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Editoriali, recensioni e articoli di LETTERATURA

Italiana moderna e contemporanea

 
pubblicato il 15 Apr 2008

LETTERATURA DIALETTALE E IDENTITA’

di MARIA ZANONI



“I Prùffici d’u ricùnculu” è il titolo di una raccolta di racconti in rima, in vernacolo castrovillarese, del poeta Luigi Russo, pubblicata recentemente, a dieci anni dalla Sua prematura scomparsa, dalla Fondazione che porta il Suo nome.

Il volume, in elegante veste grafica, appartiene alla preziosa eredità letteraria di oltre 16mila versi, in lingua ed in dialetto, intreccio di storia e memoria, che Russo ci ha lasciato, che è una risorsa inestimabile da tutelare e comunicare alle giovani generazioni.

In una società multiculturale e plurilinguistica che sta progressivamente perdendo la propria identità, promuovere letteratura dialettale significa riappropriarsi delle proprie radici identitarie, cogliendo la modernità dei complessi valori portati dalla letteratura in vernacolo.

Questo bene culturale prezioso è da tramandare, perchè riflette la condizione esistenziale della società dei secoli passati, ricca di valori socio-culturali complessi. E’ finito il tempo di considerare il dialetto “la lingua del popolo senza libro”. E’ ora di “studiare” i tratti caratterizzanti di un mezzo espressivo tra i più efficaci della cultura italiana, che accomuna, con il suo legame alle tradizioni, ed oggi è sempre più vicino alle culture giovanili, passando anche attraverso la musica ed il teatro.

I Prùffici d’u ricùnculu (che liberamente tradotto significa: le critiche del crocchio dei vicini, dalla lingua tagliente come forbici affilate) ci dà uno spaccato della vita quotidiana di un paese e di un’epoca. Un paese, come tanti in Calabria: il paese dell’anima, dove il vico fa le veci del salotto.

A “vanèdda”, con le porte sempre aperte e una sediolina sempre davanti, era centro di socialità che rafforzava legami parentali e di comparaggio; ma era anche fucina di pettegolezzi e malignità, in un tempo in cui le relazioni sociali erano di natura emotiva e personalizzata e la famiglia era centro di affetti.

“A vanedda” diventa palcoscenico di un teatro. ‘A vanedda ‘a chiazza, così come ‘u scuvàto, santuvìtu, ‘u tunnu, ‘a minzàna, recitano le loro storie. Storie di “gualàni”, di “masti cusitùri”, di “mbrillàri”, di “carruchiàni”, di “santòcchie”, picùzzi, “traminzàni e jiudicatùri”. E il paesaggio, sentito con intensa, appassionata liricità, quando non si presenta come valore estetico autonomo, fa da imponente cornice alla vicenda umana, al lavoro, al dolore, alla storia della terra del poeta.

Negli endecasillabi, classicamente misurati, i detti, i proverbi, modi di dire coloriti ed efficacissimi, recitano emozioni, apparteneze, orgoglio di “calabresità”.

Io, studiosa di dialettologia, ho da sempre letto i versi di Luigi Russo. E non li ho soltanto letti. Li ho anche recitati. Spesso li ho immaginati, li ho guardati, ne ho ascoltato i palpiti e le voci, sfogliando le pagine dei poderosi volumi, come album di fotografie ingiallite dal tempo. Ho dialogato con i “suoi” personaggi, ogni volta con emozione nuova. L’emozione che suscita una poesia viva, atto di presenza, intreccio di memoria e cultura, che non permette smarrimenti.

Il poeta coglie voci, lontane nel tempo, ma vivissime nella sua memoria. Egli tramuta in versi sensazioni e fatti di vita quotidiana, emozioni e nostalgie in quantità tale da dare anima e vita a luoghi ed eventi di questa terra castrovillarese, da lui tanto amata, di un patrimonio che va scomparendo. Ogni libro è, dunque, un atto d’amore e una testimonianza, perché il poeta percepisce la realtà con l'occhio del cuore. E tutto questo per riscatto di quella memoria che risulta sempre più necessaria alle nuove generazioni, per non perdere il contatto, senza enfasi né esaltazioni, con l’identità dei progenitori.

Tempo e memoria operano la trasfigurazione lirica della realtà e le danno il ruolo di rivendicazione di un’identità comune da mantenere stabile. Ai versi è affidato, dunque, un messaggio che supera l’occasione, la circostanza. Non è il solito rimpianto di cose lontane e perdute. È ricordo, senza commemorazioni lamentose o idilliache. È un che di vivo, di gioioso; e le sensazioni che il paese nativo suscita nel poeta, i fatti che rientrano nella sua esperienza di vita, sono il segno tangibile di un intimo sentire che convince e affascina. I tanti personaggi che s'incontrano nelle pagine di Luigi Russo sono disegnati, avvolti da un velo di nostalgia, con sottile umorismo, spesso malinconico, che di tanto in tanto diviene caldo accento evocativo.

È poesia, che ama la gente semplice e la sentenziosità, la saggezza popolare, in cui si esprime il buon senso tipico dell'ambiente rurale che si manifesta, appunto, in certi caratteristici atteggiamenti del linguaggio o addirittura nel proverbio. È poesia, niente affatto popolare nel suo intrinseco, che nasce da eletto sentire e da severe meditazioni, come dimostrato, d'altra parte, dalla perfetta padronanza del dialetto, innalzato a mezzo espressivo duttilissimo, e capace di aderire a tutte le pieghe e le sfumature dell'animo del poeta. Una poesia dialettale che ha il potere di annunciare una sorta di ritorno alle origini; che ci riporta ad un mondo “a misura d’uomo”, lontano dalla solitudine e dalle inquietudini di una vita massificata e malsana. Nei versi di Russo troviamo quelle tradizioni regionali e paesane, quel gusto della vita umile e cordiale del popolo, che nel dialetto trovano il più efficace mezzo per tradursi in poesia. Il tono semplice, caldo e discorsivo, di tante pagine rivela un impasto linguistico stilisticamente omogeneo, ma anche ricco nel lessico, da adeguarsi pienamente alle più varie necessità espressive, in modo particolare alle tipiche strutture della parlata popolare. Il verso è pulito, ricco di immagini e di termini particolarmente efficaci.

