Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

   mappa del sito  

   contatti  

   link  

sei in

EDITORIALI  

Etnie  pag. 2


Editoriali

Arte

Costume e Società

Dialetto

Etnie

Letteratura

editoriali, recensioni e saggi su Etnie

le minoranze etnico-linguistiche storiche in Italia

Etnie di Calabria


pubblicato il 3 dicembre 2009

A come Architettura (Arbëreshe?)

di  Atanasio arch. Pizzi e Maria Palma dott.Tateo

La Legge 482/99 sulla tutela delle minoranze etnico-linguistiche, dopo un decennio di applicazione, ha sicuramente messo in risalto i valori culturali delle comunità, facendo emergere al tempo stesso dei limiti in essa contenuti per cui andrebbe sicuramente rivista, nella sua struttura riscrivendola alla luce delle esperienze acquisite.

E’ importante riconsiderare il fatto che le nostre, mi riferisco agli arbëreshe di Calabria Citra, non sono minoranze ma “presenze” minoritarie; infatti si definiscono lingue minoritarie, quelle tramandate da una generazione all'altra, solitamente accanto alla lingua o alle lingue ufficiali dello Stato, elemento, questo di non irrilevante importanza che diversifica la questione sotto l’aspetto politico, giuridico e culturale.

Gli Sportelli Linguistici, nati per informare e divulgare gli aspetti caratterizzanti le comunità sono da subito apparsi limitati e il più delle volte con personale poco motivato o senza adeguata preparazione e quindi non hanno risposto in modo adeguato alle tematiche di cui si erano fatto carico, pertanto il personale andrebbe adeguatamente formato e messo in condizioni per svolgere meglio la loro funzione.

Una tematica completamente evasa dalla legge, se non nella enunciazione, è quello relativo agli aspetto urbanistici ed architettonici, mai valorizzati e difesi in nessun senso, infatti è in atto un decadimento diffuso dei centri storici arbëreshe tale da renderli irriconoscibili.

Le comunità minoritarie hanno espresso il loro patrimonio culturale in contesti urbanistici ed architettonici che hanno consentito lo svolgersi degli eventi; grazie ai quali è possibile leggere le modificazioni temporali con conseguente rilettura della storia degli arbëreshe; ad esempio i sistemi aggregativi, che si attuavano con sistemi ad asse unico, di tipo complesso nel primo periodo e in un secondo momento ad asse simmetrico, aiutano a delineare l’evoluzione economica e sociale delle comunità.

Occorre studiare e quindi analizzare il rapporto con il territorio nel quale hanno trovato dimora i nostri avi, le dinamiche che hanno determinato il loro insediamento, il momento storico, politico, economico e geografico di quella determinata regione.

Se l’incontro tra le diverse civiltà ha prodotto la nascita di nuovi modelli nel corso dei secoli, viene spontaneo chiedersi in che misura l’evoluzione ha modificato la vita degli arbëreshe con il loro bagaglio consuetudinario trascritto nel Kanun.

Nonostante i paesi d’arberia abbiano subìto devastanti terremoti, dovuti all’orografia e alla conformazione geologica del territorio, le loro genti hanno sempre saputo ricostruire con sapienza e metodo adeguandosi alle risorse di quei tempi.

Oggi non si può rimanere indifferenti alla trasformazione di dimore storiche in semplici unità abitative popolari, di vecchie sorgenti in anfiteatri, allo sventramento di centri storici, alla costruzione di centri sportivi a ridosso di conventi testimoni degli eventi che hanno portato all’unità d’Italia; all’apposizione su scenari naturalistici di variopinti centri culturali frutto di pseudo modelli innovativi, tutto ciò definibile più catastrofico dei terremoti del passato.

