Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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Editoriali, recensioni e articoli di LETTERATURA

Italiana moderna e contemporanea

 

pubblicato il 28 maggio 2009

SENECA IL FILOSOFO SULLA DIFENSIVA

ALLA RICERCA DI PAOLO

di Pierfranco Bruni

 

Nel tempo di Nerone (nato nel 37 e morto nel 68) si incrociano le vite di Seneca e San Paolo. Seneca è il sapiente della difensiva ma che non ha mai osteggiato il viaggio della cristianità. Non per questioni di virtù ma perché ha sempre interpretato le parole dei cristiani con lo spirito della comprensione verso quella ricerca della verità. Non di un verità ma della verità. Questo è uno dei nodi centrali del dialogo che Seneca ha voluta intrattenere con Paolo.

Mi sembra un fatto di grande importanza soprattutto se si rileggono lo scambio di missive apocrife tra i due. Lettere scritte sotto il Regno di Nerone. Non si può prescindere storicamente da questa condizione ma non si può neppure dimenticare l’avvicinamento che cercò Seneca nel condurre le parole di Paolo dentro il senato romano.

Pur essendo state definite Lettere Apocrife, quelle di Seneca a Paolo e viceversa, hanno una chiave di lettura significativa perché impongono realmente una riflessione non solo sulla religiosità ma sulla fede cristiana. Se poi Seneca si sia avvicinato a Paolo perché spinto dal bisogno di verità cristiana è un altro discorso ma resta il fatto che gli scritti di Seneca hanno sempre un particolare di attenzione verso la parola della fede. È un sapiente che non solo conosce i limiti e vive nella mediazione ma fa della tolleranza, questo sì, una virtù.

I suoi scritti già molto prima delle Lettere apocrife manifestano ciò. Penso ad un piccolo scritto dal titolo “La provvidenza”. Seneca scava nei contenuti di Dio e affronta il problema del male e dei giusti. Solo i giusti possono comprendere il segnale del male. Dirà sostanzialmente. Seneca sostiene che Dio mette alla prova. Questo mettere alla prova non è più un concetto laico ma entra nella sfera del divino e del misterioso.

Il cammino bisogna condurlo a termine anche a costo di cadere. Sostiene ancora Seneca. Un segnale che diventa forse un profezia.

Una filosofa che si è posta la questione del tempo cristiano in Seneca è stata Maria Zambrano e pone alcune attente riflessioni. Il senso del viaggio, del tempo, la “misura” della memoria, la nostalgia, la capacità di comprendere il sentimento dell’esilio (nella letteratura e nella filosofia), il rapporto tra destino, mito e sacro, la dimensione offerta dell’eresia o il bisogno di capire l’altro oltre la religiosità non sono altro che tracciati che fanno della filosofia di Marìa Zambrano  una scrittura nell’intreccio della metafisica dell’anima attraverso un “codice” dell’essere che è dettato dal Ritorno alla Tradizione.

Si confronta a tutto tondo, la Zambrano, con le letterature della distanza, dei distacchi ma soprattutto incide un solco nelle parole delle malinconie.

I suoi studi sono nel vento dei sogni e nel tempo della riconquista delle radici. Spagnola, nata nel 1904 e morta nel 1991, ha vissuto il suo tempo di esilio con le immagini delle memorie e in questo suo “mirare” tra i paesi delle sconfitte e delle eredità è riuscita a trovare nella figura e nell’opera di Seneca una di quelle chiavi di lettura con  le quali ha stabilito un dialogo non solo culturale ma soprattutto esistenziale.

Il suo Seneca, (Maria Zambrano, “Seneca”, Bruno Mondadori,) è quello dell’esilio in Corsica, è quello della solitudine, è quello della grecità che mutua il sentiero greco – romano in mediterraneità. È il Seneca che si incontra con Paolo e non si divede nella spaziatura tra cultura pagana e cultura cristiana. Il suo lavoro su Seneca ci riporta ad una interpretazione che va oltre le righe della filosofia stessa.

Per Maria Zambrano (uno dei pochi filosofi che ha riletto in modo comparativo il “personaggio” e l’antifiloso in Seneca) Seneca “non è un filosofo, ed è il filosofo, dicono, a dover essere maturo per la morte, e quasi intriso di essa, come scrivono Platone e Plotino. Non è neppure un mistico come il sapiente orientale, che cerca in vita di annullare la propria nascita, di nascere e poi di cancellare l’agitazione della nascita. È un sapiente sulla difensiva”.

Il punto di discussione che pone la Zambrano ruota proprio intorno al tema del tempo che diventa il tema della vita e della morte in un radicarsi nel mosaico del viaggio – ricerca. Anche il suo incontro con Paolo nella  temperie neroniana si fa “difensiva”. Nelle 14 lettere, considerate apocrife, tra Seneca e Paolo si sottolinea, anche dal punto di vista della “indulgenza” filosofica cristiana o meta-cristiana da parte dello stesso Seneca, una letteratura della difensiva che offre allo spazio – tempo la forza di dialogare sulla storia e persino sugli orizzonti della fede. Nella prima Lettera apocrifa di Seneca a Paolo si legge: “Voglio anche che tu sappia che con la lettura dei tuoi scritti, cioè di alcune tra le molte lettere, da te inviate a città o capoluoghi di provincia…ci siamo profondamente ricreati…”. È Seneca che cerca nelle parole di Paolo non una consolazione ma una via.

Ma è anche Paolo che si appropria della parola di Seneca per dedurre la parola del sapiente che viaggia lungo la strada della difensiva, soprattutto quando Seneca annuncia a Paolo di aver parlato e cercato di spiegare  a Nerone del linguaggio usato nelle Lettere paoline. Ma nelle Lettere apocrife tra Seneca e Paolo si leggono alcuni incisi straordinari.

Seneca scrive a Paolo: “…sei il vertice e la vetta di tutti i più alti monti, non vuoi dunque che mi rallegri se io sono così vicino a te, da essere considerato un altro te stesso?”. E poi più avanti: “Nelle tue lettere il mio posto è anche il tuo: magari potessi considerare come mia la tua posizione!” è Seneca nella XII Lettera a Paolo.

Mentre Paolo nella XIV Lettera risponderà: “…devi evitare le pratiche religiose dei Pagani e dei Giudei e ti farai nuovo testimone di Gesù Cristo, annunziando in forma elevata la perfetta sapienza, che appena raggiunta, farai penetrare nell’animo del sovrano terreno, dei membri della sua corte e dei suoi amici fidati…”.

Una chiave di lettura che potrebbe riaprire un discorso di estremo interesse non solo religioso in sé ma anche culturale tra la teologia di Paolo e il cammino verso una sapienza verità di Seneca.

Ma cosa fa Seneca, secondo Maria Zambrano? La filosofa spagnola (conterranea dello stesso Seneca) scrive: “…il filosofo stoico non è un filosofo che è diventato tale per amore della sapienza, per ansia di verità, ma che è andato alla ricerca della verità come rimedio per la sua vita”.

Quella ricerca che è stata considerata sempre un viaggio sia dentro il destino sia dentro la possibilità di leggere il messaggio cristiano. Una duplice valenza che ha posto a Seneca il problema sia metafisico sia dell’anima. Paolo ha avuto una importante presenza e la ha avuta proprio nel momento in cui Seneca si appresta a morire. Quel pensare alla morte si dividono, forse, i ritorni.

Per Seneca, come ci dice la Zambrano, la morte fu “un tragico fallimento, il fallimento dell’intellettuale di fronte al potere”. Per Paolo fu la speranza, il tempo dell’incontro cristiano, con Cristo. Seneca nel morire ha perso Cristo. Ha perso, forse, quella “Paternità” alla quale fa riferimento San Paolo nella Lettera ai Galati.

Ma è nel concetto di sopportazione e di serenità che il linguaggio di Seneca a Paolo e viceversa trova il segno tangibile di un incontro che è volto a “combattere la buona battaglia” con le vele spiegate.

Paolo nella VI lettera apocrifa dice a Seneca: “Dobbiamo portare rispetto a tutti, tanto più quando cercano pretesti per sfogare il loro sdegno”. Un messaggio proprio all’insegna della cristianità del viaggio. Seneca saprà cogliere questo invito. Con la sua morte.

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pubblicato il 24 maggio 2009

Taranto sulle rive dei poeti del Novecento

Pierri, Carrieri, Spagnoletti, Fornaro

 di Marilena Cavallo

 

      Sulle rive della poesia ionica di Taranto parlando di Novecento. Ci sono sviluppi tematici e profili letterari importanti sia dal punto di vista geografico – poetico che umano. Taranto è dentro i profili  della poesia italiana del Novecento. C’è da dire che la poesia contemporanea trova nella dimensione dei luoghi una tensione lirica che diventa fondamentale per una contestualizzazione di una geografia che non è soltanto una visione del sentimento dell'anima e dell'essere ma di un sentimento dell'appartenenza.

      Il luogo come territorio, il paese o la città come rapporto fisico con l'esistente, le strade come metafora di un tracciato che indica un viaggio. Il tutto in un intreccio in cui il suono della memoria incontra il presente. Gli echi del tempo sono filtrati dalla realtà e la parola diventa un linguaggio ovattato da simboli che recitano il quotidiano che è custodito nel sempre. Poeti solari, nella affermazione dei luoghi.

      La poesia, ma la letteratura in senso più generale, trova nelle immagini un codice che è semantico certamente ma è sostanzialmente destoricizzato perché vive il luogo, ovvero il territorio, come partecipazione al tempo della memoria. un percorso come testimonianza.

      Allora. Michele Pierri (Napoli 1899 - Taranto 1988), Raffaele Carrieri (Taranto 1905 - Milano 1982), Giacinto Spagnoletti (Taranto 1920 - Roma 2003), Cosimo Fornaro (Taranto 1928 - 1992), sono un percorso in una poesia che ha tratteggiato quei luoghi della Magna Grecia che ha trovato in una città come Taranto l'incantesimo della magia delle radici. Il cuore del Mediterraneo che pulsa tra il mare e la ricerca delle radici.

