Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

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Letteratura  pag. 7


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Editoriali, recensioni e articoli di LETTERATURA

Italiana moderna e contemporanea

 

pubblicato il 12 Giugno 2010

Isabella Morra

Un Rinascimento meridionale: tra Basilicata e Calabria

Nei versi di un amore impossibile - A 490 anni dall’uccisione

  

di Pierfranco Bruni

  

Poesia e morte. Un binomio antico. Ha attraversato intere generazioni. Ritorna spesso. Ma è la poesia che fa discutere di questi intrecci. Chi ricorda più la tragedia della poetessa Isabella Morra? Era il 1546 quando Isabella Morra veniva uccisa.  Aveva 26 anni.  Ed era bella. 

Bella con i sogni tra i versi e le parole che raccontavano solitudini nel tempo perduto in un feudo tra la Calabria e la Basilicata.  Suo padre era il signore di Favale. 

Un feudo nella valle del Sinní.  Era avverso agli spagnoli e quando i francesi vennero scacciati dal Regno di Napoli il padre di Isabella si rifugiò in Francia.  Isabella fu affidata alla cura dei fratelli che la costrinsero a vivere in una tragica solitudine. 

Isabella si innamorò del poeta Diego Sandoval de Castro sposato con Antonia Caracciolo.  I fratelli appena scoperta la relazione, senza pensarci due volte, uccisero Isabella e poco dopo tesero un agguato al suo amante e lo trucidarono.

Era bella Isabella.  Nel castello di Favale.  Era bella mentre tendeva lo sguardo a Diego Sandoval, mentre si amavano, mentre giocavano nel tempo tragico a perdersi e a ritrovarsi.  Era bella Isabella nell'ultimo amplesso mentre con tristezza recitava:

 "Ogni mal ti perdono,/né l'alma si dorrà di te giammai,/se questo sol farai,/ahi, ahi, Fortuna (e perché far no 'i dei?):/che giungan al gran Re li sospiri miei."

 L'eco di lontananza e le voci del vento setacciate nella notte. Notte di stelle e di tragedie.  Favale era un deserto.  Giovanni Michele di Morra al servizio del Gran Re si trovava lontano dalla sua terra.  Isabella lo invocava. 

Lanciava messaggi.  E cantava una melanconia struggente:  

"Torbido Siri, del mio mal superbo/or ch'io sento da presso il fine ama/…/Dilli come, morendo, disacerbo /l'aspra fortuna e lo mio lato avaro, /e, con esempio miserando e raro,/nome infelice a le tue onde io serbo. /Tosto cb'ei giunga a la sassosa riva /(a che pensar m'adduci, o fiera stella,/come d'ogni mio ben son cassa e priva!),/inquieta l'onde con crudel procella, /e di: <<M'accrebber sì, mentre fu viva, /non gli occhi no, ma i fiumi d'Isabella>>."

 Isabella morì sotto i colpi dei fratelli.  E anche l'amante poeta. Tra i sogni in un gioco infinito.  Si perse un amore nel tradimento consumato.  E la fantasia era nella vita.  Fantasia e biografia: su questo tracciato si snocciola il mondo poetico di Isabella Di Morra.  Un tracciato poetico teso sulla corda di una esistenzialità inquieta e addolorata. 

Che cosa fu la poesia per Isabella?  Una tragica coincidenza?  Il linguaggio come liberazione o come sintesi di una vita ? Chi lo potrà mai confermare? E' certo che Isabella invocò sempre il padre.  Il padre come identità perduta.  L'amore per Diego Sandoval come riferimento ritrovato.  Ma le coincidenze a volte sono più crudeli della vita stessa. 

Gli amanti traditi in un rapporto d'amore vissuto sul tradimento.  E Antonia Caracciolo ?  Quale tradimento più atroce dovette subire ? Tradita e beffata.  E non c'era, nel tutto, un filo sottile d'ironia.  Ma il destino è un cammino segnato che tocca le corde del tempo e incrocia l'amore con la morte.

Isabella era bella lungo il fiume Siri (o Sinni).  E raccoglieva parole per raccontare favole o gloria di un tempo andato.  E chiedeva al padre di ritornare.  Ma il tempo è lungo e le ore sono brevi.  Il tempo si sbriciola e i ricordi si condensano nella memoria.  Tutto, alla fine, è memoria.  Anche il suo canto è una voce nella memoria che ritaglia sogni nelle fantasie che si fanno futuro.

Ci sono racconti che imprigionano misteri e racconti che si chiudono nella solitudine.  I destini si incrociano.  Isabella e Diego Sandoval. 0 quell'altra storia di sofferta malinconia tra Bianca Lancia di Agliano e Federico.  L'imperatore Federico e Bianca.  L'imperatore muore poco dopo aver coronato il suo sogno d'amore con Bianca. 

Dopo aver legittimato suo figlio Manfredi.  Ci sono viaggi imprevedibili e percorsi che diventano insondabili e indefinibili.  Isabella e Diego si sono amati pur sapendo a cosa andavano incontro.  Ma ci sono segreti tra le pieghe di ognuno di noi che non vorremmo rivelare neppure a noi stessi.  La vita è una tragedia che continua.

Per Isabella non c'era uscita diversa dalla sua tragedia.  Il suo canto disperato è una testimonianza di fuoco.  Erano le lacrime e il sangue che scorrevano nel Siri.  E si faceva triste la sera.  Sotto la luna si intonavano rime di dolore. Una delle prime raccolte delle poesie di Isabella apparve a Venezia nel 1552 ma a Napoli venne pubblicata la raccolta integrale nel 1693.  Fu Benedetto Croce a riscoprirla.

Poesia di meditazione.  Poesia semplice. Poesia di tristezza.  Poesia della consapevolezza.  Sono state usate tante terminologie.  Isabella Di Morra resta nella poetica della tragedia: sia biograficamente sia letterariamente.  Forse anche una poesia della solitudine.

"Quella ch'è detta la fiorita etade,/secca ed oscura, solitaria ed erma,/tutta ho passato qui cieca ed inferma."

       Una commozione intensa pervade il dettato poetico.  I sogni sono dentro l'angoscia e le disperazioni sono graffi sui muri del castello di Favale.  E' un fiume che scorre.  Ci sono parametri letterari sui quali si potrebbe riflettere.  Ma Isabella è la biografia che si fa poesia e gioca con le onde di un amore - fantasia.

 "Deh, mentre ch'io mi lagno e giorno e notte,/ o fere, o sassi, o orride ruine,/o selve incolte, o solitarie grotte,/ulule e voci, del mal nostro indovine,/piangete meco a voci alte interrotte/il mio più d'altro miserando fine."

  In Leopardi ritorna questo canto.  Una tensione senza sirene che freme nell'angustia dei giorni che passano e conducono inavvertitamente alla fine.  In ogni fìne c'è sempre la fine di un tempo.  Ci si consuma aggrappati ad una attesa.  E Isabella è stata colta dentro questa attesa.  Ma forse c'è anche un'attesa che manca.

Una poesia fatta di tensioni.  Nelle biografie ci sono sempre misteri intrecciati a segni indecifrabili. 

Chi potrà mai penetrare i misteri o chi potrà mai entrare dentro il fiume dei segreti? E' vero.  Isabella era bella.  Nella disperazione era bella. La sua poesia è una testimonianza che continua a tracciare percorsi.

La solitudine e poi la tragedia di Isabella alla fine si trasformano in disperazione.  Disperazione senza speranze, disperazione senza ancore, disperazione chiusa nel silenzio.  Amore e morte.  Ma l'amore è nella morte e la morte (e aveva ragione Michelstadter) è nell'amore - vita. 

Il destino crudele la circondò. La avvolse nel suo mantello.  Il suo testamento non giunse a termine.  Pagine bianche.  E poi c'è la morte.  Ma il tempo è più della morte.  Ecco perché ancora si racconta di Isabella Di Morra: donna di Favale nata nel 1520 e morta uccisa nel 1546. 

