUE MINORITARIE DI CALABRIA - 2012

 

Si è conclusa con un meeting nazionale dal titolo “I Dialetti e le lingue minoritarie di Calabria, tra senso di appartenenza e territorio", la seconda edizione del Festival del Dialetto. Un’intera giornata dedicata all’analisi dello stato attuale dei Dialetti e delle Lingue minoritarie regionali ospitata nella Sala Convegni di San Girolamo e seguita da un interessato pubblico, proveniente da tutta la regione, nonché da una rappresentanza di studenti delle scuole della città del Pollino.

 

L’evento, che s’inserisce meritatamente tra le kermesse culturali più accreditate per la promozione e la tutela del patrimonio linguistico regionale, è stato promosso dal Centro d’Arte e Cultura 26, diretto dall’antropologa Maria Zanoni, con il patrocinio del Ministero Beni e Attività Culturali – Soprintendenza BSAE Calabria, della Regione Calabria - Dipartimento 11 - FUC 2011 Linea 3 - della Provincia di Cosenza e dell’Ente Parco Nazionale del Pollino.

Dopo i saluti istituzionali portati dal referente del Ministero Beni e Attività Culturali – Soprintendenza BSAE Calabria, dott. Silvio Rubens Vivone, dal presidente dell’Ente Parco Nazionale del Pollino, on. Mimmo Pappaterra e dal  Provveditore agli Studi dott. Luigi Troccoli, ha introdotto i lavori la Prof.ssa Maria Zanoni, presidente del Centro “26” al suo 35° anno di attività di promozione culturale.

 

La Zanoni ha parlato degli obiettivi del Festival: un progetto linguistico-culturale che ha come protagonisti molti giovani e meno giovani che amano il Dialetto, come bene culturale da tutelare che s’inserisce in un percorso identitario e di civiltà, che non prevarica la lingua nazionale ma la rafforza, favorendo la conoscenza, la promozione e la conservazione di un prezioso patrimonio in via di estinzione.

A seguire l’intervento del Prof. Egidio Chiarella, dell’Ufficio Legislativo del Ministero Pubblica Istruzione, che ha portato all’attenzione del pubblico, con toni raffinati, un’attenta disamina sugli interventi del MiUR in materia di difesa delle lingue locali, come beni culturali, al pari degli altri innumerevoli beni, che fanno parte dell’importante patrimonio culturale calabrese.

 

La Prof.ssa Donatella Laudadio Marzano, già Assessore provinciale alle Minoranze etnolinguistiche, ha appassionato la platea con il suo intervento sull’importante lavoro di ricerca del Centro Culturale “26” rivolto, in questi ultimi decenni, allo studio antropologico-linguistico, alla lingua madre, asse portante della memoria storica.

La scrupolosa relazione sulla donna e l’amicizia nella tradizione dei proverbi calabresi del Prof. Biagio Giuseppe Faillace, studioso del Dialetto dell’area del Pollino, e quella del prof. Orlando Sculli di Brancaleone, studioso dell’area grecanica, hanno completato la prima parte dei lavori del Convegno. 

 

Nel pomeriggio l’incontro di studio è ripreso con la proiezione di un video clip sulle antiche tradizioni contadine e con la presentazione del volume “Terra e Casa”, Vocabolario etnofotografico in dialetto calabro, in arbereshe, in grecanico e occitano, a cura della dott.ssa Claudia Rende, responsabile della Comunicazione di www.arte26.it promoter territoriale accreditato dal MiBAC. La giovane, con competenze in Statistica ed Informatica per l’azienda, ha comparato i dati statistici regionali e nazionali sull’atteggiamento della generazione giovanile nei confronti del dialetto, contrassegnato da tendenze innovative e conservative al contempo.

Sono seguite le relazioni specialistiche del prof. Hans Kunert, ricercatore di Occitano all’Unical, del Prof. Pierfranco Bruni, coordinatore del progetto Lingue del MiBAC, e del Prof. Giovanni Agresti presidente del Festival delle Letterature minoritarie d’Europa e del Mediterraneo, che, proveniente da Parigi, ha portato il suo autorevole contributo all’incontro.