      Quattro poeti che segnano, nella temperie contemporanea, pur in una diversità generazionale, una ridefinizione di un rapporto tra luogo dell'essere, luogo dell'esistere, luogo delle radici, luogo della partenza. Il territorio per questi poeti è una dimensione della spiritualità e il linguaggio della poesia costituisce l'ancoraggio a delle metafore che superano il tempo quotidiano. Un tempo fatto di allegorie.

      C'è un legame costante tra tempo e territorio e il tempo resta un sillabario che proviene da una straordinaria impaginazione dell'infanzia. Un'infanzia vissuta nel luogo e il dialogo tra luogo e poesia diventa un raccordo dell'immaginazione  che trova nel ricordo una chiave di espressione esistenziale. Immaginazione su un tempo e su un luogo e non finzione e non mascheramento. Il senso del ritorno è un sentimento.

      Pierri pur non essendo nato a Taranto in questa città si ritrova e rilegge i segmenti di una civiltà che lo portano a determinare una scelta che ha rimembranze remote, dipinte in un quotidiano vivere perché del luogo, di questo luogo, conosce gli intagli e i nascosti anditi della sua storia. Un poeta del sublime che ben ha saputo raccogliersi in una geografia dell'essere. Una geografia che si incastra nella memoria. 

      Carrieri ha recitato il mare nell'infinito destino dei viaggiatori che cercano un approdo. Il mare della sua infanzia è nell'indefinibile desiderio di raccogliere i cocci di una stagione di tempo che vive dentro l'anima. "L'infanzia/Del mare/Mescolai/Alla mia". L'intercalare espressivo è un salto rievocativo che non smarrisce, comunque, le tracce del mito che danno un senso indelebile alla storia stessa di un luogo.

      Giacinto Spagnoletti ha decodificato atmosfere e stagioni, paesaggi e passaggi di una città troppo legata ai suoi antichi radicamenti. Così. "Mi parevano così lunghi quei tramonti/soffocati dal gorgo delle rondini/e dagli addii delle campane./Tardi s'accendevano i fanali,/le acetilene scoprivano i meloni e le cozze/all'occhio dei passanti". La luce e le stagioni in un Mediterraneo che è ricordo d'infanzia.

      Nella ragnatela poetica  di Cosimo Fornaro ci sono lampi in cui il tremore dell'infanzia è una sottolineatura lirico - esistenziale di estremo appagamento. "Nella città il sole si coglie a spigoli o a strisce tra le file dei palazzi o gli angoli delle strade. Nei paesi no. Non lo si vede perché splende uniforme con una violenza che ossessiona, specie in estate".

      Il territorio è un'espressione del tempo - memoria che si articola in un intreccio parossistico alla cui base c'è l'incontro reale e metaforico con la dimensione dell'appartenenza. Il territorio è appartenenza e nella poesia si legge come un modello rappresentativo singolare. Ma è sul territorio che i poeti si ritrovano. Territorio dell'anima e della storia.

      Poeti che hanno delineato non dei messaggi ma hanno definito, appunto, delle immagini. Immagini che durano proprio perché sono state trattate attraverso il linguaggio che trasmette. Un altro autore che entra come riferimento tra i destini delle metafore che raccontano un territorio come sistema di appartenenza ad un luogo della geografia e dell'essere (per restare chiaramente all'identità di Taranto come testimonianza del presente e spiritualità della grecità) è senza alcun dubbio Giulio Cesare Viola (Taranto 1886 - Positano 1958). Uno scavo nella coscienza di un luogo ma anche una riaffermazione di una identità che ci porta a quel mondo classico che è presente in tutto gli altri poeti citati.

      Il luogo è appartenenza perché è radicamento. Una esperienza che non è sociologica ma letteraria. Il luogo per un poeta non giunge ad altre affermazioni se non attraverso ragioni che non siano poetiche. Perché è nella poesia che la geografia del territorio si fa essenza lirica. Cogliere nella parola questa essenza lirica è dare un significato ai valori di una identità. E' il luogo che manifesta i codici identitari. Luoghi che si intrecciano e che si parlano nella meraviglia di una consapevolezza.

      I poeti si portano dentro le allegorie dei luoghi, i quali non vengono mai sepolti ma recitati sulle onde di un vento che raccoglie nostalgie. Pierri per una sua esperienza tra testimonianze di città: Napoli e Taranto. Carrieri tra Taranto e Milano. Spagnoletti tra Taranto e Roma. Fornaro ha viaggiato nella sua Taranto recuperando il lirismo di quei luoghi che sono metafora dell'indefinibile. Poeti della nostalgia.

 

      I poeti sono, in fondo, i trasmettitori di relazioni simboliche che resistono all'urto della storia. Non una operazione educativa ma di scavo e conoscenza. D'altronde un grande poeta contemporaneo ha saputo recitare il passo e le voci di Leonida:

 

"Molto lontano dormo dalla terra

d'Italia e dalla mia patria, Taranto.

 Questo è per me più amaro della morte.

Tale è la vana vita d'ogni nomade.

Ma le muse mi amarono, e per tutte

le mie sventure mi diedero in cambio

a dolcezza del miele.

l nome di Leonida non è morto.

I doni delle Muse lo tramandano

per ogni tempo".

 

      Per questi poeti le partenze non sono state delle fughe e neppure dei tradimenti. Forse degli abbandoni. E ritornare è riappropriarsi di un tempo. Un tempo e un luogo. Tempo e luogo sono mediazione in una poesia che è dimensione del sacro. In fondo i luoghi nel tempo sono disegni in una memoria che è sacralità. La cultura del territorio è un luogo del mito che chiede al sacro di esprimersi. La poesia è in questo meraviglioso incontro che recita memoria e mistero. Proprio sulle rive della Magna Grecia la poesia del Novecento tarantino offre chiavi di lettura di straordinaria importanza che restano come pietre miliari per un confronto con tutta la letteratura del Novecento italiano.

 

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pubblicato il 24 maggio 2009

 

Dalla Calabria a Taranto nella Magna Grecia di George Gissing.

Ripercorrendo “Sulle rive dello Ionio” come Mediterraneo delle contaminazioni

 di Pierfranco Bruni

 

       La Magna Grecia dei viaggiatori. È un tema affascinante e anche misterioso. Affascinante perché tocca nel de dentro alcuni particolari che per noi “viaggiatori” o “stanziali” italiani non riusciamo a catturare e tutto ciò che loro riescono a percepire ci sembra (e forse lo è) insodabile ma tale non è. Misterioso perché è il mistero che ci trasmettono a renderci la nostra terra più vicina al nostro destino e il senso del mistero diventa sempre più impenetrabile ma lo è perché è già dentro di noi quel senso di mistero al quale il più delle volte non diamo importanza.

      La Magna Grecia dei viaggiatori è fatta di tante piccole realtà che recitano civiltà e culture greche e romane. Ma la grecità è proprio il segno del nostro essere. Tra i viaggiatori di fine Ottocento George Gissing ha tracciato un raccordo tra la sapienza e la realtà nel presente (nel suo presente certamente). Ha raccontato, viaggiando,  storie di una Magna Grecia non unica. Non una sola Magna Grecia. Ma più di una storia della Magna Grecia chiaramente legata ai luoghi, ai territori, alle geografie.

      Da Napoli alla Calabria e da Taranto all’interno dell’intreccio tra Ionio e Tirreno. La Calabria di Crotone, di Catanzaro, di Reggio è uno spaccato indelebile. Indimenticabile. Quella Crottone della colonna di Pitagora dentro il mare ionio che è sempre più la testimonianza di un Mediterraneo infinito non come realtà geografica ma come luogo di una antica memoria. Così tutta la Calabria.

      Il viaggio di Gissing, in fondo, non è un viaggio alla ricerca della Magna Grecia, sulle rive dello ionio, ma è un viaggio nella saggezza del Mediterraneo. Mi sembrano molto incisive le pagine e le meditazioni su Taranto. Quella Taranto che si lega a Sibari, e prima a Metaponto o a Heraclea. Un viaggio al centro, appunto di un destino che è quello della mediterraneità.

      Taranto come chiave di lettura con la Calabria nel cuore. George Gissing giungendo a Taranto alloggia in un albergo che ha una vista sul porto. Giunge nella città dei due mari con l’intenzione di fermarsi per un paio di settimane. La prima immagine è quella di una città non ancora moderna o ammodernatasi in modo disarticolato e pregna di una atavica malinconia. In una sua prima annotazione si legge: “…grandi costruzioni di una pietra bianco giallastro tra le peggiori che l’architettura moderna possa concepire, sorgono là dove i Fenici, i Greci e i Romani costruivano nello stile di un nobile dei loro tempi”.
      Taranto non come cartolina ma come vissuto, come impatto immediato e mediatico, forse, all’interno di quegli intagli e di quei luoghi non luoghi che, chiaramente, la rendono più viva e più vera. Anche Crotone non è mai una foto scattata nell’immediato. Crotone è nei personaggi oltre che nei luoghi. Quella Crotone che assorbe civiltà, storie e misteri.