La “sua” gente, quella nobilitata dalla fatica e dal sacrificio, contemplata anche nella vita familiare, è quella della Sua fanciullezza, sono le caratteristiche figure che gli sono rimaste nel cuore. È tutta una civiltà contadina, con la sua frugalità e le sue semplici usanze, che riaffiora in affettuose, nostalgiche immagini. C'è il passato, la tradizione, le leggende, ci sono i grandi eventi pubblici, i problemi sociali del suo paese in questo volume postumo. E questi motivi predominanti ne attraggono infiniti altri, correlati con le più vaste vicende nazionali, dandoci l'esatta misura degli orizzonti ideali e dell'umana sensibilità del poeta.

Luigi Russo, voce altamente significativa della poesia in vernacolo, avrebbe avuto ancora tanto da dirci, se il crudele destino non gli avesse strappato la penna di mano.

La foto "u ricunculu" è tratta dal volume : Castrovillari immagine e tempo - di M. Zanoni - 1989.

 

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pubblicato il 2 Feb 2008

NEL CENTENARIO DELLA NASCITA DI PAVESE

“Cesare Pavese. Il mare, le donne, il sentimento tragico”



In occasione del centenario della nascita di Cesare Pavese Pierfranco Bruni analizza temi e problematiche di uno scrittore significativo del Novecento Italiano attraverso percorsi letterari e umani.
Proprio per la ricorrenza del centenario della nascita di Cesare Pavese (1908 – 2008) Pierfranco Bruni pubblica il suo terzo libro dedicato a Cesare Pavese. Un saggio tascabile che analizza l’intreccio tra luoghi, sentimenti e vita. Si tratta di un importante lavoro, in distribuzione in questi giorni, diviso in otto capitoli nei quali si tratteggia un percorso non solo letterario ma anche umano.

Travolgente sono le pagine riguardanti il rapporto tra Pavese e l’attrice americana Constance Dowling. Pagine di una singolare liricità che portano sulla scena un amore e una tragedia recitata nei versi di “Verrà la morte…”.

Su questo testo Bruni si sofferma con acute angolature entrando nei particolari dell’amore e della morte di Pavese. Un titolo abbastanza suggestivo: “Cesare Pavese. Il mare, le donne, il sentimento tragico”, edito da Pellegrini nella prestigiosa collana “Zaffiri”, Pp. 96, € 10.00 (www.pellegrinieditore.it).

"Non si può ormai disconoscere che Cesare Pavese, sostiene Pierfranco Bruni, abbia rappresentato un punto di riferimento di quella cultura letteraria che è stata espressione di modelli simbolici e metaforici che hanno segnato una rottura con la letteratura realista. La mia rilettura pavesiana può costituire una interpretazione dialettica intorno alla quale può nascere un utile dibattito su tutta la letteratura italiana degli anni Quaranta”.

Lo studio su Pavese è un libro che analizza la figura e l'opera di Pavese ma non in termini di tracciato biografico. Piuttosto ne valorizza gli esiti problematici sul piano sia etico che estetico. Una chiave di lettura affascinante.

D'altronde Pierfranco Bruni aveva già pubblicato, in più occasioni, testi su Pavese e la letteratura del Novecento. Risale al 1986 un suo primo libro su Pavese per il quale ottenne il riconoscimento del Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio e al 2004 un nuovo lavoro sul Pavese tra mito e storia al quale fu assegnata la Medaglia d’Ora della Presidenza della Repubblica – Premio Ciaia.

Pierfranco Bruni, tra l'altro, rilegge il sentimento della memoria e della nostalgia nell'opera di Pavese e ricostruisce anche il suo rapporto d'amore con l'attrice americana Constance: la sua ultima donna prima del suicidio avvenuto nell'agosto del 1950.

La ricerca di Bruni, comunque, analizza, a tutto tondo, la poetica di Pavese. Uno scrittore (e un poeta) che resta in quella letteratura della memoria e del mito che ha una presenza considerevole nel contesto italiano del Novecento. La metafora di Omero avvicina Pavese a quegli scrittori inquieti e tragici che appartengono al viaggio dell’ulissismo. Una proposta innovativa che pone Pavese tra due simboli: quello di Ulisse e quello di Enea. Personaggi del viaggio. Ma tutta la problematica letteraria di Pavese, secondo Bruni, vive lungo la metafora del viaggio.

Bruni scava nei testi di Pavese e chiama costantemente in causa il mito, i simboli e quella cultura classica che ha formato l’itinerario letterario delle opere narrative e poetiche dello scrittore de “La luna e i falò” e di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Le donne che campeggiano in questo scritto di Bruni sono realtà ma anche rappresentazione onirica e fanno parte di quella dimensione del sentimento tragico che è dimensione dell’essere dello scrittore.

I due capitoli finali sono dedicati alla Calabria e alla grecità e al rapporto tra Pavese e la politica. Proprio su quest’ultimo capitolo emergono delle pagine che faranno discutere perché Bruni fa riflettere su alcune missive che Pavese scrisse, dal confino a Brancaleone, a Benito Mussolini. In una di queste si legge: "…mai io mi ero sognato di fare della politica, di qualunque genere, e tanto meno dell'antifascismo".

Il libro di Bruni, comunque, analizza, a tutto tondo, la poetica di Pavese. Uno scrittore e un poeta che resta in quella letteratura della memoria e del mito ben consistente nel contesto italiano del Novecento. Gli elementi letterari si intrecciano con quelli di natura antropologica. Una visione innovativa che pone l’opera di Pavese al centro di una rilettura profondamente radicata al testo.

Il lavoro di Bruni si iscrive in quel contesto di promozione del Novecento letterario italiano che trova in molti scrittori contemporanei una chiave di lettura emblematica per un approfondimento del rapporto recupero dei luoghi - cultura popolare.