I suoi versi recitano e il suo amore per Diego Sandoval è oltre il fiume.  Ma la vita è nel tempo e l'amore è un segreto. 

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pubblicato il 12 luglio 2010

Un Novecento letterario non definito e non ancora finito: nel destino di Carlo Michelstaedter e Maria Zambrano

 

di Pierfranco Bruni

 

 Tra Carlo Michelstaedter, nato a Gorizia nel 1887 e morto suicida il 16 ottobre del 1910, e Maria Zambrano, nata nel 1904 a Vélez – Malaga e morta a Madrid, dopo un esilio di 45 anni, a Madrid nel 1991, i luoghi di un esistere metaforico insistono in un  intreccio tra l’amore come persuasione e la morte come accettazione in un intreccio, in cui destino e metafisica dell’anima diventano un unico segno di un tempo che resta definito nella storia ma indecifrabile in una ragione poetica.

Perché insieme il poeta e filosofo italiano e la filosofa del mistero poetico spagnola in una contemporaneità fatta di modernità, modernismo e incompatibile gesto della tradizione? Perché entrambi si trovano a misurarsi con il sentimento del tragico che recita una costante rappresentazione: in Michelstaedter la variante della fuga diventa tempo della morte, nella Zambrano il viaggio vive dentro il tempo dell’esilio.

Ma c’è una dimensione poetica che lega i due mondi e li lega intorno ad una dimensione che è quello dell’onirico percorso tra il buio della coscienza e la luce della parola. In entrambi la metafisica della parola diventa una vera e propria metafisica dell’anima.

La notte di Michelstaedter: “Tace la notte intorno a me solenne/le ore vanno e sfilan le memorie/siccome un nero e funebre convoglio” è la notte che non conosce il chiarore. In Zambrano, invece, il bosco ha sempre un suo chiaro perché in esso la “bellezza” diventa una mediazione tra l’angoscia e la possibilità della luce. Nella Zambrano è la speranza che vibra i destini violati della disperazione che entra tra le pieghe del divino.

In Michelstaedter non c’è alcuna verità se non attraversata dall’agonia esasperante. È certo che in entrambi la confessione della parola si fa biografia. Non si tratta soltanto di una meditazione – contemplazione giocata intorno al rapporto filosofia – poesia o viceversa. Piuttosto si entra in un travaglio in cui la ragione dell’essere si fa azione come nel caso di Michelstaedter passando attraverso il senso poetico ma si identifica in una specificità sostanzialmente onirica che oltrepassa sia la storia che il tempo come nella Zambrano.

E perché riconsiderare queste due voci, questi due volti, questi due percorsi? Perché nella crisi della modernità non può esserci una chiave di lettura se non viene ad essere filtrata dal concetto di destino tra una concezione mitico – simbolica e una deriva che approda allo scoglio senza la conoscenza della possibilità della speranza sognante. Perché è solo la speranza che filtra la luce del sogno. Ma nella civiltà del bosco, nella quale ci troviamo ad essere collocati come temperie storica, bisogna pur rintracciare un chiarore lunare.

Dalla morte – vita recitata da Michelstaedter bisogna andare oltre e attendere l’aurora della Zambrano. In fondo dove termina il disperante groviglio di Michelstaedter comincia l’agonia che condurrà ad un sapere dell’anima tratteggiato in un suo importante saggio (che porta il titolo “Verso il sapere dell’anima”) da Maria Zambrano.

Con Michelstaedter si chiude un Ottocento che ha saputo leggere le prospettive del secolo nuovo introducendo però una letteratura completamente affidata sia all’enigma che al vuoto superando  la disdicevole congiura tra malinconia e nostalgia contaminata sia da  Manzoni che da Pascoli e da tutto un cordone romantico che resta ancorato al secolo vecchio e non antico. Una tradizione che “uccide” il senso della rivoluzione dell’uomo moderno e che proprio in virtù di questo concetto di secolo vecchio traccia un profilo della crisi.

Questa crisi sta anche nella impossibilità di sradicare il romantico senso della morte e lo consegna, proprio nei modi e nei termini del  romantico, al Novecento. Michelstaedter è uno dei maggiori interpreti di questo equivoco. Il suo suicidio resta proprio in questo tragico intaglio tra un secolo finito che, comunque, non smette di dettare aforismi di morte e il desiderio di non perdersi pur sapendo, lo sottolinea spesso Michelstaedter, con Matteo, che “gli uomini cercano e perdono”.

Michelstaedter è, in un certo qual modo, un profeta nella disperazione del Novecento. Maria Zambrano raccoglie questa profezia e la legge, però, sul piano di un tempo che si confronta con la storia perenne ma la intavola  sul sottile desiderio di un destino di speranza nonostante la sua inquiete fisionomia di scrittrice errante. Ma è dentro il Novecento.

Non si lascia intimorire né della scialba decadenza di Pascoli e tanto meno dal secolo vecchio, perché la Zambrano vive nella pazzia pirandelliana e nella poetica di Machado, perché immediatamente la sua scrittura si impne come ragione storica e come ragione poetica in una estetica che lega e unisce, nelle distanze e nelle vicinanze, Seneca a Garcia Lorca e alla temperie di una agonia qual è quella dell’Europa che strappa la sua geografia sulle eredità mediterranee e sulla scia di una tradizione dei sufi e sciamanica.

Solo una personalità come la Zambrano può raccogliere l’identità stoica con il barocco, la follia di Don Chisciotte con la “Città di Dio” di Agostino, la fiamma di Cristina Campo con la magia di Elemire Zolla. Una follia che le fa vincere il sentimento di morte, il quale lo interpreta con Unamuno come il sentimento tragico della vita e resta tale proprio per non lasciarsi aggredire dalla “illusione della persuasione” segnata da Michelstaedter.

Due interpreti di un secolo che sarà breve e lungo, ovvero il Novecento. Due protagonisti camminanti nel silenzio della parola che hanno individuato la crisi della modernità o la crisi nelle modernità. Un sentiero nella classicità romantica che cerca capri espiatori per vendicarsi della rivoluzione barocca e che individua, comunque, nel Novecento l’espiazione del “sogno creatore”.

La disperazione di Michelstaedter e l’agonia della Zambrano in un processo  culturale, tra poesia e filosofia, fattosi biografia. Il suicidio e l’esilio. Due temi caratterizzanti in un omerico e virgiliano intreccio al cui centro però resta la crisi, la quale, in letteratura, ha condotto alla morte della storia e mai del tempo da una parte e alla follia nella speranza che ha unito la storia al tempo.

Due condizioni di un esistere che costituiscono l’immagine provvisoria e precaria di un Novecento che si è mosso tra l’esilio e il viaggio, tra il tragico e l’equivoco, tra la maschera e il tentativo di salvezza. Per Michelstaedter non c’è salvezza (“la vita nella morte”) se non nella morte (“la morte nella vita”). Per la Zambrano la salvezza è nell’anima. L’anima come atto creativo. E la bellezza resta mediazione.

Un Novecento, dunque, che assorbe il vecchio dell’Ottocento ed ha apparentemente una sua struttura coerente per inventarsi la dinamicità della crisi. Nel tempo che viviamo non dovremmo più parlare di crisi del moderno ma di sconfitta o di vittoria. Quale secolo è rimasto sconfitto, nel gioco tra disperazione e agonia, quale secolo è uscito vincente?

Forse siamo in una attesa in cui la pacificazione tra poesia e filosofia diventa un atto dovuto ma ormai scivolato nell’indifferenza. Michelstaedter è la lenta persuasione della morte. La Zambrano è nel teatro delle maschere (Picasso) e della solitudine dello spazio (de Chirico). Due tempeste in un secolo non definito e non ancora finito.