      Taranto, Gissing, inizialmente,la vive come un immaginario. Spesso se la costruisce nella mente. Visita il territorio. Passeggia in quelle tratture o in quelle mulattiere di mare e vi scava ricordi e memorie. Rincorre il Galeso, dove si troverà? Una volta trovato non gli dice nulla anzi si chiederà perché Orazio lo ha amato tanto. Ma poi la rilegge nella sua storia, la riscopre, la incastona in quella sua spiritualità inglese che ha abbandonato per far spazio ad una classicità Mediterranea con la quale  avvierà una indagine che è, soprattutto, esistenziale e non mancheranno appunti che risulteranno di grande importanza non solo per i viaggiatori stranieri ma per gli stessi italiani.
      Scriveva George Gissing nel suo “Sulle rive dello Ionio”, la cui prima edizione risale al 1901, una pagina significativa di una Taranto fine Ottocento e poneva all’attenzione degli aspetti e degli elementi di natura sia archeologica che antropologica. Gissing andò a Taranto né come viaggiatore né come pellegrino ma con l’obiettivo di riscoprire il senso di una eredità che è quella grecoromana.
      Gissing a Taranto, come attraversando la grecità soffusa e immensa della Calabria, non è il viaggiatore inglese giunto con lo scopo di lasciarsi ammagliare dal fascino della Magna Grecia perduta e rintracciabile soltanto in qualche pezzo archeologico o nei simboli di un mare che porta echi di Mediterraneo. Ma voleva capire il sentimento di una città attraverso quella pagina che pone insieme il dialetto di una città e il senso di una appartenenza nella misura o nella dilatazione del tempo.
      Infatti, egli scrive : “ Anche se Taranto fa ogni sforzo per adeguarsi alla modernità e al progresso, c’è una forza ritardatrice che per ora non accenna a diminuire: la profonda superstizione della gente”. Quindi, individua immediatamente un elemento che va oltre lo spirito del viaggiatore perché lo scavo che si impone è quello di una visione prettamente etno-antropologica che risale a i suoi studi giovanili e quindi ad un tempo che è stata la sua giovinezza.

      Il suo viaggio in Magna Grecia, quella Magna Grecia greca e romana successivamente, diventa così, un viaggio alla ricerca di se stesso e di viaggi in Italia ne compie tre. Il suo cercare e il suo ricercarsi nella grecità soffusa gli fa annotare : “I suoni della Grecia e dell’Italia mi attirano come nessuno altro; mi riportano alla mia giovinezza”. Ed è la giovinezza grecoromana che si agita nella sua formazione e che troviamo in molti altri suoi scritti sia narrativi che saggistici.
      Da Taranto a Crotone da Crotone a Reggio Calabria e da qui a Napoli: riferimenti che sottolineano ancora oggi una forte attualità perché questa sua letteratura di viaggio si impone necessariamente come letteratura-viaggio, in quanto riesce a distinguere la diversità dei luoghi e ad affermare un concetto molto forte che è quello di un Mediterraneo grecoromano che si confronta con gli altri mediterranei. Non c’è un Mediterraneo unico ma insistono diversi mediterranei che si mostrano con le loro differenze. Così come ci sono diverse realtà della Magna Grecia. La linea o il semi cerchio che va dal Golfo di Taranto a Crotone è il fascino del mistero che lega Archita a Pitagora e viceversa.
      La geografia –luogo di quella che fu la Magna Grecia e che storicamente e politicamente divenne Regno di Napoli non può che identificarsi unicamente, secondo Gissing, nel Mediterraneo grecizzato e latinizzato dentro il quale archeologicamente e storicamente le città come Taranto Sibari Crotone Reggio Calabria  hanno giocato un ruolo di primaria importanza anche dal punto di vista commerciale ma più profondamente culturale.
      Questo non significa che bisogna trascurare le contaminazioni con gli altri mediterranei e anche all’interno della stessa Magna Grecia. Taranto è stata Magna Grecia ma anche nell’Ottocento si è dovuta confrontare con quelle contaminazioni e con quei modelli di meticciato che “invadevano” tutto l’arco ionico.
      Taranto, è definita da Gissing, città dei pescatori tanto che nel suo testo afferma: “Questi pescatori sono i primitivi di Taranto; chi può dire per quanti secoli hanno tirato in secca le loro reti sulla scogliera? Quando Platone visitò la scuola di Taras, vide le stesse figure dalle gambe brune con un abito quasi identico, intente al loro racconto marino”.
      Gissing, comunque, non è un sognatore-scrittore che viaggia. Anche viaggiando riesce a cogliere la frammentarietà di un paesaggio attraverso il linguaggio della letteratura e il mosaico è sempre quello antropologico e gli offre la capacità di leggere con molta sincerità le pagine nascoste nei luoghi. Parlando dell’arsenale ebbe a scrivere : “ …se almeno si potesse credere che l’arsenale significasse davvero u bene per l’Italia…” .
      Ma spesso ritornava al mito grecoromano con una cesellatura racchiusa in questo scatto : “Socchiudendo gli occhi si poteva immaginare la vera Tarentum”. Gissing ci riporta chiaramente ad uno scrittore viaggiatore italiano che è Carlo Belli ma sono due epoche e forse due modelli culturali oltre ad essere due spaccati di una stessa geografia visti da un inglese e da un italiano di Rovereto.
      Comunque, Taranto è una chiave di lettura per questi scrittori che hanno lasciato un segno tangibile di una Magna Grecia in una età dove non c’è più la Grecia arcaica ma c’è una eredità che è dentro quel “destino” che è il Mediterraneo tra i luoghi che si stringono tra Taranto, Sibari, Crotone, Locri, Reggio.
      Per Gissing Taranto è stato destino nella Magna Grecia e in quella sua epoca (nato nel 1857 e morto nel 1905) tardo romantica resterà destino tanto da fargli dire che volgendo il suo pensiero all’Italia, a quell’Italia della Magna Grecia, ritornava spesso alle sue origini e alla sua formazione culturale.

      Questo destino di Taranto si intreccia con quello di Sibari distrutta nel 510 dai crotniati e della stessa Crotone e poi di Reggio. Una Magna Grecia definita che, tra le parole e le pagine di Gissing diventa infinita e forse indefinibile. Ma Gissing ci ha regalato immagini indimenticabili. Un viaggiatore tra le pieghe dei luoghi e dentro le letterature. In fondo la Magna Grecia resta non solo un territorio ma una cultura delle contaminazioni all’interno del Mediterraneo.

 

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pubblicato il 21 maggio 2009

Difesa della lingua italiana e “revisione” della normativa sulla tutela delle minoranze linguistiche in Italia a dieci anni dalla emanazione

Tra le lingue e le culture storiche che occorre tutelare bisogna necessariamente inserire anche quelle Armene, Rom e Sinti

 

di Pierfranco Bruni

 

Occorre difendere la lingua italiana sia dal punto di vista culturale che giuridico. C’è un dibattito in corso che interessa la tutela della lingua italiana. Un dibattito che parte da molto lontano. Occorre ristabilire una dialettica sia giuridica che culturale sulla modifica dell’Articolo 12 della costituzione. In un tale contesto credo che sia necessario rivedere e quindi riconsiderare anche la Legge (la 482/99) sulla tutela delle minoranze etnico – linguistiche storiche.

Una Legge che va rivista nella sua struttura, va riconsiderata alla luce di un decennio che ha visto diverse trasformazioni nel campo delle minoranze linguistiche in Italia e andrebbe riscritta. O meglio va ricontestualizzata. Ci sono alcuni motivi di fondo.

Prima di tutto (ovvero primo elemento) è necessario parlare di “presenze” minoritarie e non di minoranze vere e proprie. Il discorso è sottile ma qualifica e diversifica la questione sia politica che giuridica e culturale.

Secondo elemento non può interessare soltanto la lingua e le culture o la Pubblica Istruzione ma deve creare la possibilità di comparazioni altre e questo nonostante il successivo Regolamento non si evince con chiarezza.

Terzo elemento: bisogna alleggerirla e aprirla ad un confronto con le identità nazionali. Non la si può circoscrivere ad una tutela e ad una promozione della tutela soltanto delle minoranze non tenendo conto che queste minoranze sono “presenze” nel contesto territoriale italiano, regionale e provinciale. Contesto che ha già un suo dialetto.

Quarto elemento: le 12 minoranze linguistiche di cui parla la normativa sono ampiamente superate anche se ci si riferisce ai livelli storici. Un solo esempio: è necessario inserire nella tutela la lingua e la cultura armena come è da riconsiderare le culture e le lingue dei rom e dei sinti presenti sul territorio italiano.

Quinto elemento: non può essere considerata come un serbatoio dove attingere economie per una tutela che, a volte, è abbastanza mediocre dal punto di vista della proposta culturale.

Quindi occorre rivederla nella sua struttura e nella sua complessità. Gli stessi Sportelli Linguistici, nei territori interessati, dovrebbero avere una funzione di forte incisività culturale e invece sono molto limitati.

D’altronde il dibattito sulla modifica dell’Articolo 12 va a cambiare logicamente la Legge in questione e perciò occorre necessariamente ricontestualizzare la tutela delle minoranze storiche sulla base della difesa della lingua italiana e dell’identità italiana. Una riflessione di altro tipo, comunque, va rivolta a questa normativa sulla base di alcuni principi.

La presenza delle minoranze etnico-linguistiche in Italia, riconosciute come tali, va considerata almeno  secondo tre aspetti.

Il primo aspetto è, certamente, storico in quanto occorre capire e analizzare il rapporto tra la loro provenienza e la contestualità territoriale nella quale le stesse minoranze si sono stanziate. In tale aspetto rientra certamente una meditazione e una valutazione delle influenze che si sono verificate nel momento in cui le minoranze si sono insediate all’interno dello stesso territorio italiano e all’interno di un particolare assetto geografico. Perché un loro insediamento ha contribuito a creare una rete estesa di legami e di rapporti con le popolazioni già esistenti sul territorio e nelle strette vicinanza e quindi essendo state popolazioni aggiuntive al territorio si è verificato un incontro tra storia, modelli di civiltà e tra assetti territoriali stessi. Proprio per questo è necessario approfondire quelle valenze storiche che nel corso dei secoli hanno portato alla luce modelli di identità. 