 

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pubblicato il 16 Gen 2008

Dario Franceschini. Oltre la politica

La letteratura che è follia improvvisa. Un romanzo del mistero e senza “relativismi”.

di Pierfranco Bruni

Ho già avuto modo di recensire il precedente romanzodi Dario Franceschini. Ora, Franceschini, pubblica un nuovo percorso narrativo. Un romanzo significativo che dovremmo considerare al di là dell’autore stesso (dico questo perché il nome dello scrittore nel bene e nel male corre il rischio di condurre ad un probabile condizionamento). Io non sto tra questi perché la mia posizione ideologica (anzi la mia visione culturale non coincide con quella di Dario: non coincide per un semplice fatto: io da cattolico cristiano non avrei mai accettato di governare con il relativismo estremizzato, dimostrato anche in questi giorni. Non me ne voglia il bravo Dario ma un cattolico cristiano deve sempre difendere il suo Pontefice anche a costo di barricate e non sedersi intorno a coloro che considerato tutto relativo: dalla difesa della vita ai veri valori etici, ma questo è un altro discorso, ma che ci stai a fare con “questi”?).

Entriamo un po’ nel merito della scrittura e dei viaggi letterari. Più che una recensione ho considerato quel mio scritto, sul primo romanzo di Franceschini, un confronto tra linguaggi e letteratura. Linguaggi dell’anima più che della parole e ho sottolineato, in quella circostanza, elementi puramente letterari ed espressivamente emotivi. Ma letteratura ed emozione costituiscono un modello di approccio ad una scrittura che vada oltre i limiti di una narratività illogica. L’arte non ha logica… La cultura dovrebbe averla…

Oggi assistiamo alla illogicità della letteratura. Non ci dobbiamo spaventare se da Saviano a Camilleri assistiamo all’impeto della sfida dove di letterario c’è ben poco. Oggi viviamo la letteratura come espressione di un marketing. Cerchiamo di essere meno ipocriti e di dirci, almeno tra addetti ai lavori, un po’, soltanto un po’, di verità. Siamo in una irreversibile crisi del linguaggio letterario. Irreversibile se si continua ad insistere sui “Gomorra” che starebbero bene per una buona pagina giornalistica ma non in una trasposizione letteraria.

Da Saviano a De Cataldo (i giudici vanno di moda anche in letteratura) non c’è il minimo sentire di tracciato letterario. La letteratura cede il passo al tribunalese e alle inchieste ma anche al caramelloso preconfessionale alla Erri De Luca che non mi piace anche se alcuni ambienti cattolici si ostinano… Molto meglio Veltroni narratore che questi. Ma non meglio di Franceschini, certamente.

Non ci sono dubbi che il recente romanzo di Dario Franceschini dal titolo spagnoleggiante o sudamericano: “La follia improvvisa di Ignazio Rando”, Bompiani, è un ottimo romanzo. Bravo Dario.Come, d’altronde ho considerato “Nelle vene quell’acqua d’argento”. Una mite malinconia pervadeva il primo romanzo con sottolineatura di forte metafora. Una enigmatica metafora attraversa questo nuovo romanzo. E, lo dico senza alcuna spocchia (non mi frega niente di quello che pensano gli altri ma io vivo di letteratura e con la letteratura da circa quarant’anni e non faccio né il politico e tanto meno il magistrato) perché la mia esperienza e i miei studi mi fanno guardare al di là del bene e del male.

“La follia improvvisa di Ignazio Rando” è certamente il romanzo più bello che ho letto negli ultimi tre o quattro anni. Non mi si venga a dire che i Premi Strega siano romanzi da consigliare. Non apriamo questo “verseggiare”. I Veronesi i Baricco, i Busi, i De Carlo, i Piperno e una volta anche i Tondelli (che si è voluto innalzare a maestro ma di che…’) sono al di qual del bene e del male.

La letteratura è ben altra cosa. È un’emozione chiamata non verità ma poesia, grazia, mistero, fantasia. Ebbene dobbiamo avere il coraggio di sprigionare le tensioni esistenziali che vivono dentro di noi soprattutto noi che il mestiere della letteratura lo pratichiamo non per gioco e neppure per tirare la carretta di fine mese. Il romanzo di Franceschini ha una freschezza borghesiana. Forse intinta in una venetara kafkiana dove la storia scompare e rimane la testimonianza del personaggio.

Il personaggio che si fa destino e si aggrappa alla nostra anima come si è aggrappata alla nostra anima il tempo che scorreva nelle vene dell’acqua d’argento. Ma perché, caro Dario, “…in piedi si è già in mezzo al cielo”? Non darmi la risposta. Non puoi darmela. Non cercarla. Lasciala al lettore. Ognuno di noi si interrogherà a proprio piacimento. Ma tu lasciala sospesa tra il cielo e il vento. Non è ragione la letteratura.

I relativisti ci punzecchiano con la ragione scambiandola con il sentimento. Vogliono dare un senso a tutto. Ma noi non cerchiamo un senso. Piuttosto un orizzonte. Sì, un orizzonte come il tuo, il mio, il nostro Ignazio Rando. Il resto non ha mancia. E siamo tutto in viaggio verso i mulini al vento perché restiamo in fondo dei fantasmi o dei funamboli.

“Ignazio camminava sul bordo del marciapiede cercando di cadere sulla strada. Certo il sasso sulla spalla lo sbilanciava, per questo era più difficile stare in equilibrio. Metteva i piedi l’uno davanti all’altro, lentamente, come facevano u funamboli ed era bravo, perbacco”.

Forse, voglio cogliere questa provocazione, Ignazio Rando vive un po’ dentro di noi. E vive senza che noi ci accorgiamo della sua presenza. Ma cosa è la presenza e l’assenza in letteratura. È un romanzo scrittore con un sapere letterario, ben costruito, con delle ombre poetiche che toccano l’anima e con una geografia che scompare per lasciare proprio questa ombra alla metafora.

Non racconto la trama. Cerco di raccontare sensazioni. Sono quelle che mi ha lasciato l’impatto con questo romanzo. Vedete che straordinaria immagine: “Dalla finestra da cui proveniva il canto si affaccia una donna bellissima. È lei che canta ma la sua voce è quella di un uomo. Noi continuiamo a ballare e io cerco a ogni giro di vederla bene, aspettando la luce del giorno che cresce. Poi la riconosco. Sei tu. Tu che canti con la mia voce”.

Immagini che ci immettono nella ragnatela delle emozioni, nella follia di una parola che si fa incanto. Superando sempre sia la storia che la ragione. Possono piacere o meno queste mie considerazioni. Nessuno è obbligato ad accettarle. Ma vi posso giurare, sotto il giuramento di uno scrittore che non fa il magistrato e neppure il prelato, che “La follia improvvisa di Ignazio Rando” è proprio un vero romanzo. E poi c’è la follia. Cosa sarebbe la letteratura senza la follia… Dario non trascurare la parola che si fa emozione.