 

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pubblicato il 12 luglio 2010

 

Il cinema nella scuola come strumento formativo

 tra letteratura, storia e società

  

di Marilena Cavallo  

  

      Il rapporto cinema e letteratura all’interno delle aule scolastiche, di ogni ordine e grado, può costituire una chiave di lettura fondamentale per penetrare i valori di un interscambio tra cultura, apprendimento e formazione.  Mi pare necessario riconsiderare un rapporto tra cinema e letteratura nella storia della cultura italiana e soprattutto nel dialogo formativo tra scuola e forme di apprendimento rivolte alla letteratura, alla storia, alla società. La scuola come porto certamente della formazione e dell’apprendimento ma anche dello stimolo verso una diversificazione dei modelli culturali stessi. Un “affaccio” che riguarda anche la nuova riforma e una dialettica che la riforma pone all’interno della società stessa attraverso gli strumenti della conoscenza e della socializzazione ai nuovi saperi e ai nuovi linguaggi dell’incontro con le culture altre.

      Il cinema come patrimonio culturale. Il linguaggio cinematografico si serve, tra l’altro, di due aspetti che sono letterari e geografici. Ovvero del personaggio e del paesaggio. Due modelli che nascono proprio dall’estetica dei linguaggi e della comunicazione. Soprattutto in un momento  di nuovi approcci verso linguaggi sommersi riflettere su tali questioni diventa sempre più importante sia dal punto di vista culturale che istituzionale. Cinema e letteratura un dialogo per una scuola dell’apprendimento articolato. Un binomio che ha attraversato il Novecento. Ha caratterizzato la ricerca di molti registi e si è posto come elemento di dibattito nel corso delle diverse stagioni storiche - letterarie. Ma cerchiamo di proiettarci in un tracciato.

      Una faccenda antica. Pirandello del "Si gira" o D'Annunzio che campeggiava nelle patrie lettere del cinema sono una testimonianza vivificante. Il cinema è fondamentale nella letteratura e nella storia e la letteratura a sua volta diventa sostanzialmente un elemento significativo anche in una interpretazione diversificata. Fermandoci al solo campo letterario una considerazione va fatta. Molti romanzi, anche recenti, hanno già dentro la loro struttura una dimensione cinematografica e non perché vengono costruiti a priori cinematograficamente ma perché lo scrittore riesce a vivere gli scenari e a strutturare i personaggi grazie a respiri lunghi o corti ma sulla base di una proprio di una scenografia.

      In altri termini molti scrittori quando scrivono non fanno altro che costruire immagini. Le immagini sono quelle categorie che permettono al soggetto di essere trasformato. Viceversa, avviene anche che molti film hanno dentro la loro "partitura" scenica e linguistica un iter romanzesco. Ovvero una visione romanzata della storia che vi si racconta. In fondo la letteratura stessa è una letteratura, e mi riferisco al romanzo in particolare, che crea scenari sui paesaggi immaginari e sostiene l'avventura che intraprendono i personaggi. Già di per sé il romanzo si porta dentro la fisionomia di un raccontare per meditazioni, dialoghi e immagini. Appunto per questo si potrebbe anche dire che un romanzo è un soggetto che prosegue per impianti scenografici. Mentre un film, che si rispetti chiaramente, è sempre un raccordare la parola dei personaggi con le immagini che si vedono.

      Nel romanzo le immagini si ascoltano, si sentono, si avvertono. Nel film si vedono e prendono corpo grazie all'immagine. Nel romanzo prendono corpo attraverso la fantasia. Quindi il gioco fondamentale è tra la fantasia che proietta sensazioni che si trasformano in immagini e le immagini che producono, a loro volta, sensazioni. Un interscambio utile e necessario in termini letterati e cinematografici.

      Cosa succede in realtà quando si porta un romanzo sullo schermo? Il romanzo resta un romanzo con una sua struttura non solo da valutarsi sul piano linguistico ma soprattutto sul piano della collocazione e del vissuto dei personaggi. Le immagini che nel romanzo ci sono vengono catturate dal lettore. Non vengono offerte come immagini tout court. Mentre nella trasposizione cinematografica il gioco è tutto un attraversamento di immagini e di scenari al di là dei dialoghi. Ma un film è sempre un ulteriore romanzo. Questo è un aspetto.

      L'altro è quello già posto, non molto tempo fa, da Alberto Bevilacqua che con intelligenza e professionalità ha sollevato una riflessione seria e attenta. Cosa avviene se il regista e lo scrittore sono la stessa persona? Qui allora sta allo scrittore cercare di accordarsi con il regista e viceversa. Ma cosa ne potrebbe venir fuori? Prima di tutto la consapevolezza del regista. Secondo l'interazione completa tra la parola e l'immagine giocata da uno stesso sentire esistenziale. Terzo, la completezza dell'avventura narrativa. Quarto, il recupero di una tensione che si sposta dal testo allo schermo e la storia prende corpo perché si definisce in movimento.

      Il cinema è movimento reale. Nel romanzo è l’immaginazione che prende il sopravvento attraverso le metafore. Ma il personaggio resta un disegno fondamentale. Già Giacomo Debenedetti, in alcuni suoi studi, aveva posto tale riflessione. Il personaggio compie un'avventura. La compie sia nel romanzo che nel film. Il discorso consiste nel come questa avventura si compie.

      Da qui bisognerebbe partire per non dimenticare lo spirito che a un tale rapporto Pirandello e D'Annunzio avevano dato. Perché nonostante tutto, nonostante la trasformazione della "macchina" da presa, nonostante gli strumenti applicati nel cinema, il problema che si pone ancora oggi è sempre lo stesso. Un dialogo che è fatto di linguaggi che si esprimono attraverso una griglia di simboli. Un rapporto che non ha mai smesso di creare istanze estetiche. Occorre recuperare queste istanze attraverso un percorso  metodologico grazie ad una visione estetico - pedagogica che abbia una valenza conoscitiva, formativa e valorizzante.

      Anche la scuola, in un tale contesto, non solo quella dell’istruzione superiore, potrebbe diventare un riferimento  in grado di offrire un modello di progettualità rivolto alle nuove generazioni e ad una educazione che intrecci l’estetica dell’immagine con quella della parola. La scuola come modello formativo e integrativo (e interattivo) tra i vari saperi. La scuola sempre come agenzia educativa e, quindi, come tale va ricontestalizzato il modello di approccio nei confronti sia letterari che storici in una società, come sostiene Mac Luhan, della comunicazione totale.  

 

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pubblicato il 10 luglio 2010