Il secondo aspetto è, chiaramente, quello che riguarda gli elementi giuridici. In realtà una minoranza linguistica per resistere su un determinato territorio o all’interno dell’intero Paese Italia ha necessità di essere tutelata grazie a precise normative che devono garantire la salvaguardia della loro presenza attraverso apposite leggi stabilite sia a livello nazionale sia a livello regionale ovvero locale. Su questo tema si sono sviluppati diversi dibattiti ma resta fondamentale ciò che stabilisce la Costituzione della Repubblica Italiana. O meglio occorre far riferimento costantemente all’articolo 6 della Costituzione nel quale si sottolinea : “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.

Eravamo nel 1948, da allora la discussione sia giuridica, istituzionale e parlamentare è stata abbastanza articolata e vasta. Proprio partendo dall’articolo 6 alcune regioni nelle quali ricadono le presenze minoritarie si sono sentite in dovere di proporre e attuare delle normative e delle leggi in grado di tutelare e promuovere le realtà etnico-linguistiche ricadenti, certamente, nel territorio di competenza. Sulla scorta di una discussione che è continuata per anni soltanto nel 1999 è stata promulgata una legge che sancisce “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”.

La legge in questione è del 15 dicembre 1999 n. 482 ed è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.297 del 20 dicembre 1999, il cui regolamento di attuazione è andato in vigore il 28 settembre 2001.

In questa legge si sancisce come recita l’articolo 2 : “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche e slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.

La legge che è costituita da 20 articoli punta, certamente, a valorizzare il patrimonio linguistico e culturale ma anche sottolinea l’importanza della valorizzazione della lingua e delle culture. Quindi non solo tutela la lingua ma anche il  tessuto culturale di cui le minoranze sono portatrici. C’è da ribadire,comunque, un dato significativo sul quale la discussione è di estrema attualità : l’articolo 1 di questa legge ribadisce “La lingua ufficiale della repubblica è l’italiano”. In virtù di tali elementi si è aperta la discussione, di recente, proprio sull’articolo 12 della Costituzione in materia di riconoscimento dell’italiano quale lingua ufficiale della repubblica.

È necessario, chiaramente, approfondire i risultati che  hanno portato la legge n.482/ ’99 non solo dal punto di vista giuridico ma anche dal punto di vista storico e proporre che tipo di incidenza politico-culturale nel corso degli anni si è innescato anche alla luce della autonomia regionale.

Il terzo aspetto è prettamente culturale e interessa in modo particolare la ricostruzione di queste presenze e della loro incidenza storico-sociale. Ciò ha portato ad una discussione sul concetto di etnia, ovvero della valenza storica dell’etnia in Italia a partire sia dall’Unità d’Italia e successivamente dal 1948 alla L. n. 482/ ’99.

La questione riguarda le presenze minoritarie storiche e si guarda con attenzione a quelle presenze definite stanziali e non migratorie. Un inciso che è prettamente culturale  in quanto si ribadisce  il fatto che si tratta di presenze minoritarie all’interno di culture nazionali e non tout court di minoranze linguistiche. Ogni realtà di presenza minoritaria ha vissuto un impatto particolare con il territorio sia in termini di incisività storica sia sul piano culturale attraverso usi, costumi, tradizioni ed elementi etno-antropologici e letterari che andrebbero analizzati sia sotto il profilo storico sia sulla base di moduli normativi sia  attraverso una residuale presenza linguistica e perciò culturale.

Detto ciò, bisogna ritornare sul dettato sottolineato all’inizio. Occorre porre al centro la tutela della lingua italiana. Bisogna difendere l’Italiano e l’italianità nella lingua e nella cultura, nella storia e nelle eredità. Oggi più che mai va difeso il concetto stesso di italianità perché rimanda all’idea vera di Nazione. Senza nulla togliere alla presenze delle “isole” minoritarie ma bisogna avere la consapevolezza forte che restano delle isole linguistiche. Attenzione a non confondere il valore antropologico con quello storico, il valore di una letteratura nazionale con quello di una frammentazione “etnica”.

Ci sono realtà che vanno salvaguardate perché sono il portato di una storicità che va ben oltre il 1861. E’ necessario riflettere su tali questioni perché è necessario difendere una lingua e con la lingua l’eredità nazionale.

Le presenze minoritarie devono essere certamente tutelate ma all’interno di una tale temperie. Ecco perché la normativa del 1999 diventa ormai quasi obsoleta sia sul piano culturale sia sul versante di una analisi storica sia su quello giuridico. L’Articolo 6 della Costituzione è un riferimento certamente ma il dibattito e le posizioni sulla modifica dell’Articolo 12 impongono un diverso modo di approccio allo stesso Articolo 6 che riguarda, appunto, le minoranze linguistiche ed etniche storiche.

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pubblicato il 9 maggio 2009

Pio Rasulo in "La lunga notte della civetta"  racconta come la letteratura si fa antropologia

  

di Marilena Cavallo

 

      Pio Rasulo in "La lunga notte della civetta"  compie un viaggio nella civiltà di un popolo e di una cultura. Ora ripubblicato in una veste sobria e accattivante con in copertina un disegno di Carlo Levi. La prima edizione uscì addirittura nel 1963. questa nuova edizione è arricchita da un significativo saggio di Antonio Basile che fa posta fazione.

      Subito si legge: "Troppe cose m'avevano fatto credere che mai più avrei trovato su questi monti gli stessi pastori di allora, ridotti solo nel numero, quelle stesse case che per decenni hanno raccolto da ognuno pochi argomenti, parecchie speranze e molte preghiere. Avevo creduto che la guerra avesse distrutto anche il mondo vergine e acerbo, magico e primitivo: un mondo tradizionale, fatto sempre di uguali rapporti, che perpetua nel Sud la cosiddetta 'civiltà contadina'".

      In questo viaggio il significato e il significante si incontrano per raccontarsi la celebrazione del ricordo. E c'è tanta nostalgia. La nostalgia dei paesaggi che ritornano ed è come se si vestissero di sogno: "La nostalgia dei monti carichi di neve, del focolare domestico, del bel presepe artistico della piccola chiesa non li abbandona mai".

      E' sostanzialmente un attraversamento di paesi. Sono i paesi della Lucania. I paesi di Isabella Morra, di Rocco Scotellaro, di Leonardo Sinisgalli, di Carlo Levi, di Rocco Montano. Ci sono i contadini del Sud: quelli che recitano malinconia e nenia, fatica nei campi e alzate nelle ore antelucane. Usi e costumi. Riti e liturgie. Miti e leggende. Canti e rosario recitato.

      Tra i paesi della Lucania e della Puglia ci sono immagini mai dimenticate. Ogni paese o ogni cittadina ha il suo ritratto. Un ritratto che resta indelebile. Con i colori delle fotografie in bianco e nero riporta sulla scena gli antichi scenari rituffandoli nel presente. Un presente che era ieri e che oggi il tutto si legge con una pacata malinconia che sa di tempo depositato nel cuore. Tira fuori tutta quell'anima impregnata di tradizioni che lasciano segni nel cavo della mano.

      Immagini che decodificano un vissuto e disegnano il cammino di un tempo: "A Stigliano ci svegliò la notte del 17 gennaio uno strano tipo di rumorosa processione; a Pisticci c'è il rauco suono della 'cupa - cupa'". La nostalgia ritorna nello spezzettamento delle ore e il tutto si intreccia. I fenomeni storici con gli eventi naturali. Il brigantaggio con i suoi briganti con il canto religioso.

      La grande nostalgia di un popolo è nella magia della poesia. Una poesia che è anche linguaggio. Si legge: "Da Orazio ai nostri giorni centinaia di poeti lucani hanno sintetizzata liricamente la vita del loro popolo in ogni manifestazione, inquadrata secondo le istanze storiche, economiche e sociali del tempo. Quasi tutti hanno rilevato un attaccamento ed un amore pensoso per questa loro terra amara. Anche quando i versi esprimono ansia di evasione si sente in essi una nota dolente, permeata di sofferenza e di malinconica nostalgia".

      Citazioni che ci riportano a un mondo che è quello che resta nella nostra memoria e nel nostro vissuto e ritorno come viaggio della nostra (o nella nostra) interiorità. Veniamo tutti da un mondo contadino. È un insegnamento,quello di Rasulo, ricco di valori che richiamano i segni di una tradizione che è dentro il nostro tessuto territoriale e umano.

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pubblicato il 9 maggio 2009

L’attualità di Leonardo Sciascia a 20 anni dalla morte. Uno "scrittore-contro" nella contemporaneità

 

di Pierfranco Bruni

   

      Venti anni fa moriva Leonardo Sciascia. Impegno civile e letteratura. Due percorsi che hanno dato vita a un processo culturalmente omogeneo ma che è stato fondamentale per capire una “certa” Italia sia sul piano politico che su quello culturale. Sciascia era un contemporaneo nella contemporaneità ma riusciva a vivere il “suo” tempo nel tempo della storia e la storia, non quella che offriva nei suoi scritti o mostrava attraverso la sua dialettica e la sua capacità di afferrare gli eventi, era una frantumazione di particolari, di elementi culturali, di modelli esistenziali. I personaggi che portava sulla scena avevano sempre un’anima e i paesaggi che mostrava non erano sempre dei luoghi geografici ma dei riferimenti esistenziali che avevano una penetrazione etica, morale, letteraria.

      Nei suoi personaggi quell’anima non era sempre un’anima cosiddetta civile ma il più delle volte emergeva una coscienza enigmatica. Il mistero era per Sciascia un’avventura ma anche un destino. Uno scrittore calato nella profondità siciliana. Una sicilianità che significava Mediterraneo. Un incrocio tra civiltà abbandonate sulle onde del Mare arabo, sulle colline, lungo i corridoi dei paesi del Sud, nelle piazze che si traducevano in agorà, nel sospetto dei sogni, nella falsità degli uomini persi alla ricerca delle ricchezze improvvise o improvvisate. Ebbene Sciascia aveva la consapevolezza che i personaggi e gli uomini si sentivano aggrediti dal destino e dal peso delle avventure. E il tutto in una rocambolesca messa in scena nel teatro fittizio dei giorni.