 

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pubblicato il 23 Dic 2007

IL SACRO E LA LETTERATURA

Uno studio di Pierfranco e Micol Bruni analizza il Novecento letterario italiano attraverso gli scritti dello scrittore calabrese Francesco Grisi edito dal Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Incontri tra scrittori: da Ignazio Silone che parlava di "preconcetti estetici o ideologici” a Mario Pomilio che difendeva l'autonomia della letteratura.

Una ricca documentazione ricostruisce spaccati della letteratura italiana del secondo Novecento attraverso testimonianze dirette.

Una ricerca che pone all’attenzione il legame tra scrittori cattolici e formazione sottolinea il valore della letteratura cristiana del Novecento Italiano. Uno studio articolato, nel quale il rapporto tra sacro e letteratura partendo da Francesco Grisi, diventa fondamentale. Hanno lavorato a questa pubblicazione, in distribuzione in questi giorni, Pierfranco e Micol Bruni portando alla luce, tra l’altro, una significativa documentazione epistolare che fa emergere una temperie di grandi incontri e discussioni.

“…è piuttosto raro trovare in Italia un critico che sappia leggere e che avvicini un autore senza preconcetti estetici o ideologici”. Così scriveva Ignazio Silone, l'autore del famoso romanzo "Fontamara" allo scrittore Francesco Grisi in una lettera datata Roma 24 luglio 1957. Grisi aveva scritto un brillante articolo per "La Fiera Letteraria" nel quale analizzava tutta la produzione di Silone. Lo scrittore abruzzese in una lettera si rivolgeva proprio in questi termini al giornalista e scrittore, Grisi, con il quale ha poi intrattenuto un rapporto di vera amicizia sino alla sua scomparsa avvenuta nell'estate del 1978.

Questa lettera, insieme ad altre 68 lettere e carteggi vari di scrittori italiani del Novecento, sono state studiate da Pierfranco e Micol Bruni e analizzate in un saggio dal titolo: “Francesco Grisi. Il sacro e la letteratura” pubblicato per conto del CSR “Francesco Grisi” con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Si tratta di un testo dove si evidenziano i rapporti di Grisi con il Novecento letterario e dove emergono importanti spaccati letterari del Novecento. Pierfranco Bruni sottolinea l’importanza che Grisi ebbe con scrittori come Diego Fabbri, Ignazio Silone, Mario Pomilio, Giuseppe Berto, Ettore Paratore.

Una significativa documentazione emerge da questa ricerca. Come il carteggio tra Mario Pomilio e lo stesso Grisi. Un Pomilio che difende l'autonomia della letteratura. come la difende Antonio Barolini. Pesante, invece, è una lettera del giornalista della Rai Andrea Barbato, indirizzata ad Antonio Barolini. Si scaglia contro gli intellettuali non conformisti alla sinistra durante la nascita del Sindacato Libero Scrittori avvenuta nel 1970 prendendo le distanze dal Sindacato Nazionale Scrittori di matrice social - comunista. Interessante, dal punto di vista politico - culturale, è anche la testimonianza di Libero Bigiaretti.

Sorprendente è, tra l'altro, la lettera di Riccardo Bacchelli datata Milano 20 maggio 1964, nella quale emerge lo spirito critico dello scrittore de "Il Mulino del Po". Triste e ironica, invece, la lettera di Marotta datata Roma 11 luglio 1962, nella quale si sottolineano gli impegni dello scrittore napoletano e i suoi rapporti con il mondo dello spettacolo, della canzone e della cultura.

"Si tratta di un lavoro accurato, precisano Pierfranco e Micol Bruni, che presenta delle novità particolari che riguardano sia la letteratura nel suo aspetto creativo e religioso sia la letteratura letta in un rapporto con la vita politica degli anni compresi tra il 1968 e gli anni Settanta. Si avverte il disagio di molti scrittori cattolici (e laici) nei confronti della cultura egemone di sinistra”.

Nelle pagine, scorrono intagli storici che indagano il legame tra letteratura e sacro, mostrando una vera e propria teologia del pensiero dove le parole nascono dal silenzio e sono esse stesse un atto di fede.

Francesco Grisi, che ha fatto ‘diversi mestieri’, ricorda il saggio (ha infatti insegnato all’Università, ha scritto libri, è stato giornalista), era esperto in umanità. Sapeva che ‘l’orologio è cronaca’ e che c’è un altro tempo da fermare: sono le attese dei paesi del Sud perennemente appesi ai burroni di roccia e di precarietà, c’è un messaggio da cogliere nella poesia greca e in quel mito che – insieme a Mircea Eliade - è un eterno presente. Un oltre che la sua penna e la sua tavolozza di colori forti raccontavano con arguzia.

Ci sono simboli ondeggiano nel vento dei segni, la vita “è sempre un cerchio – annotano i Bruni – non è una linea retta. Si parte da un punto e si ritorna lì, a vedere incantesimi’’, a giocare con alchimie e delfini che danzano nel mare dei greci che conosce le rotte di Ulisse.

Anche per questo “Grisi e’ un viaggiatore che sa che oltre il vento d’altura gli orizzonti sono infiniti, e la memoria e’ una marea’’. Nelle sue pagine dense di glosse, c’è però un “costato che è la preghiera’’. Lo testimoniano anche i suoi scritti su Francesco d’Assisi o su Jacopone da Todi, fino alle riflessioni su Giovanni Paolo II. A sostenere la narrazione, la convinzione che per gli abitanti della terra “ogni cosa e’ necessario che avvenga. Anche la Via Crucis della perdizione’’.

Il verbo è andare avanti, graffiare di verità le sere, anche quando ‘I giorni non si somigliano tutti’, per dirla col titolo di un romanzo postumo di Grisi. In questo percorso, la speranza diventa un linguaggio, perché “l’attesa di religiosità – rimarcano Pierfranco e Micol Bruni– è una ruga che si avverte e che non va dimenticata”. Una ferita, forse, propria a intellettuali che “non si lasciano trascinare dalle mode”.