LA SCUOLA:  UN “PARLARSI” TRA SOCIETA’ E RIFORME, NELLA ATTUALITA’ DEI PROCESSI CULTURALI

                 di Marilena Cavallo


Il dibattito intorno alla “Lettera ad una professoressa” di don Lorenzo Milani ha posto in essere alcune condizioni  dialettiche sia di ordine prettamente scolastico (e quindi inerenti un progetto di metodologia educativa) sia di natura squisitamente culturale che vivono tra le maglie delle problematiche educative e metodologiche nel campo dell’approccio sull’istruzione e sulla conoscenza.
Un dibattito che ha interessato la società nella sua articolazione e nella sua complessità ma anche, in modo più particolareggiato, il mondo cattolico. Rivisitare i “luoghi” del sapere di questo dibattito potrebbe essere interessante anche perché sarebbe necessario impostare un percorso che non può riguardare soltanto i tracciati scolastici, ma deve entrare in una dimensione dello scibile chiaramente più avanzato anche in termini di mera discussione epistemologica sui fenomeni sia pedagogici che filosofici che hanno attraversato l’intera discussione culturale e scolastica degli anni Sessanta.        
      Non si tratta di prendere  delle posizioni, ma ormai la presenza di don Milani risulta storicizzata e  non si può fare a meno di inserirla addirittura nell’attuale dibattito sulla riforma scolastica e sulle strategie di premessa che hanno portato al quadro istituzionale e culturale  dei codici pedagogici delle varie riforme proprio a partire dal 1968.
      Mi riferisco sia alla scuola elementare sia a quella media che a quella superiore senza dover tralasciare il permanente modello di discussione sviluppatosi sulle realtà universitarie.   
      Certo, gli anni Sessanta sono stati un pilastro nella impostazione di una scuola che voleva rinnovar sima se il tanto discusso sessantottismo ha interessato forse in prima istanza proprio i vari campi della questione scolastica c’è da dire che si è articolato dentro una società che chiedeva di essere ascoltata e di essere messa a confronto con nuove istanze, nuove esigenze, nuovi rapporti tra generazioni.
      Il Sessantotto è stato un tentativo di “parlarsi” o di “sfidarsi” tra padri e figli, tra  accademismo e militanza, tra modelli di cultura istituzionalizzata e cultura meramente popolare. Dentro questi strati potrebbero trovarsi delle motivazioni. La protesta delle nuove generazioni, degli studenti in particolare ha riguardato, nella complessità dei riferimenti scolastici stessi, ogni grado e ogni ordine.
      Comunque, l’impalcatura scolastica, negli anni Sessanta, non è stata ristrutturata o rivoluzionata nelle radici, come si tentava di fare, e tanto meno sono state spezzate le basi delle antiche riforme sulle quali si continua a tenere banco. Ma questo è un dato che ha accompagnato anche gli anni successivi sino alla più “riformata” visione della scuola che è si è espressa dalla dialettica intorno alla proposta Brocca e alla impostazione della riforma sulla scuola elementare degli anni Ottanta.
      In questi anni ci siamo posti numerosi interrogativi sia dentro la scuola, come docenti, sia come famiglia e questo dialogo non ha smesso di turbare la coscienza delle società nei vari passaggi epocali. La classe docente è stata sempre un punto di riferimento in una intelaiatura tra la percezione e la vita degli adolescenti, il nucleo famiglia, la società – territorio.
       Più democrazia, più partecipazione, più comprensione. Sono  un argomentare perspicace che mette insieme la scuola, sia come struttura in sé sia come singoli insegnanti sia come studenti sia come progetto dirigenziale, e la società nel cui seno si porta le sue “agenzie” socializzanti, pedagogiche, istruttive.
     Il forno dentro il quale questi nodi o questi snodi vanno a finire è dato dal risultato che passa inevitabilmente nelle capacità di apprendimento e nella metodologia di una pedagogia aperta in una società aperta.
      Alcuni anni fa Giuseppe Acone, un intelligente e lungimirante pedagogista, si poneva, in un suo saggio, una domanda semplicissima: “Quale pedagogia?”. E successivamente si spingeva come antesignano di una “pedagogia dell’adolescenza” con un altro suo scritto. 
      Ebbene, ancora non abbiamo sciolto completamente questo interrogativo. Un tale interrogativo si pone ogni qual volta ci si trova a dialogare con la società e noi non siamo dentro una società immobile bensì in una società costantemente in transizione (interessante le osservazioni, in merito del patriarca di Venezia mons. Angelo Scola) e i metodi che si richiamano e si richiedono devono essere varianti, anzi devono portare delle variabili da applicare non con regole fisse ma diversificate a secondo delle situazioni tenendo sempre presente  la relazione tra società, cultura e politica (in termini aristotelici) nel dibattito per le democrazie della conoscenza e dell’apprendimento.
       Un tema molto caro a Norberto Bobbio (proprio sull’approccio dialettico tra cultura e politica) e mai suscettibile, questo sì, di contrasti. Scuola e società è ancora un aspetto dove poter  spendere uno spazio per l’attualità? Credo proprio di sì perché, all’interno di questo rapporto, la cultura dell’umanesimo, sia nelle sue sfaccettature etiche sia in quelle morali (la visione kantiana è sempre più appropriata), non può smettere di dialogare con le altre culture: a partire da quella scientifica sino ad arrivare a quella delle tecnocrazie.
      È questa è una realtà con la quale non smetteremo di fare i conti. Ecco perché il linguaggio della pedagogia del confronto a tutto tondo  resta necessario all’interno di una filosofia della educazione della persona, come ben aveva sottolineato Jacques Maritain.

 

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pubblicato il 10 luglio 2010

La politica? Una metafora e un arcipelago.

di Pierfranco Bruni

  

      Può sussistere una politica senza una etica? Andiamo verso un tempo della politica il cui senso va verso la dismisura di ciò che una volta si usava chiamare valori. Valori, ideali, identità. Quali sono i punti di riferimento che attraversa il nostro tempo? Anche i processi economici possono essere identificati come valori o come ideali ma mai come delle identità anche se si muovono su un tessuto prettamente di “cognizione” concreta.

      Ci sono domande che non hanno risposte e risposte che si consumano senza alcun ragionamento. Ma la politica deve necessariamente uscir fuori dalla foresta degli slogan perché proprio attraverso la politica si dà “cittadinanza” alle idee, ovvero ad una filosofia delle idee. E queste non sono soltanto elementi nella dimensione dell’etica ma vivono nei riferimenti dell’estetica. La politica deve poter avere una sua estetica proprio attraverso quella cultura che si fa coraggio delle sfide.

      Il concetto di cittadinanza, oggi, è una sfida non solo in termini di geografia dell’accoglienza ma anche della spiritualità dell’estetica. Se la politica recupera questo sentiero sul piano della visione della dialettica, dell’umanesimo del confronto, delle tesi di una Europa e un Mediterraneo dentro l’idea dell’inclusione delle culture il rapporto tra la centralità dell’uomo, dei popoli e dello sviluppo articolato può definirsi proprio nell’estetica della cittadinanza come valore prioritario.

      La letteratura, in questo caso, offre delle metafore interpretative abbastanza chiarificatrici. Nel 1861 Fëdor Michajlovič Dostoevskij pubblicava “Umiliati e offesi”. Un romanzo che resta come pietra miliare nel tracciato esistenziale che segnerà i processi storici di generazioni che si confronteranno con le culture dell’Europa, delle Russie e con quelle del Mediterraneo. Ed è un romanzo che presenta una capacità culturale straordinaria nella visualizzazione di un passaggio epocale qual è quello dell’Europa ottocentesca che si affaccerà ad una Europa delle lingue sommerse e delle politiche sommerse.

      Era l’anno in cui l’Italia praticava la riunificazione degli Stati interni per dar vita ad uno Stato unitario, pur attraverso delle politiche articolate nella misura delle rotture tra quello che è stato il Regno di Napoli e le esuberanze austro – ungariche.      

      Non si tratta di un romanzo politico ma di un romanzo per la politica.

      Oggi si presenta di grande attualità perché pone una riflessione proprio su due concetti chiave che serpeggiano nei modelli della contemporaneità. Non si è soltanto umiliati. Si è anche offesi. E non lo si è per una depressione esistenziale che noi singoli possiamo vivere e le generazioni possono attraversare. Ma lo si è per una improvvisazione della politica che si smuove nelle strutture della società. I personaggi sono comparse e la “misura” dostoievskijana lacera un tessuto che era ricco di valori e che oggi è diventato indecifrabile.

      Come è possibile che uno scrittore russo, del secolo passato, possa diventare un punto di riferimento per le nostre inconcludenze che vivono nei processi della decadenza di una Europa, che ha smesso di essere riferimento. E questa Europa ha smesso di essere riferimento perché non ha saputo guardare al Mediterraneo attraverso la consapevolezza della tolleranza.

      La politica non è più tolleranza. Non lo è nei grandi temi della pacificazione o della articolazione delle economie delle Nazioni. Non lo è neppure quando ci si trova a vivere nella mediocrità di una “provincia” che ritiene  che il confronto non sia necessario perché si vince se si è intolleranti e gridaioli.