      Un pirandelliano (o un pirandellismo) che incontra un’essenza gattopardiana (gattopardesca). Due capisaldi, al di là dei suoi testi sulla mafia e sulla condizione della sua Sicilia in un tempo di mafie e di sconfitte morali, sono certamente Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Il mistero e la comprensione che ci deriva dalla storia. Un’unica chiave di lettura che ha un suo senso e che diventa un processo esistenziale il cui centro è segnato dall’incontro tra la natura e l’uomo.

      Da qui la malinconia che esplode dalle sue parole. Parole che sono sguardi, non attimi fuggenti, e marcano identità e radicamenti. La malinconia di Sciascia è già in Le parrocchie di Regalpetra. E poi in Il giorno della civetta pur essendo un romanzo in cui si parla di mafia. E ancora malinconia in quella ricerca di una verità che passa comunque attraverso il “sapore” della falsità. La verità è una falsità purificata. Mi riferisco a Il consiglio d’Egitto, a Morte dell’inquisitore e ancora A ciascuno il suo, a Il contesto e mi fermerei, in questa fase, a L’affaire Moro. Quest’ultimo lo considero un testo chiave.

      Perché ha dentro di sé almeno tre dimensioni. Quella storica. Quella romanzesca. Quella politica. Ovvero. L’analisi di un contesto che raccoglie l’aspetto sociale, ideologico, umano. La centralizzazione del personaggio Moro è una proiezione letteraria che si focalizza non solo in quella tragedia ma in uno scavo che permette di addentrarsi nell’avvenimento in sé ma anche nel destino di Moro stesso. Moro non è soltanto lo statista è, in Sciascia, un personaggio della tragedia. Qui l’aspetto letterario me sembra fondamentale ed eccezionale. Il dato politico non prescinde da un processo che è etico, morale ed esistenziale e ha radicamenti che vengono da molto lontano.

      Storia, letteratura e politica. Ovvero ancora: memoria depositata, metafora, cronaca. Tre forme del pensare, dell’essere e dell’agire che trovano nei suoi scritti una chiave di lettura che si condensa in quello stato di malinconia che si troverà in modo emblematico in Il cavaliere e la morte. Ritorna il pirandellismo e il gattopardismo. In uno scritto su Tomasi di Lampedusa Sciascia ha scritto: “Immutabile è il destino dell’uomo siciliano; immutabile dovunque, nell’atroce successione dei fatti che le idee muovono, il destino umano: un destino da contemplare, fuggendo dallo spavento della storia, nello spavento cosmico di Pascal”. E poi ha affermato che don Fabrizio in Il Gattopardo “si accorda alla precarietà della vita e alla infinità della morte”.

      Vita e morte sono i codici di una Sicilia che incarna non solo il suo mondo ma, secondo Sciascia, il mondo in sé. E questo mondo in sé è una costante rivelazione che si serve di due categorie: del senso dell’ambiguo e della certezza che la verità passa attraverso, come già si diceva, la finzione. Per Sciascia la scrittura è un messaggio in codice che trasporta sulla pagina frammenti di realtà. Ma la realtà è un filtro che processa il quotidiano e va dentro la storia.

      La menzogna che occupa la storia può essere sconfitta dall’intelligenza della critica. E’ su questo che Leonardo Sciascia ha percorso il suo viaggio culturale e letterario in particolare. Un viaggio che si legge soprattutto con il coraggio del rischio. Sciascia aveva il coraggio del rischio anche quando scrisse quel “brutto” articolo sui professionisti dell’antimafia. Forse non capito o forse troppo forzato ma che ha lasciato molti dubbi.

      Ora Sciascia è diventato un personaggio tra i personaggi che egli stesso ha costruito o “falsificato”. Un personaggio che non aveva condiviso l’incontro tra il rosso e il bianco del 1978. Che non aveva mai accettato l’immagine di una Sicilia “illuminata” dagli scoppi della lupara. Che non avrebbe chiaramente condiviso tutte le polemiche politiche sui fatti di mafia di questo decennio passato. E forse avrebbe completamente riscritto quell’articolo sui professionisti dell’antimafia. Aveva il coraggio di correggersi, di accettare, di ammettere valutazioni errate.

      Un uomo di cultura che poneva al centro l’uomo con le sue falsità e con le certezze del dubbio. Ecco perché nella sua scrittura il segno della metafora rappresentava un codice sia linguistico che problematico. Una letteratura della problematicità perché per Sciascia il tempo della cultura poteva coincidere con quella della politica attraverso gli uomini e attraverso un’etica dell’essere.

      Come il Mattia Pascal Sciascia “usava” una sua biblioteca. La biblioteca delle parole, dei linguaggi, del tempo, della memoria. Non ho condiviso alcune sue scelte ma non era fazioso. Non ho condiviso il suo fare letteratura sull’impressione fotografica del reale. Ma la memoria non sta al di là della realtà. E’ dentro la realtà. Una volta superata resta il fantastico. Ebbene, dal 1978 in poi: dal libro su Moro, in Sciascia ha prevalso il fantastico. Ed è questo lo scrittore che ancora dà lezioni, che è ritornato a parlarci di quella “corda pazza” con un sentire che va oltre la misura del quotidiano. Come una proiezione profetica.

      Molte volte le sue denunce che passavano sotto i codici della letteratura non mi convincevano. Il suo fare letteratura non coincideva con il concetto che ne avevo e che ne ho io della letteratura.  La sua passione, il suo far prevalere i valori della cultura o i valori della verità della cultura su quelli della demagogia politica, il dare degli orizzonti e il mettere costantemente in discussioni le varie posizioni, da qualsiasi parte esse potessero provenire, facevano di Sciascia non solo quell’intellettuale “contro”, che ho sempre stimato, ma ponevano all’attenzione il ruolo dell’intelligenza critica sul conformismo dilagante e Sciascia, appunto, era un interprete di questa intelligenza critica che veniva messa al servizio di una discussione problematicizzando i fatti e la storia stessa nella quale la contemporaneità era calata. Ma la letteratura che si spoglia della cronaca diventa anche profezia. E in Sciascia se si riesce a leggerlo con serenità c’è soprattutto il sentiero dell’ambiguo che gioca sulla corda del profetico, dell’avventura e del mistero – destino. La realtà comunque è altrove in letteratura. Sciascia lo aveva capito molto bene. Leonardo Sciascia  era nato Racalmuto l’8 gennaio 1921 e morto a Palermo il 20 novembre 1989. 

 

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pubblicato il 6 maggio 2009

FRANCESCO GRISI  DIALOGA CON GLI SCRITTORI DEL '900:

DA ITALO CALVINO A  DIEGO FABBRI

 di Pierfranco Bruni

 

Francesco Grisi è stato uno scrittore che si è costantemente testimoniato attraverso rapporti e amicizie che hanno segnato un ben preciso contesto della letteratura del nostro tempo. Uno spaccato, d'altronde, che ha messo in luce importanti legami grazie ai quali si è potuta documentare una pagina significativa della formazione che ha segnato lo scrittore e l'intellettuale Francesco Grisi. I suoi libri sono pieni di emozioni e di riscontri che richiamano anche un modello di partecipazioni tra letterati.

      Francesco Grisi in realtà ha vissuto una dimensione della sua vita non perdendo mai di vista l'intreccio umano tra la parola – sentimento e sacralità. Una scrittura che alla base non solo un sistema di vita ma anche una strategia in termini culturali. Lo scrittore lo si incontra sia nelle pagine narrative e nella sua poesia ma anche in quella dimensione dell'esistere che si ascolta dalle pagine, chiamiamole così, di critica letteraria. Grisi ha avuto delle frequentazioni molto belle con scrittori del novecento. Vanno ricordati i suoi legami con personaggi come Prezzolini, come Brancati, come Calvino, come Berto, come Buzzati, come Silone, come addirittura Mircea Eliade.

      Credo che tra gli scrittori frequentati da Grisi almeno due o tre hanno lasciato un segno indelebile nella sua vita di uomo e di pensiero. Mi riferisco in particolare a Giuseppe Berto, a Ignazio Silone e a un filosofo come Ugo Spirito. Di Berto più volte ha detto raccontando un fatto che a distanza di anni ha un sentore profetico per lo stesso Grisi.

      Ecco di Berto cosa ricorda:" Ero amico di Berto. Ci incontravamo spesso. Si parlava di tutto. Ma non si approfondiva nessun problema. La conversazione serviva solo per certificare. Vi erano anche i lunghi silenzi. Berto aveva sempre paura di entrare nella vita. Era un grovigli di contraddizioni. Trovata una verità la metteva subito in dubbio. Ma soffriva. La sua angoscia era quella di chi  è destinato a navigare sempre. Mai un porto dove fermarsi. I suoi amori vivono intensamente, prima. Irrimediabilmente finiti, dopo. Eppure credeva nell'amore.  Diceva che l'amore è un sentimento confuso perché da una parte è 'divinamente eccelso' (sono sue parole) e dall'altra affonda le radici nell'oscurità del sesso. E soffriva perché si sentiva incapace di conciliare. Anche fisicamente era strano. Un giorno si presentava con lo sguardo limpido che lo illuminava, sistemato e profumato. E il giorno dopo era pieno di rughe, invecchiato con gli occhi macchiati. Straccione".

      Si, si tratta proprio di un viaggio profetico. In questo ricordare Berto ci sono onde che ci riportano la realtà vissuta dallo stesso Grisi. Infatti vent'anni dopo Grisi sarà colpito dallo stesso male e morirà. Una letteratura impregnata di una forte marcatura esistenziale. Berto è stato molto amici di Grisi. Come lo è stato Ignazio Silone. Moriranno entrambi nel 1978.