 

A conclusione dei lavori si è tenuta la cerimonia di consegna dei premi ai vincitori del Concorso letterario in dialetto di Calabria, provenienti non solo da tutta la regione, ma anche da varie città d’Italia dove risiedono i nostri emigrati che, tuttavia, nutrono un forte legame con la loro terra d’origine. Hanno ricevuto l’importante riconoscimento gli affermati scrittori dialettali: Filippo Scalzi di Isola Capo Rizzuto, Sebastiano Defonte di Crotone, Rocco Criseo di Melito Porto Salvo, Francesco De Rose di Cosenza, Paolo Lacava di Reggio Calabria, ma residente ad Ancona, ed Antonio Natale di Castrovillari che hanno incantato il pubblico con la declamazione delle loro poesie, con sottofondo musicale degli Astiokena, gruppo vincitore del Concorso nazionale "Kaulonia Tarantella Future" 2011.

Il dott. Silvio Rubens Vivone, che ha coordinato la convention, ha chiuso i lavori con un plauso ad Arte26 per la rete di comunicazione che ha raggiunto con oltre 100 siti Internet i 5 continenti: un contributo alla valorizzazione della cultura calabrese nel mondo.

 

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pubblicato il 12 Giugno 2012

SUL VOCABOLARIO ETNOFOTOGRAFICO "TERRA E CASA"

di

Michele De Luca*

Raffaele Corso suggeriva, circa un secolo fa, di registrare i reperti etnografici con schede dettagliate, disegni e fotografie. Ed è, forse, questo il merito maggiore di "Terra e casa", di Claudia Rende e Maria Zanoni, soprattutto nella parte relativa al vocabolario etnografico.
Bisogna precisare che non è affatto facile reperire materiale fotografico di manufatti, edifici e soprattutto persone immortalate in ingiallite foto d'epoca. Ancor più trascrivere le voci dialettali con i corrispondenti lemmi italiani!


Lo sa bene chi si appresta a redigere un qualsiasi vocabolario, come ci ricorda il linguista Bruno Migliorini: «quelli che non vi hanno lavorato non hanno un'idea della quantità straordinaria di lavoro che si nasconde in un vocabolario».


Ancor più pressante è l'impegno per i vocabolari areali, in cui i lemmi siano affiancati da apposite fotografie. Ciò comporta una capillare indagine sul territorio, spostamenti continui, percorsi accidentati e una buona dose di ottimismo!

Augurio rivolto alle due autrici: jàti aundi vi pòrtanu 'i pedi, nommu perditi 'i caminati! 'andate dove vi portano i piedi, per non perdere i passi già fatti!' e vale:
seguite sempre la via intrapresa per conseguire l'obiettivo prefisso!

 

*Prof. Michele De Luca - Studioso della cultura popolare e dei dialetti calabri, Autore di "BREVE STORIA DEI DIZIONARI CALABRESI DAL PRESUNTO MASSARA A ROHLFS".

 

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pubblicato il 13 giugno 2010

Un Barocco aperto alle innovazioni. Tra tradizione e rivoluzione linguistica - Giuseppe Battista

di Pierfranco Bruni

 

     La poesia barocca è una dimensione della cultura del Seicento che ha caratterizzato modelli non solo letterari ma anche artistici e filosofici. La cultura meridionale ha trovato nel barocco una testimonianza di forte espressività artistica. Nella poesia ci sono elementi non solo lirici ma anche problematici e filosofici.

Un rappresentante della poesia barocca, in contesto in cui la visione della cultura mediterranea esprimeva valori profondamente etici, è stato certamente Giuseppe Battista. Un poeta e uno scrittore che ha attraversato i limiti del seicento dentro una cultura certamente baracco ma in una civiltà il cui stesso barocco ha sempre vissuto di condizionamenti e di intrecci tra le culture dei vari paesi ma anche eredità di diverse epoche.

      Il Regno di Napoli e la sua storia hanno segnato modelli importanti che hanno contraddistinto le civiltà successive. In Battista ci sono elementi significativi di un passaggio epocale la cui interpretazione è dentro i secoli successivi. Uno sguardo caratterizzante e che ha caratterizzato quei processi di confronto tra la parola e l’immagine o meglio tra i linguaggi fatti di parole e i linguaggi fatti di colore e forma.

In fondo il Barocco è ancora oggi una espressione del “limite” tra i codici dell’arte pura e i simboli della parola ricamata grazie ad esperienze che non provengono soltanto dalla letteratura e dall’arte ma soprattutto dall’estetica che si àncora alla filosofia.

      Giuseppe Battista è stato  letto con particolare attenzione e proposto all'attenzione del grande pubblico da Benedetto Croce. Croce individuò in Giuseppe Battista un "caposcuola" di quella poesia barocca che al valore della religiosità aveva offerto una profonda esperienza etica? Ma Croce misurò i suoi giudizi sul rapporto delle valenze storiche ed estetiche ed usò, in alcune occasioni, il metro della comparazione ideologica proprio in riferimento al Battista.