      Ebbene, ormai siamo tutti dentro il deserto, che può essere quello dei Tartari, o quello della Libia di Italo Balbo, o quello dei predicatori cristiani o musulmani che viaggiano tra le sabbie dei Mediterranei sommersi. E restiamo nel deserto umiliati e offesi. Ma siamo anche consapevoli che il Palazzo prima o poi crollerà nella sfera di metafore inconfutabili che solo la letteratura può annunciare e decifrare. Quel Palazzo non pasoliniano, reale, ma quello di don Fabrizio dei Gattopardi.

      Si sentono assediati i Tartari e sono arrivati sino a Donnafugata ma lì ci si scontra e ci si divide, appunto, tra gattopardi e iene. Si può restare sia umiliati che offesi ma sempre con la testa alta.

      La letteratura non è finzione. Ha la capacità di diventare destino. E Dostoevskij lo aveva ben capito. Proprio per questo qualche anno dopo scriverà quei ricordi (o memorie) del sottosuolo. Bisognerebbe conoscere e leggere di più la letteratura. Perché solo così resterebbe comprensibile il kafkiano risvolto politico nel quale ci troviamo a vivere. Perché solo così l concetto dell’intellettuale contro di Leonardo Sciascia oggi potrebbe avere un senso.

      Kafka, già. Lo scrittore che ha parlato del “processo” e della “metamorfosi” e si è incontrato con quel Musil che non smette di recitare “l’uomo senza qualità”. Non perdiamo di vista l’immaginario di questi due scrittori. Ci tornerà utile. Lo scrittore è un annunciatore dei tempi che verranno. Bisognerebbe saper leggere tra le pieghe degli scrittori per catturare il gioco dell’imprevisto e del perverso che si agita nel presente. Non perdiamo di vista il “ragionamento” di Leonardo Sciascia e il tentativo di impegno che cercò di innescare nella società italiana dagli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta. Un profeta della modernità nella contemporaneità.

      Come abitare la politica senza la cultura? Non siamo farisei e tanto meno giudei. Ma siamo ben dentro la nostra contemporaneità e il “vizio assurdo” è una proposta di lettura che ci spinge verso realtà altre. Cosa è la verità? Cristo guardò Pilato, ma Pilato continua ancora ad interrogarsi.

      Nel 1969 Dostoevskij  pubblicava “L’idiota”. È il romanzo dei nostri giorni. Forse il meno politico e il più degno per la non cultura della politica. Ma anche il più consono per una politica che se non accetta la sfida delle culture entra inevitabilmente nel gioco dei “delitti e castighi”. Ironia a parte. Metafore incluse.

      La cultura è dentro la vita sotterranea dei destini. E le memorie restano sottosuoli. Perché questo incastrare la letteratura a meta giudizi sulla politica? Perché sono convinto che dentro ogni romanzo e dentro ogni scrittore ci sono ferite o pieghe che ci permettono di interpretare quel fondo di chiarezza che è stato espresso da Aristotele e sul quale oggi bisognerebbe riflettere. Ma ogni scrittore ha come principio il valore della cittadinanza non solo come modello di una eredità greco – romana ma come rappresentazione di una contemporaneità.

      Abbiamo bisogno, sostanzialmente, di sconfiggere le solitudini che aggrediscono il nostro essere e il nostro tempo e queste solitudini, che sono manifestazioni che si presentano costantemente nel quotidiano, si mostrano nel battito delle ansie e delle paure che agitano la vita di ognuno di noi e la prospettiva delle storie generazionali.

      Siamo ormai in bilico o ci raffiguriamo come abitanti di un labirinto. In bilico perché ondeggiamo lungo la corda di un perduto equilibrio. Nel labirinto perché non siamo ancora riusciti a intravedere un bagliore di luce che potrebbe portarci oltre. Ci resta il rischio e il coraggio della sfida. Avremo la forza di rischiare e di anteporre ogni scelta individuale al resto? Ma certo tutto ruota intorno ad una metafora.

      La stessa politica, con i suoi radicamenti, si mostra come una eterna metafora se l’uso stesso del termine lo si riporta però ad una visione dell’estetica filosofica. Ciò che non è metafora può passare sotto la voce di arcipelago. Ma mai di isola. L’isola appartiene al simbolo omerico – ulissistico ed entreremmo così nel campo del mito. Tutto può essere, la politica, tranne che un mito.

      Allora resta la visione dell’arcipelago. Forse in astratto. Ma è ciò che definiamo astratto che offre al contenitore un’anima. Cosa ci salverà? Diceva ancora Dostoevskij che “La bellezza salverà il mondo” in quel suo romanzo “L’idiota” ma sosteneva anche che “E’ difficile giudicare la bellezza;non vi sono ancora preparato: la bellezza è un enigma”.

      Siamo distanti da ciò o forse neppure siamo preparati ad affrontare ciò. Aspettiamo che l’alba precipiti nel mare e che il tramonto finisca dietro i monti. Il resto si vedrà. Ma se non siamo noi a cominciare da questo “resta” ogni fatica sarà stata inutile ed è inutile continuare a lamentarsi.

      Dobbiamo rischiare. E dobbiamo fare in modo che l’oblìo non ci appartenga più. Una politica senza cultura è uno sguardo senza anima. Diamo un senso a questo orizzonte. O diamo un orizzonte al senso che vorremmo vivere o al senso che vorremmo che ci fosse dentro di noi e non solo, dentro questo tempo che ci appartiene.

 

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pubblicato il 15 luglio 2010

La storia della letteratura del Novecento si offre agli  studenti con errori storici e di datazione.

Il testo adottato al Liceo Giuseppe Moscati di Grottaglie - Taranto

 di Pierfranco Bruni*

 La politica dell’adozione dei libri scolastici certamente andrebbe rivista, riconsiderata, ricontestualizzata e non per motivazioni di natura politica ma di scientificità vera e propria. Non si tratta di innescare nuove polemiche o dibattiti intorno ad una proposta argomentativa su un  problema letterario o storico o filosofico o artistico. Le interpretazioni e le chiavi di lettura hanno la loro particolare e necessaria importanza ma si va oltre.

Anzi si deve avere il coraggio anche di superare alcune proposte che hanno un preciso marchio ideologico. Ma è inaccettabile quando la chiave di lettura su un autore o su un libro o su una visione letteraria si presenta agli studenti con dei vizi e degli errori storici di fondo e accanto a questi vengono meno i presupposti scientifici, ovvero: l’errata datazione di nascita e morte di alcuni autori, l’errata data di pubblicazione nella nascita di alcune riviste, la  completa omissione di particolari  politici come per esempio la citazione della data di iscrizione ad un partito che va bene per un determinato schieramento citando persino la data di iscrizione e l’omissione per un altro.

Circolano libri scolastici che vengono affidati a studenti liceali sui quali si constatano errori di fatto. Fin qui la considerazione. Ma ci saranno pure delle responsabilità per chi vaglia e adotta questi testi? In più occasioni ho già avuto modo di dimostrare e mostrare situazioni di parzialità ed errori in testi scolastici.

Uno dei testi che si dice vada per la maggiore ed è adottato da Dirigenti scolastici e docenti, ovvero dalle scuole è il percorso di Gian Mario Anselmi e Gabriella Fenocchio: “Temi e immagini della letteratura” con il coordinamento di Ezio Raimondi, diviso in 6 parti, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, nella edizione del 2004. Mi è capitato tra le mani il volume 6, dedicato al Novecento, adottato al Liceo Giuseppe Moscati di Grottaglie Taranto.

Non entro nel merito interpretativo e metodologico anche se sul piano di una critica più appropriata sarebbe chiaramente necessario e i dubbi, oltre che alle lacune e alle forzature, sono tante. Ma mi soffermo, in sintesi, su alcuni particolari non confutabili.