      Tra Grisi e Silone una amicizia cominciata da molto lontano. Anche dopo la morte dello scrittore abruzzese Grisi lo ricorderà sempre con grande affetto. Un affetto che andava oltre la pagina letteraria. Ci lascia questa testimonianza:

"Nelle nostre conversazioni  nella sua casa a Roma in via di Villa Ricotti mi raccontava il suo faticoso processo di elaborazione e la forma di pretesto che i personaggi dovevano assumere. La razionalità illuminista  in Silone ( che illuminista non era ) affondava nella necessità di dare una funzione agli intrecci e ai sentimenti che dovevano concorrere a dimostrare una tesi…Durante gli ultimi anni della sua vita ci incontravamo spesso con Silone. Dopo la sua morte lo sentii come una guida esemplare per il nostro tempo così disperatamente antisiloniano".

      Elementi che provengono certamente dai suoi testi ma anche da un racconto personale che Grisi mi rendeva partecipe. Il mio rapporto con lui, è inutile ripeterlo, è stato fondamentale. Mi ha lasciato una testimonianza che tutt'ora ha una cocente attualità. La letteratura come coscienza del nostro vivere nel tempo e nel misterioso. Il suo parlarmi di esperienze letterarie è stato sempre un parlare di avventure nelle quali  gli incontri definivano elementi di una umana malinconia. Ricordo quando mi parlò di Calvino o di Eliade.

      Su Calvino mi disse:" Sai, una volta gli parlai di Roma e mi accorsi subito che Calvino era lontano, guardava il mare salutandomi. Lo vidi allontanarsi…piccolo di statura si rimpiccioliva ancora di più nella luce del tramonto…". Un'altra immagine mi ritorna pensando a Mircea Eliade. Mi si attesta con questa visione: " L'ultima volta che incontrai Mircea Eliade fu a Palermo in occasione del Premio Mediterraneo…Sulla spiaggia di Mondello si è abbandonato. Nel sole caldo felice per il colore verde del mare. Mircea Eliade mi diceva che la 'Sicilia non è isola ma bellezza diventata tradizione. E che la tradizione è depositata nel Sacro'".

      Eliade e il tempo della nostalgia. Sono soltanto alcuni tasselli di un mosaico molto più ampio che ha riguardato la storia letteraria di Francesco Grisi. Una storia, quella sua, che certamente è tracciata nei suoi libri ma anche, come si diceva, con  alcuni protagonisti della cultura contemporanea. Protagonisti nella testimonianza di uno scrittore che si è sempre raccontato. Si pensi alla sua forte amicizia con Diego Fabbri. E si pensi a un suo maestro, già richiamato prima, quale fu Ugo Spirito.

      "Sono stato un discepolo e un amico di questo personaggio così esemplare e contraddittorio". E' Grisi che parla di Spirito. " I miei incontri con Spirito sono stati sempre incompiuti. Anche se mi trattenevo con lui per molto tempo andavo via sempre con l'impressione di non aver detto tutto. Era come una terra da arare nel profondo. Il cuore della miniera era al centro della terra".

      Un incontro, appunto, con i contemporanei, come ha intitolato un suo libro antologico del 1970. Forse ci sono significati alti ma questo viaggio tra scrittori è un viaggio anche nella letteratura, nella teologia della parola, nella teologia della letteratura. In quella letteratura mai costruita ma vissuta come eterna consapevolezza di una memoria che non si perde e che ritorna a raccordare antichi e nuovi respiri.

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pubblicato il 3 maggio 2009

“FVTVRPVGLIA” DI GIUSEPPE MAZZARINO - Le attività sul Futurismo a Taranto.

 di Marilena Cavallo

 

Il Futurismo, suggestiva arte dal colore di futuro, poetica dal sapore aurorale, foriero di futuro, approda con questo saggio in Puglia, o meglio nelle Puglie, nelle tre terre di Messapia, di Peucezia e di Daunia, se non si vuole aggiungere una quarta “P”, quella della singolare esperienza di Taranto. Significativo il contributo di “FuturPuglia”, edito da Csr e Nemapress, di Giuseppe Mazzarino con Appendice di Pierfranco Bruni. Il Futurismo ha avuto una sua particolare impostazione anche in Puglia.

Lo dimostra il saggio citato e  le manifestazioni organizzate di recente dal Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” a Taranto e in Provincia (da Grottaglie a Maruggio a Carosino). Tra qualche settimana una nuova iniziativa a Carosino porterà sulla scena una mostra di materiale futurista comprese copie originali della  storica rivista “Futurismo - Oggi” che era diretta da Enzo Benedetto, le cui copie sono custodite dal Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” diretto da Pierfranco Bruni..

Parole in libertà per una Puglia allo specchio senza cornici, che restituisce il profilo Apulo degli stati d’animo, delle vibrazioni, delle gioie intense e dei desideri frenetici, custoditi nelle tavole parolibere o nei quadri  futuristi lungo un tracciato che rivoluziona innovando. Ma si innova proprio attraverso una idea precisa di rivoluzione. Soprattutto in questo caso.

All’interno di un variegato esame del volto nazionale e internazionale della prima vera sperimentazione di avanguardia letteraria e artistica, la fisionomia del panorama pugliese si definisce con caratteristiche “dinamiche”. Sono queste caratteristiche che danno quel sensononsenso ad un tracciato che sa di progetto. Il Futurismo anche in Puglia (o nelle Puglie) è stato Progetto.

Il travaglio della parola nel linguaggio scattante di Ungaretti, la ricerca di una parola nuova per il nuovo sentire di Quasimodo, attingono a risorse futuriste e insieme a nomi come quelli di Mario Carli, Emilio Notte, Franco Casavola, Pietro Pupino Carbonelli e tanti altri futuristi nati o operanti nelle Puglie, nomi “rimossi”, cancellati, disconosciuti e relegati nel dimenticatoio, tornano a testimoniare un percorso personale, regionale, nazionale ed internazionale grazie all’“insonnia febbrile” della forza dell’indagine letteraria e della critica artistica, che animano questo studio.

E poiché, come amava proclamare lo stesso Filippo Tommaso Marinetti, “non v’è più bellezza se non nella lotta”, “FUTURPUGLIE” lotta contro il silenzio sulla “meridionalità” del Futurismo e sugli errori di identità o di interpretazione rispetto ad alcuni autori. Autori che offrono una precisa chiave di lettura non solo artistico – letteraria ma anche storica.

L’analisi sembra “inneggiare” a quei letterati e artisti, che al “volante” di una letteratura nuova, hanno attraversato con un’asta ideale la terra pugliese, lanciandola in corsa nella più ampia esperienza italiana. La velocità, la dinamicità, l’idea della macchina non sono un documento ma i riferimenti di un mosaico che troviamo ben definito nei Manifesti. Proprio a partire da quello del 1909.

Si sveglia, dunque la “sonnacchiosa provincia” e anche la capitale barocca vive il suo bagno nella modernità, con gli immancabili Manifesti e l’invito rivolto ai giovani meridionali a “marciare e non marcire” e con la presenza in Puglia di riviste come la barese “+ - 2000” o la leccese “Vecchio e Nuovo”. Il Manifesto - programma ai giovani meridionali del 1918, pubblicato a Napoli, è un testo – testimonianza di grande efficacia e di sicura mobilitazione “ideale”.

Pagine queste accese, come un carbone sotto la cenere, pegno della “vampa futurista che incendiò anche la nostra regione”, pagine che restituiscono trentacinque anni di futurismo a una personale e nuova proposta di periodizzazione, sfidano la “damnatio memoriae” di alcuni interpreti del Futurismo pugliese, convinte che con le futuristiche istruzioni di un Mario Carli, si possa ancora “costruire la primavera”…è questa la “dinamite delle idee nuove”!

In questo testo i fili che tessono i Futuristi non formano un gomitolo ingarbugliato e pur non trattandosi di una tela omerica i fili comunque si intrecciano su un inciso che potrebbe costituire la chiave di lettura di una realtà – tempo futurista: “Chi ama la vita, l’energia, la gioia, la libertà, il progresso, il coraggio, la novità, la praticità, la velocità” è un “futurista nella vita”, come si legge nel primo punto delle “nozioni elementari” di “Che cos’è il futurismo” firmato da F.T. Marinetti, E. Settimelli, M. Carli.

Non una idea soltanto, dunque, ma un progetto, e questo studio pone in evidenza una eredità che non sarà legata al passato ma proprio ad un futuro che vive le necessità di innovare. Nei linguaggi, nelle arti, nei costumi. Forse nella vita stessa. Il Futurismo non è solo cultura o costume. È soprattutto una “struttura” mentale. I percorsi intrapresi dal Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” lo dimostrano.

 

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pubblicato il 3 maggio 2009

L’uscita di sicurezza di Ignazio Silone - Lo scrittore era nato il 1° maggio di  109 anni fa in Abruzzo.

La politica, la letteratura l’eresia.

 di Pierfranco Bruni

 

Silone  era nato a Pescina dei Marsi, in provincia dell’Aquila, il 1° maggio del 1900, centonove anni fa, e morto a Ginevra il 22 agosto del 1978. Recentemente  come Centro Studi e Ricerche "Francesco Grisi" abbiamo pubblicato un testo (dal titolo Spirito e verità. Lettere inedite di scrittori contemporanei, Csr) nel quale compaiono due lettere inedite di Silone indirizzate, appunto, a Grisi.

      Due lettere che hanno un valore sia etico - letterario sia ideologico se si pensa che in una di queste lettere si legge: "…è piuttosto raro trovare in Italia un critico che sappia leggere e che avvicini un autore senza preconcetti estetici o ideologici". Un segno importante che definisce sostanzialmente un percorso culturale. Le lettere risalgono al 1957 la prima e al 1966 la seconda. Uno scrittore che ha raccontato il radicamento alla terra, l’appartenenza, ha “disegnato” il paesaggio dei suoi paesi e di un mondo che la memoria costantemente ripercorre.