      In fondo Battista fu un poeta che rappresentò non solo la poesia ma una particolare visione della cultura del Sud. Mario Sechi in un saggio di qualche decennio fa parlò di Battista collocandolo in un contesto di "ideologia letteraria".

      Battista non è un poeta (e un intellettuale con tutte le sue specificazioni) "provinciale". Va oltre. Partecipa attivamente ai processi culturali che si innescano in quel Seicento napoletano. In fondo, culturalmente, pur essendo nato in Puglia, resta per formazione un "napoletano". Se si vuole, forse, anche distante da Giovan Battista Marino.

      Una sottolineatura di Sechi, in questa atmosfera, la dice lunga: "Ad un'esemplare distanza dal Marino si colloca l''estremismo' di Giuseppe Battista, poeta meridionale di pieno Seicento, che opera all'interno della Weltanschaung barocca e con i soli strumenti culturali da essa offerti, un radicale rovesciamento dei suoi fondamenti ideologici".

Non soltanto - per restare sul piano delle constatazioni più agevoli - la vena sensuale - descrittiva (così importante per i marinisti delle prime generazioni) si inaridisce nei suoi versi a tutto vantaggio di una rigorosa tensione morale, capace di subordinare a sé la tradizionale varietà dei temi e dei materiali poetabili; ma la stessa poetica della meraviglia svincolata dalle sue originarie destinazioni politiche - culturali (la battaglia per la leardership europea, la rivendicazione di un agibile spazio storico per il moderno intellettuale), e di conseguenza  privata del suo implicito valore di rottura (l'antiregolismo, la mercificazione della letteratura e il risolutivo appello al pubblico), finisce per adeguarsi ad un tessuto ideologico estraneo, di altra origine e di altro segno, e per omogeneizzarne la singole componenti in un prevalente impegno di analisi sulle condizioni della 'poesia' contemporanea" (Mario Sechi, in "La Rassegna della letteratura italiana", N. 1-2, gennaio - Agosto 1971). 

      I temi trattati hanno, tuttora, una forte incisione sul piano dell'attualità del dibattito. Anche allora, in quel Seicento napoletano e meridionale, Battista diventava una figura preminente. Non ci fu, comunque, soltanto il poeta a determinare il suo ruolo. Ma la sua presenza è imponente sul piano di una dialettica intellettuale che campeggiava in quella temperie.

La comparazione necessaria è un gioco di specchi tra la poesia barocca italiana e quella spagnola e francese. Perché proprio in questa triangolarità, tutta europea, che il Barocco trova la sua maggiore elevazione anche se la Spagna riveste una centralità fondante.      

      Ma chi era Giuseppe Battista? Giuseppe Battista, il poeta "secentista" -  barocco - grottagliese - napoletano - avellinese (di una Puglia barocca e forse anche decadente ma profondamente radicata in un profilo religioso che diventava una proposta progettuale sul piano etico e formativo e di una Napoli fedele agli "Oziosi"), nato nel 1610 (a Grottaglie, in provincia di Taranto, in pieno contesto  ceramico - terrigno mediterraneo) era, in realtà, un caposcuola in quel Seicento che si apriva ad un rinnovamento delle arti.

      Il poeta Giuseppe Battista fu un caposcuola. Anzi, un "capo" A sottoscrivere questa cesellatura fu Benedetto Croce, come si è già detto, (campano come si considerava, in fondo, campano anche il Battista) ponendolo all'attenzione di una comparazione critica non indifferente. Accanto a questa comparazione il profilo di una tensione letteraria - esistenziale diventa ricerca e invito anche morale.

      Fu lo stesso Benedetto Croce a porre sulla scena una poetessa della vicina Lucania: Isabella Morra, che visse in anni precedenti ma il cui contesto poetico è completamente diverso rispetto al Battista anche se parlando di Mediterraneità poetica "moderna" i due profili andrebbero certamente riletti e riproposti sul piano culturale.

      Ebbene, Giuseppe Battista  è certamente un poeta che si inserisce nel quadro storico del Seicento ma le sue proiezioni in termini lirici si sono ascoltati, soprattutto in una eredità religiosa, sino al secolo Decimonono. (Significativi sono, tra i vari scritti sul Battista pubblicati in Puglia, le riflessioni di P. Marti  del 1903 e di M. Rigillo del 1914 su "Rassegna Pugliese" il primo e "Apulia" il secondo, oltre al saggio di Girolamo Mariella del 1995, dove è possibile recuperare altri riscontri bibliografici, nel quale  è tracciato un profilo storico - biografico).