Le manomissioni ancora in atto, oltre a far perdere il valore storico ai manufatti ed ai contesti dove essi si trovano collocati, li spogliano della loro identità culturale, per cui sarebbe auspicabile dare risalto alle emergenze architettoniche nella eventuale riscrittura della legge 482 e realizzare opportune convenzioni con gli ordini professionali e le Soprintendenze per tutelare e salvaguardare in modo appropriato i nostri centri storici.

  inizio pagina 

pubblicato il 25 novembre 2009

 

Difesa della lingua italiana e “revisione” della normativa sulla tutela delle minoranze linguistiche in Italia a dieci anni dalla emanazione

Tra le lingue e le culture storiche che occorre tutelare bisogna necessariamente inserire anche quelle Armene, Rom e Sinti

 

di Pierfranco Bruni

 Occorre difendere la lingua italiana sia dal punto di vista culturale che giuridico. C’è un dibattito in corso che interessa la tutela della lingua italiana. Un dibattito che parte da molto lontano. Occorre ristabilire una dialettica sia giuridica che culturale sulla modifica dell’Articolo 12 della costituzione. In un tale contesto credo che sia necessario rivedere e quindi riconsiderare anche la Legge (la 482/99) sulla tutela delle minoranze etnico – linguistiche storiche.

Una Legge che va rivista nella sua struttura, va riconsiderata alla luce di un decennio che ha visto diverse trasformazioni nel campo delle minoranze linguistiche in Italia e andrebbe riscritta. O meglio va ricontestualizzata. Ci sono alcuni motivi di fondo.

Prima di tutto (ovvero primo elemento) è necessario parlare di “presenze” minoritarie e non di minoranze vere e proprie. Il discorso è sottile ma qualifica e diversifica la questione sia politica che giuridica e culturale.

Secondo elemento non può interessare soltanto la lingua e le culture o la Pubblica Istruzione ma deve creare la possibilità di comparazioni altre e questo nonostante il successivo Regolamento non si evince con chiarezza.

Terzo elemento: bisogna alleggerirla e aprirla ad un confronto con le identità nazionali. Non la si può circoscrivere ad una tutela e ad una promozione della tutela soltanto delle minoranze non tenendo conto che queste minoranze sono “presenze” nel contesto territoriale italiano, regionale e provinciale. Contesto che ha già un suo dialetto.

Quarto elemento: le 12 minoranze linguistiche di cui parla la normativa sono ampiamente superate anche se ci si riferisce ai livelli storici. Un solo esempio: è necessario inserire nella tutela la lingua e la cultura armena come è da riconsiderare le culture e le lingue dei rom e dei sinti presenti sul territorio italiano.

Quinto elemento: non può essere considerata come un serbatoio dove attingere economie per una tutela che, a volte, è abbastanza mediocre dal punto di vista della proposta culturale.

Quindi occorre rivederla nella sua struttura e nella sua complessità. Gli stessi Sportelli Linguistici, nei territori interessati, dovrebbero avere una funzione di forte incisività culturale e invece sono molto limitati. D’altronde il dibattito sulla modifica dell’Articolo 12 va a cambiare logicamente la Legge in questione e perciò occorre necessariamente ricontestualizzare la tutela delle minoranze storiche sulla base della difesa della lingua italiana e dell’identità italiana. Una riflessione di altro tipo, comunque, va rivolta a questa normativa sulla base di alcuni principi.

La presenza delle minoranze etnico-linguistiche in Italia, riconosciute come tali, va considerata almeno  secondo tre aspetti.

Il primo aspetto è, certamente, storico in quanto occorre capire e analizzare il rapporto tra la loro provenienza e la contestualità territoriale nella quale le stesse minoranze si sono stanziate. In tale aspetto rientra certamente una meditazione e una valutazione delle influenze che si sono verificate nel momento in cui le minoranze si sono insediate all’interno dello stesso territorio italiano e all’interno di un particolare assetto geografico. Perché un loro insediamento ha contribuito a creare una rete estesa di legami e di rapporti con le popolazioni già esistenti sul territorio e nelle strette vicinanza e quindi essendo state popolazioni aggiuntive al territorio si è verificato un incontro tra storia, modelli di civiltà e tra assetti territoriali stessi. Proprio per questo è necessario approfondire quelle valenze storiche che nel corso dei secoli hanno portato alla luce modelli di identità. 