      Da Fontamara a Severina. Ignazio Silone, lo scrittore della Marsica e dei cafoni, del cristiano senza chiesa, della terra come appartenenza, della nostalgia sempre assopita, della solitudine ancorata alla parola, della realtà che diventa storia, del superamento di quel comunismo che è stato vissuto non solo come tradimento ma come indefinibile incoscienza, di quella “uscita di sicurezza” che ha permesso di catturare non solo la libertà ma anche il senso della libertà. Silone  è stato comunista. Anzi è stato uno dei fondatori del comunismo e ne conosceva gli orrori e le sciagure, le finzioni e le maschere. Quando si rese conto che la sua storia incamerava l’oppressione dell’uomo ha tentato di guidare quell’uscita di sicurezza che lo ha condotto fuori le mura di quella inconsapevole bugia.

      Palmiro Togliatti su “Rinascita” dell’agosto – settembre del 1951 scrisse di Silone: “Quando Silone se ne andò, anzi fu messo fuori dalle nostre file (per conto suo ci sarebbe rimasto per dir bugie e tessere l’intrigo), l’avvenimento contò. Silone ci aiutò, in sostanza, non solo a approfondire e veder meglio, discutendo e lottando, parecchie cose; ma anche a riconoscere un tipo umano, determinate, singolari forme di ipocrisia, di slealtà, di fronte ai fatti e agli uomini”. E il confronto che Togliatti tesseva in quell’articolo era tra Vittorini e Silone. Entrambi “fuoriusciti” dalla casa madre del comunismo ed entrambi “illusi” inizialmente che nel comunismo potesse nascondersi il barlume della libertà. Pura illusione e mero inganno.

      Da quel romanzo che racconta i suoi paesani (i fontamaresi) al destino “religioso” di Severina. E’ un viaggio lungo, nel corso del quale l’avventura dell’uomo diventa prima l’avventura di una politica il cui disegno ideologico si è consumato in uno scontro tra fede e libertà e poi l’avventura dello scrittore che ha attraversato il fiume della politica stessa attraverso i codici e le definizioni della letteratura.

      Fontamara è certamente il romanzo rivelazione. E’ il romanzo dell’appartenenza alla terra, al suo Abruzzo, oltre ad essere il romanzo di una iniziazione a un processo narrativo che non sopprime mai l’io narrante. Questo io narrante assorbe la contestualità non solo di una realtà storica ma soprattutto di una “territorialità” esistenziale.

      Nella Prefazione al romanzo Silone avverte: “Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite morti amori odi invidie lotte disperazioni”. Questa è Fontamara. Una comunità, un paese, dove “La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l’esperanto”. Ma, soprattutto in letteratura, “ognuno” ha “il diritto di raccontare i fatti suoi a modo suo”.

       E’ questo il Silone di Fontamara che troviamo poi in Pane e vino e nella edizione riveduta di Vino e pane. E’ questo il Silone de Il seme sotto la neve, di Una manciata di more, de Il segreto di Luca, de La volpe e le camelie, de L’avventura di un povero cristiano, di Severina. E’ il Silone di Uscita di sicurezza e dei suoi saggi. La realtà e il sogno sembrano incontrarsi con la favola. “Un bel sogno”. “Una bella favola”. In Vino e pane: “Un bel sogno… I lupi e gli agnelli pascoleranno assieme nello stesso prato. I pesci grossi non mangeranno i pesci piccoli. Una bella favola. Ogni tanto se ne sente riparlare”.

      Ma cosa era la politica per Silone? Come la intendeva? Una manciata di more è una dichiarazione non riluttante che mette a confronto, al di là del gioco – destino dei personaggi, l’uomo con la politica. In un discorso tenuto a Milano nel 1949 Silone sottolinea: “…Nella nostra attuale posizione è implicita la confessione delle sconfitte politiche subite; noi siamo certamente le persone che sono state più sconfitte”. Ma Silone si aggrappa costantemente all’utopia: “Se l’utopia non si è spenta, né in religione, né in politica, è perché essa risponde a un bisogno profondamente radicato nell’uomo. (…) La storia dell’utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace. Nessuna critica razionale può sradicarla, ed è importante saperla riconoscere anche sotto connotati diversi” (da L’avventura di un povero cristiano).

      L’utopia e l’eresia sono un intreccio non di valori ma di significati esistenziali. Trovano una loro esplicazione ultima proprio in Severina. Un romanzo postumo e incompiuto ma non minore nella produzione siloniana. Severina è la testimonianza del dolore ma anche dell’amore. Silone fa dire a Severina: “Io penso che non bisogna temere il dolore. Vi è un dolore inevitabile, inerente alla stessa condizione umana, e quello bisogna saperlo affrontare e diventare suo amico. Non bisogna temere, io penso, neppure la disperazione; perfino Gesù all’inizio della sua interminabile agonia, dell’agonia che ancora dura, si credè abbandonato ed ebbe un istante di scoraggiamento”.

      Il finale di Fontamara (“Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione, che fare?”) rispecchia questa cesellatura ponendosi una domanda alla quale risponde la frase citata di Pier Celestino alla quale Severina risponde a sua volta con l’eresia per tentare di sconfiggere quel cristianesimo diventato ideologia.

      Silone si annovera tra quelle coscienze inquiete (sul piano umano e culturale) che hanno caratterizzato e segnato il Novecento letterario italiano. Uno scrittore che non aveva mai perso il senso dell’indignazione. Sino alla fine. Il suo ultimo romanzo (si deve molto di questo romanzo alla moglie Darina) è una confessione che richiama anche uno stile di vita.

      Proprio in questo ultimo romanzo si legge: “Non perdere mai la nostra indignazione morale di fronte all’ingiustizia. Non abbandonare mai la ricerca della verità, neanche in mezzo alla notte oscura. Per strada ritroveremo Cristo, che è la verità. Qualsiasi cosa avvenga, coloro che conserveranno intatta, in fondo all’anima, la fede nei sacri principi della vita saranno i più forti”. Severina è un personaggio metafora che chiude la parabola non solo letteraria di Silone ma anche esistenziale. 

      Oltre ogni steccato politico resta lo scrittore: quel Silone così eretico è così tanto bisognoso di speranza. Non c’è perdizione ma una costante penetrazione nel vissuto Cristo logico che ha comunque, anche qui, di un richiamo fortemente paolino. Forse in questa battuta il tutto della sua vita: “Per darsi, bisogna anzitutto possedersi”. E poi in quest’ultimo accenno di Severina a suor Gemma: “Spero, suor Gemma, spero. Mi resta la speranza”. Un bisogno forte d’amore. E lo si nota anche in Ed egli si nascose. Qui la speranza e l’amore devono fare i conti con la disperazione e con la follia. Ma il tutto si risolve. C’è la costante ricerca della libertà. Dice Fra Celestino ad Annina (nel testo appena citato): “Non disperare, Annina. Chi ama non può disperare”. E Annina in un’altra circostanza pronuncia a Don Paolo – Pietro Spina: “… l’amore è follia”.    

      Così in Severina. Un libro che è un diario e si lascia leggere, quest’ultimo, come la memoria in viaggio di uno scrittore. Insomma Silone nel suo ultimo scritto attraversa a frammenti la sua vita e la sua letteratura. Se si andasse a leggere attentamente quel capitoletto dal titolo: “et in hora mortis nostrae”, sempre del romanzo in questione, ci si renderebbe conto della vera forza eretica espressa da Silone. Così: “Il cristianesimo ufficiale è diventato un’ideologia. Solo facendo violenza su me stesso, potrei dichiarare di accettarlo; ma sarei in malafede”.

      Un Ignazio Silone dunque che è lontano dall’ideologia ma è lontano anche dalla fede come cultura. L'eretico di Fontamara, del libro dedicato a Celestino IV e del romanzo che centralizza la figura di suor Severina è oltre ogni visione politica.

 

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pubblicato il 10 aprile 2009

RACCONTO INEDITO DI FRANCESCO GRISI NEL DECENNALE DELLA SCOMPARSA

 

 Nella ricorrenza del decennale della scomparsa dello scrittore Francesco Grisi (nato nel 1927 e morto nel 1999) ,  il Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”, diretto da Pierfranco Bruni, è lieto di porre all’attenzione alcune pagine inedite di Grisi che sono parte integrante del materiale inedito sul quale da anni sta lavorando lo stesso Pierfranco Bruni, biografo dello scrittore.

 

Di Grisi il Centro Studi e Ricerche ha già pubblicato alcuni testi completamente inediti, tra i quali figurano racconti e poesie. Ha pubblicato, tra l’altro, anche il primo romanzo di Grisi risalente al 1958 – 1959 dal titolo “I giorni non si somigliano tutti”.

Le pagine di “Forse un giorno ci ritroveremo nel cammino dell’antico” fanno evincere un paesaggio metaforico attraverso un linguaggio in cui il simbolo primeggia. La Calabria come la Magna Grecia sono riferimento di una visione non della storia ma del tempo che si definisce nella memoria.

 

Bruni ha dato alle stampe numerosi testi dedicati a Grisi scrittore, operatore culturale, futurista ed è previsto, nei prossimi mesi, un lavoro articolato che comprende la sua funzione nella cultura italiana degli anni Settanta con in appendice documenti inediti che scavano nei rapporti culturali che Grisi ha intrattenuto proprio nel corso degli anni.

Pierfranco Bruni: “Si evince uno spaccato di Calabria come metafora di una lunga memoria e di un tempo indefinibile. Ci sono elementi che ci riportano il Grisi delle stagioni più significative”

Il racconto che viene posto all’attenzione è parte integrante del volume che verrà pubblicato prossimamente.

  

Forse un giorno ci ritroveremo nel cammino dell’antico.

      Il mio tempo è fermo. O sono oltre. Cutro è una cartolina. Immaginario. Ci sono anni. La Calabria. Il mare è nell’anfora. Antica. Nato a Vittorio Veneto ma Cutro è nel sogno. Forse. O è solo una nostalgia. La danza si fa notte. La notte è una danza. Cammino. Lungo i passi della grecità. Amori perduto. Io perso. Poi. Ritrovato.