      Croce lo indica proprio come un caposcuola. Si pensi certamente a quelle poesie dedicate al Santo Francesco di Paola ma oltre le sottolineature poetiche i suoi scritti in prosa sono un tracciato tangibile di un processo che non è solo un dettato letterario ma anche politico. Battista conosceva bene, proprio per la sua formazione, l'ironia nel linguaggio politico.

      Croce ci offre, tra i suoi scritti  su Battista, questa significativa cesellatura: "Non solo il Marino fu caposcuola di poesia in quel secolo, ma altri che parvero già rispondenti al crescente bisogno di 'novità', come, in quella sorta di 'secentismo del secentismo' che fiorì nella seconda metà del secolo, Giuseppe Battista e Giuseppe Artale, l'uno capo, l'altro sottocaposcuola". Un'indicazione abbastanza precisa e anche rigorosa dal punto di vista della critica letteraria.

Ma ci sono altri metri di misura del Croce che sottolineano una contraddizione di fondo che pone lo stesso Barocco come “movimento” in esercitazione costante e in una ambiguità artistica.

Nella sua “Storia dell’età barocca in Italia”, edizione del 1929, si legge: “…il barocco è una sorta di brutto artistico, e, come tale non è niente di artistico, ma anzi, al contrario, qualcosa di diverso dell’arte…”. Sottolineatura che riporteremo anche in seguito per una più definitiva contestualizzazione. Ma è necessaria tale sottolineatura anche perché in Croce il barocco, per restare al testo già citato, viene ad essere considerato come “un peccato estetico”, anzi “un peccato umano; e universale e perpetuo”.

      E proprio in virtù di un rapporto tra letteratura e manifestazioni di impegno etico Giuseppe Battista si "diverte" a giocare sul termine di menzogna. La menzogna come espressione anche di natura politica oltre a diventare uno strumento di mascheramento esistenziale. Tanto che elogiò la menzogna. Ma la menzogna come modello di interpretazione delle civiltà.

      Il concetto di Mediterraneo trova in Battista un interprete moderno. Senza correre a metafore Battista sostiene: "Le nazioni più da noi rimote furono bugiarde. Degli egiziani disse Alessandro Napoletano: 'presso gli egiziani non c'è limite al mentire, e totale è l'impunità quando si mente'. I greci, continua sempre Battista, perché mancano di fede, mancano di verità; perché la perfidia s'appoggia su la bugia. I candiotti furono celebri per le menzogne, tanto che erano in bocca di tutti: 'Cretenses mendaces'".

      Battista, il canonico, un poeta che faceva parte dell'Accademia napoletana degli Oziosi. (Muore proprio a Napoli il 1675). Rivestiva una carica importante, ovvero era censore della lingua volgare e latina. Ma amava i paradossi. E non disdegnava le utopie. Forse anche per questo oggi una sua rilettura è necessaria partendo da alcuni scritti meno conosciuti o addirittura non conosciuti. Si ricorda una polemica esplosa tre anni prima della sua morte in riferimento alla sua poesia. Trovò delle "opposizioni" sulla sua poesia proprio nella sua terra natìa.

      E.N. Girardi nel Dizionario della Treccani così la racconta: "il poeta grottagliese D. Giovanni Cicinelli aveva composto una Censura del parlar moderno, Napoli 1672, contro i traslati e lo stile turgido degli scrittori contemporanei e specialmente del Battista. Questi, credendo che la censura fosse opera di Federico Meninni, scrisse, o, come vuole il Pedio, fece scrivere da un amico, contro il gravinese, gli Affetti caritativi di N.N. (Padova s.d.), suscitando prima una Risposta del Sig. F. Meninni agli Affetti caritativi del petulante ludimagistro G. Battista (stampata falsamente in Padova s.d.) e poi, anonimi, ma dello stesso Mennini, i Furti svelati nelle poesie meliche e negli epigrammi di G.B. (s.n.t.). Contro il Meninni si mossero gli amici del B., capeggiati dal principe Caracciolo; ma il poeta, seguace anche in questo del Marino che aveva interceduto in favore del Murtola, li pregò di perdonare l'avversario".

      Lo si ricorda come poeta. Ma fu non solo poeta. Anzi  fu il sostenitore di Ovidio, di quell'Ovidio che cantava: "…bugiarda, Creta che sostiene cento città". Ma la storia dei greci, che mancano di verità perché sono privi di fede è una bella e pungente risposta al tempo moderno.