Una ricerca sulla quale Pierfranco Bruni continua a lavorare attraverso altro materiale inedito compreso materiale fotografico. Questo saggio si inserisce negli studi che il Centro di Ricerche “Francesco Grisi” compie da quasi un decennio sul rapporto tra fede e letteratura. Il sacro e la letteratura sono dentro il “materiale” letterario che ha formato il progetto poetico e narrante di Grisi.

Nella foto: P. Bruni

 

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pubblicato il 9 Mag 2007

MARIA ZANONI SI RACCONTA IN POESIA

Maria Zanoni, ricercatrice di Antropologia, racconta la sua esperienza di donna in poesia.

Nella vita ci sono momenti in cui uno scrittore sente il desiderio di raccontarsi. E lo fa pubblicando una raccolta di poesie.
È capitato a me, dando alle stampe “Azzurro nell’anima” per le edizioni Arte 26.
Si tratta di una silloge di liriche a tema unico, l’amore, che ho custodito in un cassetto per ben 35 anni. Tanto tempo... Ma la vita intesse destini contro cui la volontà nulla può. Misteriosa alchimia della scrittura...
Forse, dopo varie pubblicazioni di natura socio-antropologica, la convinzione di partecipare agli altri sentimenti ed emozioni è maturata dando ascolto agli insegnamenti del grande Pablo Neruda: “Lentamente muore chi non cambia la marcia, chi non rischia. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni”...


Allora la scrittrice di tradizioni popolari si mette in gioco e, nella stagione dei bilanci, decide di fare un salto senza rete. A 20 anni tutto sarebbe stato più semplice...
In genere un giovane che aspira a diventare scrittore, con slancio ambizioso, pubblica un libro, a sue spese o con un editore compiacente, quasi a coronare i suoi sogni giovanili, e non si rende conto che quello è ancora il momento di maturare ed affinarsi. E poi, ahimè, spesso si smarrisce e nessuno sente più parlare di lui.
E non parliamo delle donne-poeta (o poetesse?!?).
Proprio questo dilemma su come definire il genere femminile che si esprime in versi, la dice lunga sul fatto che la storia annoveri poche donne in poesia. Anche se oggi stiamo recuperando un ritardo di secoli.
Ma Dacia Maraini, parlando delle donne in poesia, nel suo libro-manifesto “Donne mie” dice: “È una voce fiacca, grezza e mutilata / che viene da lontano, da fuori della storia, dall'inferno degli sfruttati”.


E Dario Bellezza, nel 1974, riferendosi al testo della Maraini scriveva: “...proprio nella letteratura le donne smentiscono quell'odiosa e razzistica imposizione della barbarie maschile di definire una donna un essere inferiore, non per ragioni talvolta storiche e sociali, alle quali fanno bene le donne a ribellarsi, ma arrivano, i fessi, i fascisti del sesso, a dire che la donna sarebbe inferiore per struttura biologica. Non è vero, non esiste più grosso torto fatto ad un essere umano di questo, anzi quando nasciamo siamo tutti uguali, maschi e femmine, senza distinzione. In letteratura abbiamo una quantità sterminata di forti scrittrici, anche se le storie letterarie le occultano, perché le storie letterarie sono state sempre fatte dagli uomini” – conclude il critico.


Il problema resta sempre attuale ed aperto, anche se i tempi sono cambiati.
Oggi, sono numerose le donne che cercano di dare voce poetica ai loro sentimenti, affiancandosi agli uomini, come in ogni campo, non per insidiare quella supremazia che finora hanno avuto, ma solo per condividere la gioia che la poesia dà in ogni momento, sempre e comunque.
In realtà, anche le donne di indole più concreta, più impegnate nel sociale, hanno momenti in cui il loro senso poetico può trasformarsi in poesia. Non esistono doveri così assoluti e condizionanti che possano soffocare completamente l’afflato poetico.
Anche perchè la poesia non è sempre e comunque ispirata da avvenimenti, dolori, avventure.
Il problema per una donna-poeta, soprattutto nella società meridionale, invece, è, ne sono fortemente convinta, quello di avere il coraggio di esporsi, di mostrare a tutti il proprio cuore; e se decide di mettere in piazza le passioni socio-politiche corre il rischio di essere tacciata di femminismo, nella società ancora a dominio maschile.


L’arte e la poesia, piuttosto, sono per le persone più sensibili e fragili una valvola di sfogo nelle avversità della vita, in una società piena di violenza, in una realtà colma di materialismo ed egoismo, nella quale ci orientiamo a fatica.
La sensibilità, tutta femminile, può trasformare in versi il guardarsi nell’animo e scrutare nel mistero profondo dell’esistenza.
Infatti, il critico d’Arte Adriana De Gaudio, nella postfazione al mio volume, dice: “Non deve stupire se Maria Zanoni, studiosa di tradizioni popolari, ricercatrice di antropologia culturale, riesce a guardare la realtà, che la circonda, anche con il terzo occhio, quello dell’anima, e a trovare nella poesia, nonostante le miserie e le nefandezze umane che ci circondano, la bellezza dell’amore. Amore immenso, che nell’azzurro, senza il limite dell’orizzonte, trova l’acme per elevarsi ed esprimersi. [...] La diversa gamma cromatica scandisce il bioritmo della poetessa, regola, a seconda della variazione e intensità tonale, la voce del cuore che, vibrando dal profondo, cattura l’ispirazione in un verseggiare liricamente modulato. L’uso della metafora, della similitudine, dell’iperbole, traduce in efficaci immagini visive, il flusso del pensiero. [...] Una testimonianza veridica, un messaggio poetico da intendere non semplicemente come un “pezzo di vita”, ma un invito a proseguire il viaggio terreno, conservando sempre la curiosità, lo stupore, l’entusiasmo” - conclude la De Gaudio.


Dunque, che i poeti vanno cercati e incoraggiati lo dicono in tanti.
Lo stesso grande Papa Giovanni Paolo II, nella Pasqua del ’99 rivolgendosi agli artisti, affermò: “La società ha bisogno di artisti, come ha bisogno di scienziati, di tecnici, di lavoratori, per la crescita della persona e lo sviluppo della comunità attraverso le altissime forme dell’Arte.”
E il dubbio mi sfiora. Quanto può interessare ancora, oggi, nella società dell’immagine, la poesia (emozione ed astrazione)?
Eppure ci sono tanti giovani che coltivano con passione quest’arte.
Che si chiamino Filomena, laureata in Marketing territoriale, che adora i versi del poeta turco Nazim Hikmet e si regala la sua opera omnia; o che si chiamino Ciro, che sta nel campo della Giurisprudenza e fa della poesia la sua ragione di vita, poco importa.
La poesia vive e continua a testimoniare la condizione umana. E non solo per un’èlite di attempati cultori.