A pagina 53 si parla del dibattito letterario e delle riviste in Italia. Nel citare la rivista, diretta da Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti, la si fa nascere nel 1939. Data completamente errata. Il primo numero della rivista esce il 1 marzo del 1940. Errore da prendere come refuso? Bene. Nella pagina successiva entrando nel merito i compilatori sostengono: “…Bottai promuove… una rivista più sua, ‘Primato’, che esce a Roma dal 1939, col sottotitolo ‘Lettere ed arti d’Italia’…”. Dunque non si tratta di un semplice refuso.

Si tratta, a parere degli esperti, di un errore di non poca importanza considerato il ruolo che svolgeva la bottaiana rivista. Nel 1939, l’Italia non è ancora in guerra. Il 1 marzo del 1940 si avvicina alla dichiarazione di guerra del 10 giugno e la rivista, anche se in un attraversamento culturale, pone una discussione forte non solo sulle arti ma anche sulla politica mediterranea. Infatti il Mediterraneo è alla base della discussione tanto che  la rivista doveva chiamarsi con una metafora che portava il nome di Ulisse. Il 1940, per Bottai, la rivista e la politica culturale è una data strategica anche perché pone in discussione le riforme sulle culture varate il 1939. E’ un errore non perdonabile perché vizia tutta la discussione.

Pagina 167. Si parla di Corrado Alvaro. Si dice che dopo diverse esperienze letterarie: “Nel 1926 diventa anche segretario di redazione di ‘900’. Costretto a trasferirsi a Berlino per le sue posizioni antifasciste”. A Berlino Alvaro arriva il 1928 collaborando a “La Stampa” e a “L’Italia Letteraria”, tanto che  su questa rivista nel 1929 intervista il “fascista” Luigi Pirandello, tessera PNF 1924. Torna in Italia il 1930. Negli stessi anni scrive ed è impegnato sui maggiori quotidiani italiani e fa l’inviato e inoltre  pubblica un reportage - saggio – inno a Mussolini dal titolo:  “Terra nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino”.

Pagina 869. Ignazio Silone. Lo si fa morire il 1977. Falso. Muore, invece, il 22 agosto del 1978. Cosa significa un anno? Tantissimo nella vita di uno scrittore come Silone. Perché? Perché lascia un romanzo incompiuto dal titolo “Severina”, che racconta, in un tracciato narrativo, passaggi che giungono sino ai suoi ultimi giorni. Ma quali? E poi c’è di mezzo una riflessione che interessa i “fatti” sia del 1977 sia quelli relativi alla morte di Aldo Moro, che per la cronaca avviene il 9 maggio del 1978.

Ci rendiamo conto su quali testi studiano o dovrebbero studiare i nostri figli?

Un'altra piccola chicca, ma questa sa molto di ideologico: sia da una parte che dall’altra ma è bene stabilire una dialettica.

Cesare Pavese, pag. 582. Si legge: “Alla fine della guerra si iscrive al Pci e collabora con ‘L’Unità’ di Torino”. Bene. Ma perché si omette che nel 1933  prende la tessera del PNF, negli anni 40 scrive sulla bottaiana “Primato” e durante il confino in Calabria scrive delle lettere a Benito Mussolini usando questi toni: “Eccellenza,…mai io mi ero sognato di fare della politica di qualunque genere, e tanto meno dell’antifascismo… Non mi rivolsi sinora all’Eccellenza Vostra – benché consigliatone da parenti e beneficati che ne conoscono tutta l’umanità – per una naturale ripugnanza a intralciare con piccole cose la giornata di Chi ha ben altro cui attendere” (Lettera a Mussolini, datata  15 gennaio 1936 – XIV).

A pagina 585 nel commentare la fine del personaggio Santa nel capitolo ultimo de “La luna e i falò”, sempre di Pavese, si esclude qualsiasi interpretazione storico - politica per fare spazio ad una lettura antropologica eliminando la fase storica della uccisione di Santa, uccisa e bruciata dai comunisti. Se ne sono guardati bene a soffermarsi e a proporre agli studenti una indagine del genere.

Potrei andare oltre. Ma il problema non è che si scrivono e pubblicano testi del genere. Il problema serio è che vengono adottati tali testi che non dicono la verità storica, che sbagliano le date e, quindi, come tali non hanno un percorso scientifico. Ci sono responsabilità? Certo. E gravi responsabilità culturali e morali incombono sui Dirigenti scolastici, dico Dirigenti perché sono la sintesi delle strutture scolastiche sul territorio.

È un fatto che va denunciato pubblicamente e ed è bene che si sappia che i ragazzi anche al Liceo Moscati di Grottaglie – Taranto -  hanno studiato e studiano su questo testo.

  *  Vice Presidente Nazionale del Sindacato Libero Scrittori Italiani

 

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pubblicato l' 11 Agosto 2010

Raoul Maria De Angelis a venti anni dalla morte - Oltre il narratore - Quando fece conoscere la filosofa spagnola Maria Zambrano al pubblico italiano.

 di Marilena Cavallo

 A venti  dalla morte lo scrittore resta non solo tra le sue pagine narrative e poetiche ma in tutto un “costume” letterario che abbraccia un Novecento da rileggere e da ridiscutere. Raoul Maria De Angelis fu uno scrittore e un giornalista i cui natali sono nella ragnatela della Calabria ma la sua formazione si sviluppa intorno ai grandi dibattiti culturali romani.

Scrive romanzi importanti con i quali si aprono dibattiti e prospettive per il Novecento letterario europeo. De Angelis è l’aurore, tra l’altro, di “Inverno in palude” del 1936, di “Oroverde” del 1940, di “La peste a Urana” del 1943,  di “Panche gialle – sangue negro” del 1959, di “Amore di Spagna” del 1968, di “Moneta falsa” del 1985. Nel  1953 pubblica anche un testo di “Poesie”.

Carlo Bo ebbe a scrivere riferendosi all’opera di De Angelis: “…Chi tenterà un giorno la storia del nuovo romanzo italiano, non potrà fare a meno dell’opera di R.M. de Angelis, e questo perché il lavoro dello scrittore calabrese ha un rapporto preciso con le aspirazioni e i sentimenti del nostro tempo vero…”. Un mosaico di prospettive ma il percorso indicato di Carlo Bo è certamente un riferimento.

Si tratta di una scrittore che vive pienamente il Novecento tra “realismo” e metafore che si sprigionano in un gioco di immagini e di coloriture come in  alcuni passi proprio di “Inverno in palude” che segna un romanzo – nucleo: “I tronchi abbattuti dalle prime bufere sbarrano i sentieri, e la pianura non conserva tracce di uomini e di belve. E la stagione dei cacciatori. I cinghiali scendono dalle montagne, goffi e mostruosi, con gli occhi pazzi di fame e di ferocia e si avventurano fino alle soglie delle casipole di sterpo e di fango; devastano le zone coltivate a grano, abbattendo siepi e staccionate ".

Con De Angelis si può andare, comunque, oltre i suoi personali interesse letterari perché riesce a spaziare in un articolato mondo che va dalla letteratura all’arte e da questa alla filosofia. Intrattiene amicizie con scrittori e artisti e si occupa anche di scritti filosofici e sulla cultura filosofica.

Tra le personalità che sono entrati nel suo tracciato di conoscenza e di ricerca c’è anche la filosofa spagnola Maria Zambrano (1904 – 1991). Un nome importante che ha soggiornato in Italia, nel suo abitare l’esilio europeo, tra il 1953 e il 1964.

Proprio alla Zambrano De Angelis dedica uno scritto significativo soprattutto perché pone la sua ricerca all’attenzione del pubblico e dell’opinione culturale italiana. 