Ovvero, ed è qui che gli intrecci si complicano, "Non è bugiarda l'aria se, tornando da man sinistra, promette felicità a' latini; infelicità a' greci? Quando poi tuona da man destra, prosperi avvenimenti a' greci; calamità a' latini?". E così via di seguito. C'è, in realtà, in Battista un progetto che non è soltanto di natura letteraria. La sua tensione etica va oltre una questione puramente ontologica perché pur studiando e analizzando alcuni importanti percorsi classici si inserisce nella temperie politica del suo tempo.

Da questo punto di vista la sua posizione ha una cruciale attualità. Quando afferma, sempre nel suo scritto sulla menzogna, che "Vedete bugia solenne! Vantavano d'aver il sepolcro di Giove, e pur adoravano Giove come dio immortale. Gli africani, gente come di due facce, così di due lingue". E poi aggiunge ancora: "Ciarloni gli alessandrini. E chi non sa troppo mentisce, chi troppo favella?". Ironia della sorte.

      Ebbene, il Seicento barocco, pugliese e napoletano, di Battista pur partendo da elementi che sono profondamente metafisici e lirici (non dovremmo dimenticare la sua poesia melica) resta un Secolo di attraversamento ma anche di deposizioni culturali profondi. Lo stesso Mario Sansone traccia una linea in questa direzione. Si serve di strumenti letterari "colti" che hanno derivazioni ellenica. Si pensi addirittura ai versi di "Democrito ed Eraclito". Ovvero: "Democrito, tu ridi e col tuo riso/tutte le umane cose a scherno prendi/e, sia del Fato o mesto o lieto il viso, con lieto viso ogni accidente attenti".

      Poesia morale nel recupero della classicità? Il tema dominante è sì il recupero di una identità classica sia nello spirito poetico che nel modello linguistico ma questa identità è anche una lettura i cui tracciati sono greci e romani. Battista, in fondo, anche in tali contesti non è solo un poeta. E' anche un poeta che intreccia storie e personaggi. Ridefinisce i personaggi attraverso una coloritura linguistica emblematica. Tra l'altro è uno studioso di miti e di poesia. In una lettera a Marcantonio Grifoni scrive: "La Poesia è un furore, che viene spontaneamente. Bisogna aspettarlo".

      Battista politico? Ma le metafore sono anche dei paradossi che non disdegnano appunto le utopie. "Se la verità… è madre dell'odio… genitrice dell'affetto sarà la menzogna".  Le corti. Il potere. "Se vi dà l'animo di porr nella soglia delle corti il piede, non ferirà altro suono le vostre orecchie che di cacalecci bugiardi. O si fanno encomi al vizio, o invettive alla virtù. Le adulazioni grondano mèle, o vomitano veleno le accuse". Ecco il Battista, dunque, de L'apologia della monzogna.

      Il Battista, poeta, è anche in queste sottilissime venature ironiche di natura etica. Non si smentisce. Ma oltre questo affiora, come sottolineato da Sechi, un "ideale stilistico" il cui rapporto fondamentale con la vita è giocato sui riferimenti estetici e su quelli morali che sono verifiche etiche.

      Il poeta che "regola" e comprende i processi culturali di un'epoca che si intaglia in una civiltà non solo letteraria e artistica ma anche politica ricca di significati qual è stata la cultura espressa nel Regno di Napoli. Una cultura complessa e articolata che ha sempre trovato nel concetto di Mediterraneo una visione lungimirante di confronto e di incontro.

      Pietro Marti nel 1903 così ne parlava: "Un solo poeta salentino ebbe, a mio giudizio, la forza di affermare la propria dignità d'uomo e di artista, e di obbedire alle vergini ispirazioni del cuore: Giuseppe Battista". E poi: "Nell'animo del Battista due sentimenti dominarono sovrani: l'amore di libertà e la coscienza dell'io, che gli veniva in parte dalla natura, in parte dallo studio profondo dei Greci" (in "Rassegna Pugliese", numero 6-7, Luglio 1903).

      Il richiamo alla grecità che significa fondamentalmente dimensione mediterranea in Battista si coniuga, in fondo, con una profonda classicità dalla quale deriva anche il sentimento dell'esistere. Questo respiro mediterraneo lo si avverte persino nelle lettere. Si portava dietro la malinconia di una cultura i cui radicamenti erano profondamente legati ad un identità greco - romana.