La poesia è vita. Nonostante “Carmina non dant panem”, come mi ripete spesso il mio amico Ciccio.
In verità questa mia silloge di 40 poesie, non titolate e senza data volutamente, scelte tra quelle dei primi anni settanta mescolate ad altre più recenti, mi riporta ai primi versi giovanili, affidati ad un foglietto, onnipresente nella tasca posteriore dei jeans.
Eh, già, quei jeans per poche di noi ragazze del sud, uscite dal Sessantotto, senza averne coscienza, erano, nel nostro sentire, ansia di libertà (o illusione di libertà???).
Questo volume, che fa dell’azzurro un simbolo, non è una sorta di autobiografia lirica, fatta di mille frammenti di vita. Questi frammenti sono fatti di sogni, colori, immagini, voci, rimpianti, ricordi.
Non a caso la copertina riporta un mio dipinto olio su tela del 1977. Una coppia di amanti che si dileguano su uno sfondo senza orizzonte, ancora una volta azzurro. I due corpi, nudi, che si confondono e si fondono nell’abbraccio, uscirono dalla mia tavolozza di dilettante, ispirata a Paolo e Francesca danteschi.


Chi avrebbe immaginato, trent’anni fa, che avrebbero fatto da coperta ai versi, strappati a fogli ingialliti su cui il tempo ha scolorito le parole scritte con la Olivetti Lettera 22 (ambìto regalo della maturità classica, amata compagna di viaggio, tradita per un computer).
So bene che non compete a me dare giudizi di merito sul mio lavoro; e non lo faccio.
Provo a sfidare me stessa, raccontandomi. E mi racconto verseggiando sul mio anelito giovanile di libertà, sui sogni e le conquiste. Allora, per dirla con William Shakespeare: “Il mio occhio si è fatto pittore e ha tracciato forme... sulla tavola del mio cuore”.
Questa mia poesia d’amore è l’azzurro della mia anima, senza tempo e senza spazio. È il sentimento di tutti i tempi, quello che la poetessa Maria Pawlikoswka paragona alla Nike di Samotracia che “con lo stesso ardore tende le braccia mutilate e vola”. “Ansia senza limite” – direbbe Neruda.


Non ci sono storie vere tra le righe della mia poesia, lo dice bene il critico letterario Pierfranco Bruni nella prefazione, di cui il volume si pregia.
“Un afflato lirico nelle maglie di una tensione tutta giocata sul filo dell’onirico – dice lo studioso di poesia del ‘900. Si intesse il gioco delle parole nella griglia dei sentimenti che raccontano emozioni. Non storie. La storia è altrove. Resta “bloccata” nel labirinto dell’anima. Poesia lacerata nei giorni vissuti. Così questo percorso poetico di Maria Zanoni. Poesia alta e scavata. Linguaggio nel sublime. Sentieri incantati. L’azzurro non è una parola. È una dimensione dello spirito nella vita che consuma le ore dell’amore. La poesia è un tratto dell’esistenza nel cammino che accompagna Maria Zanoni. Un tratto che racchiude il misterioso incanto-disincanto di una armonia-disarmonia di passioni che sono una esplosione nel tempo del perdere e del ritrovarsi. Se c’è una storia d’amore, poco importa, perchè il poeta sta sempre al di là della storia stessa, la quale si racconta quando tutto è trascorso, ma non finito. Perchè nulla finisce realmente. [...]

L’azzurro è, dunque, una metafora, ma forse è anche qualcosa che va oltre e sa di più di un cielo che si lascia dipingere da un vento d’altura. [...] Ma questi versi di Maria Zanoni sono un viatico nel quale si va alla ricerca della luna che tramonta in un orizzonte di rossi crepuscoli per recitare “corse senza tempo” restando “tra la scogliera / e il mare”. E come tutte le belle poesie (il termine belle sta a significare anche la giusta misura dei versi e lo sviluppo estetico del “poemetto”) lo strazio e lo strappo dell’anima (o nell’anima) assume un colore (che sa di luna, di chiarore, di intenso, di denso e quindi di profondo) che va appunto oltre la favola della metafora, come già si diceva. – afferma Bruni - E perchè tutto questo? Non dimentichiamo un fatto che risulta, in tale contesto, significativo: la Zanoni dipinge i colori delle parole. L’Artista dell’azzurro e delle forme rende vitale il senso del misterioso che cela ora il volto dei personaggi nei suoi lavori pittorici, ora il valore delle parole nella autenticità di una espressione che resta costantemente onirica. La bellezza e l’amore non sono le maschere dell’azzurro. L’amore e la bellezza sono una sensualità mai definita del tutto, ma mai rivelata completamente.

È qui il punto che, comunque, non chiude il mosaico, ma aggiunge tasselli nel silenzio degli incanti o nel silenzio di un incontro che trova però nella poesia lo sguardo dell’amplesso: “Abbracci di fuoco / si concedono / senza ricatti”. Oppure: “...ci respiriamo l’anima / a fior di labbra”. C’è, come si sottolineava, sensualità. Intenso amore, ovvero eros che chiede al ricordo di farsi vita. Una poesia nel tempo. Il tempo non assoluto. Ma il tempo del poeta è nella misura della propria testimonianza. [...] È vera poesia del sogno che fa sognare nella recita dei ricordi”.