La testimonianza di De Angelis sulla Zambrano ha un suo valore critico non indifferente che viene pubblicata sul n. 4 de “La Fiera Letteraria” del 24 gennaio del 1954 in un articolo intitolato: “Destino nomade di Maria Zambrano” firmata dallo scrittore Raoul Maria De Angelis.

De Angelis annota sulle colonne della rivista ,diretta in quel periodo da Vincenzo Cardarelli e Diego Fabbri, che “Maria Zambrano ha il destino nomade: ora è a Roma reduce dall’Havana. Lei si dice felice di essere tornata in Italia, e a Roma sente di aver ritrovato antiche radici, poiché non esclude di avere lontane origini italiane: a badare al cognome, Zambrano non molto diffuso in Spagna. Forse ci lascerà presto per Parigi o per New York, chissà mai./ Anche per questo, non vogliamo frapporre alcun indugio, per presentarla ai nostri lettori, con uno dei suoi saggi più limpidi di informazione filosofica./Il suo linguaggio testimonia a sufficienza una chiarezza di idee a cui non siamo, da tempo, abituati”.

De Angelis,  nato a Terranova da Sibari il 4 maggio 1908  e morto a Roma il  5 marzo 1990,  non è soltanto un attento giornalista letterario è soprattutto uno straordinario scrittore e pittore e proprio in quell’anno, nel 1954, aveva pubblicato “Apparizioni del Sud,con la casa editrice S.E.I., e “Storia di uno sconosciuto” da Vallecchi ma i suoi primi romanzi risalgono alla fine degli anni venti.

De Angelis ci presenta la Zambrano con una chiave di lettura, soltanto con poche battute, esemplare: “I suoi libri, pubblicati in spagnolo nell’America del Sud, non sono di facile lettura e richiederebbero un’attenta esegesi” (da “La Fiera Letteraria”, cit.). La propone al lettore italiano in un contesto, quello della metà degli anni Cinquanta, di frequente contraddizioni culturali. Il De Angelis scrittore, dunque, è un riferimento nel contesto delle culture del Novecento. Il suo Novecento e il suo “novecentismo” costituiscono processi inevitabile nella cultura italiana.

Proporre la Zambrano in Italia ha significato, d’altronde, indicare una strada culturale che è la stessa strada che permette di scavare tra le parole e i linguaggi della sua narrativa e della sua poesia.

 

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pubblicato il 13 Dicembre 2010

 

Mario Pomilio

Tra religiosità e letteratura

A venti anni dalla scomparsa

Uno scrittore che resta nella tradizione cristiana

 

di

Marilena Cavallo

 

Uno degli scrittori che ben ha saputo definirsi nel rapporto tra sacralità e letteratura è stato certamente Mario Pomilio, di cui si celebra quest’anno il ventennale della morte. Era nato a Orsogna il 14 gennaio 1921. muore a Napoli, 3 aprile 1990.    

 Da Il testimone del 1956 alla Compromissione del 1965, dal libro di saggi Contestazioni del 1967 a Il quinto evangelio. Mario Pomilio è nella linea di una letteratura della tradizione. E prima ancora: L’uccello della cupola che risale al 1954. Tradizione che significa mantenere fede ad una identità di valori cattolici, cristiani, esistenziali. Queste identità sono completamente trasportate sulla pagina.

      La letteratura per Pomilio è una continua confessione e, come tutti gli spiriti religiosi, fa della letteratura un diario in cui la realtà non si assopisce o non viene assopita da altri fattori ma viene constantemente superata da una metafisica dell’anima che prende il sopravvento sul resto. La religiosità, in Pomilio, diventa preghiera.

      Dai libri citati sopra mancano quello “incompiuto” che uscì nel 1991 con il titolo: Una lapide in via del Babbuino, ma Pomilio lo avrebbe voluto chiamare: Il racconto interrotto e il testo del 1983: Il Natale del 1833, in cui Manzoni è la pietra miliare del raccontare stesso  sia sul piano espressivo che più completamente tematico. Gli altri testi fanno da contorno e danno un senso al rapporto storica – cristianità.

      Ma il libro (ovvero parliamo adesso di romanzo) più “artisticamente” e dolentemente penetrante e “forte” è senza dubbio Il quinto evangelio del 1975. Un romanzo dentro il romanzo. La ricerca di rivelazione, di speranza, la considerazione del bisogno di attesa sono dentro le pagine di questo nuovo vangelo dove leggenda, mito e sogno sono un intreccio armonico che tende a ristabilire letterariamente un processo di vitalità e una consapevolezza di accettazione.

      Il bisogno di Cristo è il bisogno di ritrovare un punto certo e, dunque, la necessità di una speranza che va verso la verità. La verità cercata, la verità che diventa un viaggio. Ma noi siamo non solo in viaggio ma anche il Viaggio e apparteniamo alla generazione dell’esodo. Scrive Pomilio: “Le  generazioni degli uomini sono simili a degli assetati lungo le rive d’un vasto fiume: ciascuna corre ad attingere quanto occorre alla sua sete, ma il fiume continua a scorrere ugualmente vasto e pieno”.

      Tutti i romanzi di Pomilio sono un desiderio di terra promessa e si qualificano letterariamente sul piano di una tensione espressiva.  È come se ci fosse, sulla pagina, una cromaticità di colori ma l’esistenzialità è nella inquietudine  del religioso. Pomilio fa parte di un percorso narrativo che sottolinea una vera e propria “tendenza”. Antonio Barolini, Piero Bargellini, il radicamento della formazione discussa nella rivista “Il Frontespizio”, Diego Fabbri sino agli “Scrittori cristiani dolenti o nolenti” di Francesco Grisi che trovano, comunque, in Manzoni e Papini due chiavi di lettura fondamentali.

       Si, una generazione di scrittori che ha tracciato lungo la metafora dell’esodo il bisogno di redenzione. E la letteratura serve a decodificare la metafora e a riempirla di contenuti fondamentali e universali con trasporto personale. Il quinto evangelio potrebbe essere definito il manifesto di una letteratura che ha in sé la comprensione e l’attesa dell’esodo, la poetica e la francescana memoria   della pazienza. Già, l’esodo è l’esplorazione di un viaggio che prioritariamente si concede a Mosè, poi a Cristo, poi al dubbio, poi al tradimento e alla fine c’è un attraversamento francescano.

      Il piano critico - narrativo ha una sua valenza significativa che si trasporta in quella dei rapporti umani che sono rapporti anche di natura ontologica. Giulio Ferroni, riferendosi a Pomilio, ha scritto: “Il narrare è stato per lui un modo di sondare i vuoti che scavano nell’esistenza, nel rapporto tra responsabilità individuale ed essere sociale, tra persona e mondo, tra ricerca della verità e suo frantumarsi nel tempo, tra il presente e la storia. I suoi personaggi vivono così nella contraddizione e nel conflitto: sganciarsi ben presto da modelli di tipo realistico, essi prendono corpo entro un convergere di situazioni, nell’impossibilità di un’esistenza totale, come assediati da una minaccia, come se il loro essere verosimile sia sottoposto a un continuo rischio…”.

      No. Non c’è realismo. C’è, piuttosto, una magia della parola che è incanto del dire nel pensiero dell’essere. L’ironia ci salva. Pomilio sapeva e conosceva l’importanza dell’ironia nella vita e nella letteratura. Chiude il suo libro (Il quinto evangelio) facendo dire a Pilato: “E’ in arresto, lo sa. E si tolga quel che ah addosso: la mascherata è finita”.

      Queste parole non sono riferite a Gesù ma a Giuda. Il rovescio della storia è un nuovo processo che pone all’attenzione, dunque, appunto, un Quinto Vangelo. Vero, non vero. Non è questo il problema. Il processo a Gesù di Diego Fabbri è, qui, il processo a Giuda. Il tradimento è poi stato vero tradimento? La  letteratura, in questo caso, può più della storia stessa. Perché la fantasia è oltre la cronaca. Ma questa letteratura non è mai, in Pomilio, letteratura – realtà. È sempre letteratura – metafora.  