      In una lettera indirizzata a Settimio Foglia si legge: "…I Filosofanti sono emuli di Platone, d'Aristotele. I Poeti d'Omero, di Virgilio. Gli Storici d'Erodoto, di Livio. I Capitani d'Alessandro, di Cesare…".

      In una lettera a Giavambattista Manso annota: "Dimoro in Sorrento, che vuold dire nella città delle Sirene. Quindi è che favolosa mi pare l'opinion di coloro che la vogliono edificata da Ulisse, il quale fuggiva le Sirene. Aveva io letto l'amenità di questa regione, ma la credeva colorita da pennelli poetici. Ora che ci sono presente, appena la veggo abbozzata, tanto mi sembra di gran lunga maggiore. E' tutta un giardino, dalle mani di Pomona piantato per delizie della vita umana. Teti non ha recesso, dove goda quiete più tranquilla".

      In un'altra lettera indirizzata sempre a Giovambattista Manso si legge: "Così va agli umili sassi d'Itaca Ulisse, come Agamennone alle superbe mura di Micene. Niuno ama la patria perché è grande, ma perché è sua". Il tema omerico è significativo. Questo sentimento della Patria (Itaca non è soltanto un simbolo) è fortemente sentito. Muore lontano dalla propria patria. Muore lontano da quel paese che, secondo il poeta, aveva dato i natali ad Ennio.

      Alla sua morte l'accademico Trasformato Donato Antonio Gravillo con grande dolore disse: "Ios. Baptista gutta moritur:/Heu guttis Baptista perit, qui fulserat alter/Sol; Phoebus guttas quo cadat inter habet". Una sua poesia dal titolo: "Conforta se stesso a non temer la morte" si ascolta: "Un viaggio è la vita, ed è sudato,/tutti siam peregrini, ed è felice/chi dell'ospizio pria giugne alle porte".

      Il sentimento del “peregrino” è uno dei temi affascinanti che apre una interpretazione completamente estetica che riguarda certamente gran parte delle sue lezioni ma incide in molti tracciati poetici e nelle pagine non trascurabili in cui la menzogna entra nel contesto barocco come fenomeno apologetico o forse come modello di un “elogio” o meglio ancora un elogio alla utopia (o forse follia) della maschera.

      Una contemplazione che annienta il presente e sottolinea la dimensione dell'attesa. Da religioso Battista non ha temuto la morte. Con la morte ha sempre stabilito un dialogo. Un passaggio che soltanto la fede può colmare: Ancora nella poesia testè citata si legge si legge negli ultimi tre versi: "Se il sonno altro non è, com'altri dice,/che immagine di morte, ed è sì grato,/più grata del morir sarà la morte".

Battista resta poeta fino in fondo come nella lezione che spesso sottolinea nei suoi saggi Maria Zambrano: “Perso nella luce, errante nella bellezza, povero per eccesso, folle per troppa ragione, peccatore in stato di grazia”.

Credo che questa della Zambrano sia una motivazione con la quale poter rileggere l’opera di Giuseppe Battista, perché soltanto in questi termini è possibile un approccio dentro la contemporaneità.

La sua inquietudine barocca non resta focalizzata, come già si avvertiva, ad un barocchismo ma penetra quei sottosuoli dostoewskjani che toccano le ombre, le luci e gli orizzonti della propria anima. Una religiosità rivelata, comunque, nel tempo mitico vichiano.

È questa l’importanza ma potrebbe anche essere una novità interpretativa, partendo, certamente, dalle poesie per attraversare il suo incontro con la figura di San Francesco di Paola.

Un Battista che è riuscito a focalizzare un rapporto interessante che è quello tra la poesia melica vera e propria e il concetto di assurdo che è molto presente sia nella poesia spagnola che in quella inglese. In una analisi appropriata la comparazione tra il poetico barocco di che attraversa la temperie italiana e quello che si è sviluppato in modo particolare in Spagna diventa fondamentale. Sia in poesia che nelle altre esperienze ed espressioni artistiche.

Ma con Giuseppe Battista va superato il concetto crociano di un Barocco “sorte di brutto artistico” o di “peccato estetico” e va riletto, in una chiava di neoavanguardia, oltre i metodi scolastici antologizzati e meramente didattici e didascalici, grazie ad una comparazione e ad una comprensione di un Barocco come teoria dello sguardo ed estetica dello specchio, ricontestualizzando il dialogo tra la cultura italiana del Seicento e la funzione letterario - artistica ispano – americana e francese

Battista resta certamente un poeta barocco all’interno di una temperie che ha “recitato” la sua trasparente inquietudine sulle traiettorie di un vissuto interiorizzato dentro gli schemi della parola e dell’immagine.