Nella foto: La scrittrice Dacia Maraini con Maria Zanoni nel 2003

 

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pubblicato il 4 maggio 2007

LA METAFORA DELLA CONCHIGLIA

 La Letteratura di Pierfranco Bruni tra attese, ricordi e misteri.

di Maria Zanoni



Tre lunghi racconti, legati da un unico filo conduttore: il senso del vivere tra sogno e realtà.
“Il mare e la conchiglia” (Pellegrini editore) nuovo romanzo di Pierfranco Bruni è ”una metafora, oltre la metafora”.
E profuma di mare l’elegante copertina patinata color verde Paolo Veronese (ottima scelta grafica della curatrice della veste editoriale del volume, Micol Bruni) che riporta un’opera pittorica del 1987 dell’indimenticabile scrittore Francesco Grisi.
Bruni, scrittore della “mediterraneità” si racconta in 109 pagine, tra le nostalgie, i sogni, le emozioni, le attese. E le sue parole “si confondono nel cerchio magico”... mentre “ la luna cade sui tramonti”.
È la memoria l’eco restituito dalla conchiglia. E lo scrittore, che si sente “un bandolero stanco” continua a vivere “di tramonti e calcolati oblii”.
Allora mi chiedo: dove finisce il racconto e dove inizia la poesia!?!
La narrazione, ricca di riflessioni, diventa poesia. E lo scrittore che medita si confonde con il poeta che sogna. La realtà è fagocitata dalle sensazioni, dalle emozioni che emergono dai ricordi. Ogni pagina è tripudio di segni e meditazioni, tessere di un mosaico ricco, variegato ed equilibrato nei colori dell’anima. Anche “i silenzi sono segni” che il poeta affida al “paese del vento”, perchè li custodisca.
Lo scrivere di Bruni, anzi, il mestiere-fatica di vivere, nasce da una vena malinconica e pensosa, da una vera umanità narrante, sospesa “sempre tra i rigagnoli di un’attesa” che “custodisce ore bruciate dai crepuscoli”. I suoi libri (tanti, che ormai ho perso il conto) sono “una costante interrogazione sulla Terra Promessa”, che cercano risposte nella fede, sulle tracce di San Paolo.
Pierfranco Bruni è il poeta della nostalgia, “viandante” in terra di Magna Grecia, “marinaio nel vento” del Mediterraneo, che “ascolta il silenzio – il silenzio oltre le parole – in un tempo di disincanti, in un’epoca che “ha ucciso i sogni” e i giorni trascorrono nella mediocrità, tra amarezze e disillusioni.
“In un tempo di lunghe malinconie lo scrittore è l’unico a non sentirsi indispensabile”. E coglie il senso del vivere tra poesia e letteratura, tra immagini e simboli.
In queste pagine si ripete quanto afferma Stefano Zecchi in prefazione ad un precedente romanzo di Bruni, “Paese del vento”: “Compaiono simboli dell’architettura complessa in una successione che sa sapientemente alternare la forza dirompente del sogno o l’intensità malinconica della memoria”.
“D’altronde la letteratura è un’immaginazione che inganna e salva” – dice Bruni - che trova nel “vizio” della letteratura l’àncora di salvezza, dopo il naufragio e le disillusioni della politica. E il passato si veste di nostalgia, nell’avventura del testimoniare la propria esistenza.
Ma l’esistenza vera del poeta non appartiene alla storia, ma al sogno. È allora che il ricordo-nostalgia di una donna mediterranea diventa frenesia, follia, amore impossibile dello “scrittore vanesio” per il quale “la vanità è un gioco pericoloso”. Ed il rapporto passionale con il paese natìo è un’ossessione ancestrale che vive inconsciamente nel suo animo e genera inquietudine lacerante che la letteratura registra come sentimento nostalgico.
Le nostalgie colmano le solitudini della vita. Ecco, allora, che affiorano i ricordi, raccolti dalla memoria. Gli incontri “romani”, a casa del caro amico-maestro Francesco Grisi, a discutere e ascoltare di Letteratura, con Alberto Bevilacqua ed altri intellettuali. “Il tempo è mistero e Roma diventa una conchiglia sulla spiaggia dello spazio e del tempo. Il mistero è nella conchiglia”. Scriveva, allora, il poeta della memoria.
Il viaggio di Bruni tra fantasia e mistero continua, fedele all’insegnamento di Francesco: “Chi ha vissuto il tempo delle idee deve testimoniarsi”, alimentandosi di “quei valori forti che non trovano più spazio nella testimonianza politica''. In queste pagine, oltre al ricordo dei terribili “anni settanta”, continua, più o meno apertamente, la riflessione e nello stesso tempo l’invito alle nuove generazioni a ritornare ad una politica che abbia forti contenuti culturali, confrontandosi nel presente con i valori della tradizione, con la dimensione spirituale dell’individuo. L’agire politico deve ritrovare un senso etico ed estetico, al di là di ogni forma di potere. Lo dice ben chiaro Bruni nel saggio di qualche anno fa “Oltre la foresta. L’estetica della politica” (Edizioni Centro Studi e Ricerche Grisi).
“La politica dei valori è nel ritrovare la cultura della comunità di un popolo, di una civiltà, di un territorio, di una città. Se non ha questo indirizzo la politica è solo lo scenario per una recita malinconica”.
E ricompaiono le malinconie, “tra amori mancati e anni smarriti”. Emergono tra le righe la tristezza del distacco e il desiderio del ritorno al “paese del vento”. Un’altalena di partenze e ritorni che solo la poesia può cristallizzare. In un continuo, frenetico viaggiare tra la Roma degli impegni ministeriali, i paesi balcanici degli scambi etnico-culturali, la “sua” Taranto e la terra delle radici, degli affetti, dei sacri legami, affiorano dal fondo del cuore dello scrittore i vicoli del suo paese, “i lunghi silenzi dell’infanzia che ora si fanno attesa”.
La vita dello scrittore è fatta di attese, di fantasie e misteri, di voci raccolte in una conchiglia. La Letteratura per Bruni non è occasionalità. È destino.
E, così, sul filo della memoria e della “indefinibile” nostalgia, tra mediterraneità e metafora del ritorno, il viaggio continua.


*pubblicato sul quotidiano La Provincia Cosentina - Tracce - pag. 35 - Venerdì 4 maggio 2007

 

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pubblicato il 24 Dic 2007

Poesia e luoghi - Se la poesia recita la piazza

di Pierfranco Bruni



C’è un legame significativo tra la poesia e i luoghi, tra la lingua e le eredità di una cultura popolare, tra processi storici e linguaggi all’interno di una geografia sia letteraria che esistenziale. Sulla base di tale sottolineatura il discorso tra la poesia e il “luogo” piazza diventa fondamentale in una chiave di interpretazione in cui la lingua diventa linguaggio e il linguaggio si serve di modelli di contaminazioni che definiscono elementi di partecipazione.