      Terre di Magna Grecia. Di Mare e di uliveti.

      Gli ulivi nelle notti di luna si inargentano. Le foglie tremano. E musicano con i granelli di sabbia.

      Nell’antica città pugnali e canti. Donne arabe con gli occhi neri e ebrei riccioluti si abbracciano nei letti di ferro. Ho amato. Tanto. Grandi amori. Una passione che è luna. L’età si chiude nel cerchio.

      Sibari. Taranto. Crotone. Allora. Si raccontavano.

      Uso simboli e metafore. Cammino con il bastone con il pomo d’argento. E vedo questo pezzo di futuro che è nel mio presente. Il tempo si racconta nella lacerazione tra presente e memoria.

      Il tempo dello scrittore non è soltanto quello che vive ma quello che è stato e quello che sarà.

      Allora.

      Il mare greco di Pitagora. Azzurro striato con tessiture di tremolante - ante verde. La memoria è futuro.

      Vorrei una tomba tra le pietre odorose di scoglio - zagare nel tempo di Pitagora. Tra giorni sarò greco in Cielo.

      I trionfi sono spesso una maschera dietro la quale si nasconde la fragilità della situazione. Queste leggende sono mito. Anche la religione si ammanta di miti. E la memoria illumina il passato come un arco arcobalenante nel cielo.

      Il percorso è tutto in questo incrocio. Un incrocio dove i simboli ondeggiano nel vento dei segni e non c’è bisogno di alcuna spiegazione, non c’è bisogno di alcuna giustificazione.

      Cosa resterà?

Voglio raccontare un frammento di una storia. Comprensibile. Non so. Ma ecco. Nel cammino dell’antico.

     

Il Mediterraneo è un sogno.

Tango.

Mara.

La fantasia colora le insegne dei giorni. Bella.

Era bella. Nella pazzia che invade. I cuori. Le anime.

Si vive scorrendo i giorni. Così.

Ancora.

Amami… Baciami con passione.

Stringimi.

O prendimi come sai fare tu.

Prendimi. Stringimi con ardore. Coglimi… Vento.

Non andare via. Pazzia nei giorni.

Mara del tango.

La mia vita è come un fiore. Fiorisce presto e presto muore.

E' sol per te il mio cuor!…

Ci sono i tramonti che non tramontano ancora.

Ammaliati dalla pazzia bellezza. Avanti con le memorie.

E. poi. Cosa ci resta.

Ancora.

Tango.

E' sol per te il mio cuor!…

Il sogno diventa vero.

La verità annulla il sogno?

Appesi a un filo di luna i ricordi fanno compagnia. Quando non ci

saranno più. Noi chissà dove saremo.

Allora.

Una nuova danza. Musica. Musica a cielo di luna.

Luna nel lago. Il lago negli occhi.

L'infinito si perde dentro gli occhi.

E aveva negli occhi…

Sguardo d'acqua e di terra.

Mara ha raccolto tutto il mistero.

Viviamo di misteri.

O di segreti.

Amami con passione. Prendimi con ardore

In questo amore. Unico…

 

      Raccolgo memorie antiche.

      Nella memoria, nessuno scompare e finisce. Non so come ma tutti risorgono. E quando li chiamiamo con la memoria vengono a trovarci. La vita è senza morire.

      La resurrezione. Viene per tutti. Peccatori e santi. Vinti e vincitori. Per quelli di prima e per quelli che non sono riusciti a destinarsi. 

      Le metafore chiudono il cerchio.

      Il viaggio si fa intenso e denso di significati e di contenuti.     

      Vorrei vivere vicino questo dolce mare e nel verde degli ulivi. E vedere dalla collina i delfini che danzano nel mare dei greci.

      Nella resurrezione la nascita e la morte sono un solo punto. Il cerchio si chiude.

      Sono un’ape che ha raccolto molto miele. E lo consegno agli uomini perché siano felici nella loro pazzia. 

      Nell’intreccio delle parole la vita si riempie di senso perché si racconta.

      Il mare.

      La colonna. San Francesco. Tommaso. Gioacchino. Tutto ha senso. Anche noi.

     La preghiera è partecipazione attenta alle cose del mondo che, anche per il miracoloso della preghiera, perdono la storia per diventare necessari passaggi attraverso i quali si compie la salvazione.

      Ogni cosa è necessario che avvenga. Anche la Via Crucis della perdizione.

      La preghiera riscatta la storia dal suo peccato di essere esistenza. E non significa un movimento di labbra, ma una partecipazione responsabile al destino di un uomo o di una società.

      Significa anche entrare nei disegni di Dio per liberarsi dalla schiavitù del potere, dell’abitudine, dalla desolante ipocrisia quotidiana.

      La esperienza del sacro scrive e ordina, distingue e non cede ai compromessi. 

      La concretezza del sacro accetta e ama la tradizione, rifiutando la novità del conformismo e lavora per il ‘nuovo’ che il tempo richiede dalla nostra passione.

      Voglio qui citare un mio maestro. Buonaiuti compie una operazione rischiosa: quella di seguire la generazione dell’esodo che ha vissuto questi anni introducendo i temi attraverso episodi personali. Quasi per dare agli argomenti una più eccitante veste di credibilità.

      La spartizione così netta tra storia e teologia che aveva condotto alla rigida disciplina teoretica sembra spezzarsi di fronte al dolore. Anche l’orgoglio reclama umiltà nell’ora dell’esodo.

      Forse perché vedo il mare e mi immagino di navigare verso la Terra Santa o verso l’Egitto.

      Mi hanno detto che laggiù nei paesi del deserto vi è una grande primavera di preghiere cristiane.

      Vedremo.

      Intanto resto qui. In questa immensa circonferenza che è la Magna Grecia. Ed è come se mi rivolgessi ad una dea.

      Così.

      Ti ho parlato degli ulivi. E dei girasoli. C'erano chitarre andaluse e danze zigane nelle parole ingemmate di sogni d'oro.

      La luna di seta bianca inargentava.

      Forse innocenza siderale era il tuo cuore.

      Ho cercato la tua mano esitante e silenziosa.

      Allora.  

      Un saluto frettoloso.

      Mi dicesti. Soltanto le favole sono la vita. E mi lasciasti la tua ombra acerba tra i platani morenti del quartiere.

      Lascio, comunque, la città dei due Mari.

      Mi incammino. Vado. Oltre. Magna Grecia. Un sogno. L'ironia. Il gioco. L'incontro. L'attesa. Ci sono gli applausi. Teatro. I futuristi recitano. So. Gli applausi dureranno nei secoli. Forse un giorno ci ritroveremo. Nel deserto. Tra i mari. Il Sud. Tra i mari del Sud.

Nella foto: Francesco Grisi con Pierfranco Bruni

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pubblicato il 4 aprile 2009

LA BUSSOLA PER I VIANDANTI DI OGGI

Il libro del Vescovo di Cassano Vincenzo Bertolone

di Luigi Franzese

“Briciole di speranza…per guardare oltre”:  è questo il titolo di una pubblicazione del Vescovo della Diocesi di Cassano Jonio, Mons. Vincenzo Betolone, edita da Ancora Editrice di Milano (pagine 110) con prefazione del Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Mons. Gianfranco Ravasi e postfazione del Capo Servizio della Gazzetta del Sud, Arcangelo Badolati.

Il libro, in elegante veste tipografica della collana Focus (dedicato alla madre Carmela), racchiude, in una forma piana e scorrevole, una serie di riflessioni che domenicalmente il Presule espone attraverso le colonne del quotidiano messinese, in un apposito spazio a lui riservato, su temi più vari che spaziano da quelli strettamente teologici a quelli etici a questioni di grande rilevanza sociale come la pace nel mondo, il lavoro, la famiglia, la scuola, i diritti umani, l’impegno civico; tutti temi che attengono all’uomo d’oggi nella sua complessità.

 

Si tratta di un libro che rappresenta - come acutamente osserva Mons. Ravasi nella sua stringata ma efficace prefazione - la “bussola per i viandanti dei tempi presenti, inquieti cercatori di speranza persi tra le nebbie del materialismo e del consumismo”. Un volume da leggere che si presenta molto interessante  per le notevoli problematiche trattate che possono sicuramente rappresentare una base di partenza per ulteriori approfondimenti, confronti, dibattiti, riflessioni, attesa la grande valenza delle argomentazioni  in esso contenute di viva e pregnante attualità.

 

Mons. Vincenzo Bertolone è nato a San Biagio Platani (Agrigento) il 17 novembre 1946. Dopo la laurea in pedagogia al Magistero di Palermo, ha conseguito alla Pontificia Università “Angelicum” di Roma il dottorato in diritto canonico. Dal 1976 al settembre 2000 è stato membro del Consiglio Generale della sua Congregazione. Ha insegnato per oltre 15 anni religione nelle scuole statali.

 

Dall’ottobre del 1988 ha prestato servizio alla congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, dove il 12 giugno 2004 è stato nominato Sottosegretario dal Papa Giovanni Paolo II°. E’ postulatore della causa di colonizzazione del Beato Giacomo Cusmano, del Beato Francesco Spoto e di Beatificazione della Serva di Dio Vincenzina Cusmano e del Servo di Dio Francesco Paolo Gravina.

Il Presule Bertolone ha al suo attivo numerose e pregevoli pubblicazioni quali: “Volto Redentore”, Le “Sette Lampade”(1997), “Il Mandorlo Fiorì”(1999), “I Sette  Doni della Grazia”(2000), “I Tre compagni di Viaggio” (2001), “Aspetti Giuridici e Attenzioni Carismatiche nelle Esperienze di Aggregazioni, Federazioni, Fusioni e Unioni di Istituti di Vita Consacrata”(2006),   “Sulle Orme del Divino Viandante”(2007).  

 

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