Un barocco senza barocchismi perché aveva nel di dentro, quella sua poesia, la capacità di penetrare processi culturali articolati che hanno toccato il mistero e la religiosità stessa di un mistero che ha bisogno della grazia per diventare espressione fondante qual è stata la scuola di pensiero dalla quale proveniva il poeta grottagliese. Un percorso tra estetica dello sguardo ed estetica delle forme.

Giuseppe Battista e il suo pensiero di una estetica della rappresentazione dell’apparenza come modello di cerniera tra la cultura europeo – mediterranea e l’elaborazione epistemologica sviluppata nel Regno di Napoli. Un tema, questo, che si apre a ventaglio su un poeta dentro l’eredità barocca e “infuturato” nei processi mediterranei.  Proprio per questo penetrare il tessuto della triangolarità tra finzione, bellezza e apparenza nel gioco indefinibile ella rappresentatività il tema della maschera diventa una chiave di lettura che interpreta la dimensione onirica della bellezza.

Un Giuseppe Battista moderno nella contemporaneità e attuale nella quotidianità dei processi culturale e dell’essere e del tempo. In virtù di ciò in Battista è possibile rintracciare un Barocco che va oltre la concezione di Benedetto Croce che considerò il Barocco stesso, in alcuni suoi scritti pubblicati, in una forma articolata ma in un corpus unico, come “una sorte di brutto artistico, e, come tale non è niente di artistico, ma anzi, al contrario, qualcosa di diverso dell’arte…”.

Battista grazie alla maschera come concetto definitivo dell’assurdo nella vita recupera il Barocco dell’estetica dell’apparenta e la filtra attraverso all’immaginario creativo che acquisisce una eredità illusoria in quel campo estetico che è fatto della civiltà della rivelazione della parola. Battista visse nell’attraversamento del Rinascimento e della Controriforma in un contesto in cui l’arte assumeva i contorni di una profonda sensualità sia fisica che onirica.

La sua lezione dedicata alla “Apologia della menzogna”, lezione che proviene dalla Giornate Accademiche,, si inserisce chiaramente in un quadro in cui la tradizione diventa fondante ma anche in una dimensione di avvertimento di forme sperimentali e innovative. D’altronde tutto il Barocco, dalla Francia alla Spagna, dall’Italia all’Inghilterra sino ai poeti barocchi del Sud America, non si è specchiato nelle forme di un residuo rinascimentale o di una eredità prettamente classica e greco – latina, ma ha dato in indirizzo profondo di sensualità. Si pensi ad Ignazio di Lajola.

Una dimensione cosmica dove l’accostamento con il cristianesimo diventa una passione di spirito intrecciato sulla sensualità di una fede sia carnale che spirituale. Battista, da laico e da religioso, si è costantemente confrontato con un tessuto filosofico che è quello dell’estetica dell’esistenza, ovvero la ricerca della bellezza, di quella Bellezza – Tempo di natura plotiniana ma soprattutto definita nella bellezza come salvezza enunciata da San  Paolo.

Il Barocco spagnolo spesso si è confrontato con le religiosità dei processi culturali e in modo particolare con le varie forme di cristianità. Cosa diversa in Francia dove insistono forme chiaramente sperimentali non solo nei sentimenti e nelle problematiche ma nella struttura linguistica che definisce il verso nella complessità dei linguaggi. In Italia il Barocco è il bello che si vede ma è anche il bello che si nasconde.

Superata la concezione manzoniana del “rozzo insieme ed affettato” il Barocco gioca la sua dimensione onirica su una strategia della teatralità.il teatro non solo come rappresentazione figurata ma soprattutto come visione di un mosaico prettamente onirico.

Il Novecento ha “ristrutturato” sia l’immaginario del barocco e ha recuperato soprattutto la figura di Battista collocandolo sì nel Regno di Napoli ma ridefinito il Barocco non interpretabile soltanto con la geografia italiana ma  trasportandolo tra i luoghi e gli strumenti letterari e artistici che si inseriscono nel tessuto europeo. Per dirla tutta non è pensabile parlare di Battista “bloccandolo” a Grottaglie o nel Regno di Napoli perché la sua lezione anticipa festosamente  due principì estetici – filosofici che sono l’assurdo e la speranza. Principi molto cari sia a kafka che a Pirandello.