È proprio il concetto di piazza a trovare nella poesia italiana un riferimento importante non solo come “metafora” di una rappresentazione di un luogo definito ma soprattutto come incontro tra culture. La piazza resta, in poesia, quell’agorà in cui spazio e tempo si definiscono nella misura in cui il luogo diventa una metafora di dialogo. La poesia che è espressioni di sentimenti, di sensazioni e di esperienze linguistiche si racconta anche grazie all’essere del luogo.

Ci sono poeti nella letteratura italiana del Novecento che hanno “recitato” la piazza e hanno fatto della piazza un tempo della loro esistenza. Da Vincenzo Cardarelli a Giuseppe Ungaretti, da Salvatore Quasimodo a Vittorio Bodini, da Cesare Pavese a Rocco Scotellaro, da Corrado Alvaro a Francesco Grisi, da Alfonso Gatto a Sandro Penna, da Raffaele Carrieri a Leonardo Sinisgalli: il percorso si incide tra immagini e linguaggi in cui la parola resta un battuto lirico per eccellenza.

La piazza la si recita come un spazio geografico vero e proprio ma anche come una allegoria del recupero di una centralità di un tempo che non è cronologico o storico ma profondamente onirico. Un tracciato con dodici poeti che designano un cammino oltre ogni realtà figurata. Certamente come riferimento resta Gabriele D’Annunzio. Un D’Annunzio con le sue piazze dove si racconta e racconta gli intagli di un luogo che è anche recita.

Ma D’Annunzio è il poeta italiano che ha segnato il percorso di tutta una poesia nuova dalla quale il Novecento letterario si è fortemente contestualizzato sia dal punto di vista linguistico che oggettivo e soggettivo. La poesia non solo ha recitato nelle piazze ma, con questo tracciato, la poesia recita la piazza. E lo fa usando, appunto, gli strumenti più consoni che sono quelli della lingua, dei linguaggi e della cultura popolare. I poeti qui citati sono la testimonianza vitale di un incontro tra il luogo e l’essere stesso della parola. Si pensi a Rocco Scodellare che usa una lingua profondamente radicata nella cultura contadina e il paese – luogo è tutto un incontro nella piazza.

Il paese stesso diventa piazza. Come in Leonardo Sinisgalli dove la poesia si fa quadretto e si racconta di un vivere nel suono dei gioco dei ragazzi che si incontrano nella piazza del paese. Si pensi a Vincenzo Cardarelli dove il paesaggio è tutto un giocare e intrecciare immagini di un luogo di infanzia tra strade e vicoli alla ricerca di un riferimento qual è appunto la piazza stessa. Si pensi ad Ungaretti in cui l’incastro delle metafore è un viaggiare tra fiumi e porti proprio alla ricerca di uno spazio che possa contenere l’indefinibile.

E il sud con il suo vento o i navigli al nord sono finestre nel cuore di un poeta che ha abbandonato la piazza e il paese per andare altrove sono in Quasimodo il bisogno di ritrovarsi. Un ritrovarsi con immagini fisse sulle case e tra le strade trova in Vittorio Bodini una realtà definita in una memoria che è nostalgia. E al nostos, ritornare ai luoghi dell’infanzia e alla piazza di un paese che custodisce solitudini, pensa spesso Francesco Grisi in un immaginario che è quello Magno Greco.

E tutta la Magna Grecia si fa immensa piazza in Raffaele Carrieri che recitando la sua città riporta nel canto le nenie e i lamenti di donne che raccontano vita. Come in Cesare Pavese che è come se dipingesse quelle donne che con l’anfora in testa si recano alla fontana in un paese che è esistenza in quanto è luogo di incontri tra le parole che si contaminano con una soffusa grecità. Quella grecità che assorbe i suoni del Mediterraneo nel mito mai sconfitto e mai perduto di un Corrado Alvaro.

Si pensi ancora alle piazzette di Sandro Penna, le quali piazzette sono un volteggiare di onde tra i colori delle ore che trascorrono lente nell’ascolto dell’attesa. O alla piazze metafora che si fa isola nel recitativo poetico di Alfonso Gatto. Molti di questi poeti hanno in comune un “sentire” di piazza che significa un lasciarsi catturare dalle immagini che la piazza stessa traduce ma anche la comunanza la si avverte nel constatare che c’è una piazza di paese o addirittura li si incontra ascoltando versi dedicati alla romana Piazza di Spagna.

Una piazza per eccellenza tra un sentire, un immaginare e un vedere. Ma non c’è mai una piazza soltanto affidata alla descrizione o alla rappresentazione pittorica. La piazza è il vero e proprio contro altare di un altro elemento che si sorregge in poesia ed è il labirinto. La piazza è vissuto come staticità, forse anche come ozio, come raccordo di incontri e di parlate. Mentre il labirinto è piuttosto una metafora di un viaggio inquieto dal quale bisogna uscire per ritrovarsi. E ci si ritrova in piazza perché soprattutto nel paese la piazza è simile all’incontro che si vive intorno al focolare domestico.

Il labirinto è un viaggio frenetico, una fuga, uno sradicamento. La piazza, invece, è sempre un appuntamento. C’è una poesia che recita la piazza e recitandola si serve di vari linguaggi che sono affidati certamente alla tradizione. La piazza nella cultura contadina ha ancora qualcosa di rituale e di mitico. Si pensi alla piazza di un paese in una domenica mattina. È il ripopolamento. Ci si ritrova. Ecco perché diventa il centro, ovvero l’agora. Dove tutto si vive e dove tutto si consuma. Ma anche dove tutto ritorna ad essere un incontro. “La piazza è un silenzio/Ricordi di voci nelle sere estive/Si raccontavano partenze e mai ritorni/Il tempo si scandiva ogni mezz’ora/Si ascoltavano i passi e poi c’era il vento/Anche noi pensavamo già di andar via tra i colori sbiaditi dei giorni/Forse siamo andati via/O forse siamo ancora lì/ In attesa di un viaggio nella solitudine di una partenza”.

Dunque perché la poesia recita la piazza? Ma cosa sarebbe la poesia senza la metafora – luogo – tempo - lingua della piazza? E se la poesia recita la piazza le parole nel tempo della disarmonia possono avere ancora un senso.

 

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