      La ricerca della terra promessa è sostanzialmente l’andare verso. Il viaggio già in sé rappresenta il cerchio della memoria. Perché appunto di memoria si tratta questo andare verso che raccoglie il venire da. È un costante pellegrinaggio che ci porta sempre oltre. In realtà Pomilio si addentra in quelle “nostre radici più profonde ed invisibili” che appartengono al popolo della cristianità. Anche se, come scrive Francesco Grisi in un saggio su Pomilio, “l’uomo rimane solo nella sua tristezza accorata che invade lenta come un fiume che cammina largo verso la foce. E questa problematica si lega religiosamente ai valori morali…”.

      Ci sono allegorie che campeggiano e danno senso: “Un uomo andava pellegrino cercando il quinto evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, l’affetto d’averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: ‘Procura d’incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio’”. È quello che dice il professore Bergin nel romanzo di Pomilio. Appunto il viaggio. Ma in tutti i romanzi di Pomilio c’è la “frase” del dolore ma questo dolore diventa “un sentimento rassicurante”. Così ne Il testimone. Così ne La compromissione. Così in Natale 1883. Così, appunto, in Il quinto evangelio.

      In fondo tutto è nel dettato dei versi della “Preghiera al crocifisso” dell’anonimo fiammingo del XV secolo che Pomilio cita. Ecco un passaggio: “Ma ciò che facciamo in parole e opere è l’evangelio che si sta scrivendo”. La promessa, la provvidenza, il sentimento dell’attesa che si fa speranza e poi riconciliazione. Il divino nella giustizia che coniuga fede e cultura.

      È una letteratura, quella di Pomilio, che ritrova così il suo essere in un tempo lungo che è tempo della Misericordia e della Passione. È uno scrittore di quella letteratura della Provvidenza che segna un tracciato preciso e indelebile nel contesto del nostro Novecento. Un Novecento che si presenta con diverse sfaccettature. Il percorso degli scrittori cristiani costituisce una chiave di lettura significativa che ci permette di leggere la letteratura non solo come teologia della parola ma soprattutto come mistero.

 

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pubblicato il 13 Dicembre 2010

 

Alda Merini nella ungarettiana inquietudine della terra promessa

Ricordandola nella parola che chiede speranza

 

di Marilena cavallo

 

Alda Merini (Milano, 21 marzo 1931 – Milano, 1º novembre 2009) ha recitato il silenzio della croce e il vissuto del Calvario sull’onda di una parola che diventa sempre Passione. Ma la poesia, ad ascoltare la Merini, è dentro l’intreccio della sofferenza di uno scavo vissuto sui percorsi ungarettiani di una terra scavata e che diventa costantemente “terra promessa” come effetto metaforico della speranza. La parola è speranza ed è lungo la sintesi del graffio della vita che la speranza non può che accompagnare l’esistenza dei popoli, delle civiltà e degli uomini.

Ci sono versi pungenti. Ci sono versi che lasciano ferite nell’anima. Ci sono versi che si portano dentro lo strascinamento  di tutta una vita. Forse anche per questo nella allegoria della fede la Croce diventa un “carnevale”. In un gioco di interpretazioni il linguaggio del vocabolario di Alda Merini si intreccia in una intelaiatura sia letteraria che umana. Appunto nella raccolta “Il carnevale della croce” Alda Merini raccoglie la sintesi del suo strazio tutto interiorizzato nelle parole.

Perché insiste la croce nella poesia della Merini? Perché è intorno alla croce che la sofferenza – dolore, depositata nella memoria e nel tempo, si apre in uno spiraglio in cui la fede non è teologia. Non può essere tale ma, invece, si ridisegna nel mistero. In fondo tutta la poesia di Alda Merini è adagiata sul velo atipico di una farfalla che esiste in quanto è possibile percepire il suo volo attraverso la grazia del mistero. Eppure il camminamento poetico di Alda Merini parte da molto lontano.

Le sue esperienze critico – letterarie la portano dentro un Novecento che ondeggia tra il lirico stupore di Dino Campana e il paesaggio onirico e “tristeggiante” di Lorenzo Calogero che approda con la sua anima inquieta nei voli del mattino sino ad un Camillo Sbarbaro dei “truciuoli” della nostalgia e a un Clemente Rebora della rivelazione nel segno, appunto, della grazia.

Ma la Alda Merini di “Corpo d’amore. Un incontro con Gesù” del 2001 non è la stessa de “La presenza di Orfeo” del 1953. In cinquant’anni di testimonianza tra la vita, gli amori, il dolore c’è un attraversamento completamente affidato non solo ad orizzonti di disperazione ma ad una mai cessata inquietudine.

In “Orfeo” l’inquietudine era fortemente lacerata dentro la vita e le uscite di sicurezza non conoscevano né il contemplativo paolino e tanto meno il recitativo del misterioso. Una inquietudine, in fondo, tutta terrena e anche l’amore era fatto di corpo, di pelle, di sangue. Così nella continuità che tocca la fine degli anni Ottanta con “Delirio amoroso” del 1989. Un libro che può leggersi come spartiacque è certamente “Vuoto d’amore” del 1991 e poi “Ballate non pagate” del 1995, dove alcune di queste poesie sono dedicate a Michele Pierri e anche a Dino Campana.

Nel suo incontro con la Croce la poesia si sviluppa intorno ad alcune coordinate che sono quelle del messaggio cristiano, del volto di Maria, del “Cantico dei Vangeli” sino a toccare le parole del “Canto di una Creatura” che riporta chiaramente a Francesco d’Assisi. La poesia è vivificante rivelazione che si sviluppa nell’esasperante visione dell’attesa verso la meraviglia.

In Alda Merini ci sono strumenti che non conducono alla “persuasione” del linguaggio poetico stesso. Anzi, in molti versi c’è una “liberalità” di un vocabolario che sempre assentarsi dalla poetizzazione della parola. Questo perché la Merini pur restando dentro la tradizione del Novecento, anche attraverso le sue ramificazioni storiche ed ereditarie, consuma i linguaggi nella modernità che si fa contemporaneità. Forse anche per questo è amata dai ragazzi, dai giovani, dagli studenti.

D’altronde il suo linguaggio è parte integrante dei linguaggi della comunicazione musicale. Amata da Roberto Vecchioni, da Fabrizio De André, da Fernanda Pivano ha rappresentato un nuovo modo di approccio al testo poetico. Questo non può che essere un dato positivo dal punto di vista interattivo tra linguaggi imperanti all’interno della società ma Alda Merini resta, in fondo, una poetessa della costante malinconia della gioia. La nostalgia dell’allegria.

Infatti uno dei suoi maestri non può che rintracciarsi in Giuseppe Ungaretti che passa il suo onirico senso tra il dolore e una allegria dei naufragi. Morire d’amore, morire per amore, amarsi sempre. Una triangolarità che è possibile afferrare proprio negli ultimi testi della Merini.

Una poesia, dunque, che è l’estrema attenzione di un Novecento che si apre con il tragico orizzonte nicciano e si avvia, proprio con la Merini, ad una risposta di riconciliazione con il mistero che attacca l’anima e la vita tutta nella sua drammaticità di esistere nel presente e nel tempo.

Come nei versi della poesia “Maria Maddalena”: “Il sale delle mie labbra guarirà/le tue molte ferite”. Un verso lancinante ma in Alda Merini, bisogna non dimenticarlo, c’è l’eresia dell’uomo che si cerca per non perdersi, sapendo che soltanto l’amore è la bellezza che potrà salvare l’umanità. Un novecento poetico inquieto tra la speranza della contemplazione dostoevskijana e l’enigma onirico di Ionesco.

 

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