Il Battista moderno nella contemporaneità è quello di una indagine critica che lo colloca nella misura di un incontro con Calderon de la Barca o con Quevedo pur non trascurando sia Marino che Manso ma con il concetto di finzione – menzogna si va molto oltre. In fondo la sua teatralità della sintesi è possibile scorgerla anche nella poesia melica e la bellezza è nello sguardo dei personaggi che giocano interno alla grecità e alla santità.

I due estremi, il mito e il sacro, sono tenuti insieme dalla parvenza metaforica della bellezza che traccia non fili di melodramma ma la sinteticità di un senso tragico, qual è la bugia per sopravvivere, e l’ironia. Nella sua “Poetica” che risale al 1676 evidenzia un tentativo di “libertà dello scrittore” con la “qualificazione fantastica” e con l’immaginario metaforico.

La cosiddetta “lirica concettualistica” non è una espressione della poetica, è, piuttosto, una esperienza che va considerata come lirismo di una certezza che è data, appunto, dalla certezza che la bellezza  che non si contrappone alla maschera ma ne è parte integrante.

Qual è il punto nodale di un poeta Barocco come Giuseppe Battista e il suo legame con la poesia di un Seicento che chiama in causa i fenomeni di un linguaggio sperimentale? Un interrogativo che si pone ogni qual volta ci si trova a rileggere il percorso della poesia Barocca che non è rimasta soltanto all’interno di un secolo ma che ha attraversato completamente il suo tempo e la sua contestualità allargandosi su visioni abbastanza motivate culturalmente sino a toccare intrecci con il post – illuminismo e il Romanticismo.

Partiamo da un presupposto centrale. Il Novecento letterario e filosofico come ha considerato il Barocco? Quel Barocco focalizzato intorno al Regno di Napoli?

Due poeti – filosofi italiani hanno tracciato una linea all’interno dei processi estetici – comparativi (tra poesia e filosofia) che rispondono ai nomi di Giordano Bruno (1548 – 1600) e Tommaso Campanella (1568 – 1663).

Quattro poeti spagnoli hanno individuato il futuro del Barocco, ovvero: Calderon de la Barca (1600 – 1681), Gongora (1561 – 1627) Juana Ines de La Cruz (1651 – 1695), Quevedo (1580 – 1645). Uno scrittore sempre spagnolo ha definito nel Barocco nascente il classicismo della follia nell’amore: Cervantes (1547 – 1616). Tre poeti francesi hanno modernizzato il linguaggio dell’aspro lirico manzoniano: Jean De Sponde (1557 – 1594), Pierre De Marbeuf (1596? – 1636?) e Robert Angot de L’Epéronniere (1581 ? – 1640 ?) grazie ad una poesia che potrebbe essere definita teoria della parolibera. Un poeta tedesco: Paul Fleming (1609 – 1640). Un poeta inglese: John Donne (1573 – 1631).

Un quadro articolato dentro il quale la linea Italia, Spagna, Francia trova una sua chiave di lettura tra profilo prettamente estetico – simbolico e quello spirituale – metaforico.

Ebbene, Giuseppe Battista in una antologica del Barocco trova il suo punto di contatto proprio nella “Poetica” che risale al 1676, dove la libertà dello scrittore si enuclea intorno ad un immaginario della bellezza che si fa voce disputante in quel che Leopardi chiamò i piaceri della vanità nel famoso “Dialogo di Plotino e di Porfirio”.

Ecco perché il “classicismo” Barocco di Battista non resta e non può essere considerato soltanto come uno dei tasselli viventi nel Regno di Napoli ma la sua funzione estetico – letteraria ed estetico – filosofico si articola in una stretta comparazione con un Barocco che esce naturalmente dai canoni sia dell’accademia vera e propria sia dal cerchio del legame Marino – Manso per una funzione europeizzante sia del Barocco sia della stessa dimensione poetica battistiana.

Una chiave di lettura che trova conferma nei suoi scritti proprio attraverso l’immaginario della bellezza.

Dimensione poetica? Visione onirica? Sfuggente definizione di una estetica della parola e della filosofia? Un insieme granito che fa di Battista non un poeta soltanto dentro il Barocco ma un indagatore della teatralità del’essere nelle sue sfaccettature in cui la finzione non è l’ambiguo ma il necessario.

L’originalità di questo Battista sembra un gioco perverso ma è un anticipatore di una filosofia che verrà successivamente. Se la sua poesia resta dentro il Barocco la sua lezione sull’estetica della “apologia” porta il Barocco del Regno di Napoli a confrontarsi con i secoli futuri.

 

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