Il secondo aspetto è, chiaramente, quello che riguarda gli elementi giuridici. In realtà una minoranza linguistica per resistere su un determinato territorio o all’interno dell’intero Paese Italia ha necessità di essere tutelata grazie a precise normative che devono garantire la salvaguardia della loro presenza attraverso apposite leggi stabilite sia a livello nazionale sia a livello regionale ovvero locale. Su questo tema si sono sviluppati diversi dibattiti ma resta fondamentale ciò che stabilisce la Costituzione della Repubblica Italiana. O meglio occorre far riferimento costantemente all’articolo 6 della Costituzione nel quale si sottolinea : “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Eravamo nel 1948, da allora la discussione sia giuridica, istituzionale e parlamentare è stata abbastanza articolata e vasta. Proprio partendo dall’articolo 6 alcune regioni nelle quali ricadono le presenze minoritarie si sono sentite in dovere di proporre e attuare delle normative e delle leggi in grado di tutelare e promuovere le realtà etnico-linguistiche ricadenti ,certamente, nel territorio di competenza. Sulla scorta di una discussione che è continuata per anni soltanto nel 1999 è stata promulgata una legge che sancisce “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”.

La legge in questione è del 15 dicembre 1999 n.482 ed è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.297 del 20 dicembre 1999, il cui regolamento di attuazione è andato in vigore il 28 settembre 2001. In questa legge si sancisce come recita l’articolo 2 : “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche e slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”. La legge che è costituita da 20 articoli punta, certamente, a valorizzare il patrimonio linguistico e culturale ma anche sottolinea l’importanza della valorizzazione della lingua e delle culture. Quindi non solo tutela la lingua ma anche il  tessuto culturale di cui le minoranze sono portatrici. C’è da ribadire,comunque, un dato significativo sul quale la discussione è di estrema attualità : l’articolo 1 di questa legge ribadisce “La lingua ufficiale della repubblica è l’italiano”. In virtù di tali elementi si è aperta la discussione, di recente, proprio sull’articolo 12 della Costituzione in materia di riconoscimento dell’italiano quale lingua ufficiale della repubblica. È necessario ,chiaramente, approfondire i risultati che  hanno portato la legge n.482/ ’99 non solo dal punto di vista giuridico ma anche dal punto di vista storico e proporre che tipo di incidenza politico-culturale nel corso degli anni si è innescato anche alla luce della autonomia regionale.

Il terzo aspetto è prettamente culturale e interessa in modo particolare la ricostruzione di queste presenze e della loro incidenza storico-sociale. Ciò ha portato ad una discussione sul concetto di etnia, ovvero della valenza storica dell’etnia in Italia a partire sia dall’Unità d’Italia e successivamente dal 1948 alla L.n. 482/ ’99. La questione riguarda le presenze minoritarie storiche e si guarda con attenzione a quelle presenze definite stanziali e non migratorie. Un inciso che è prettamente culturale  in quanto si ribadisce  il fatto che si tratta di presenze minoritarie all’interno di culture nazionali e non tout court di minoranze linguistiche. Ogni realtà di presenza minoritaria ha vissuto un impatto particolare con il territorio sia in termini di incisività storica sia sul piano culturale attraverso usi, costumi, tradizioni ed elementi etno-antropologici e letterari che andrebbero analizzati sia sotto il profilo storico sia sulla base di moduli normativi sia  attraverso una residuale presenza linguistica e perciò culturale.

Detto ciò bisogna ritornare sul dettato sottolineato all’inizio. Occorre porre al centro la tutela della lingua italiana. Bisogna difendere l’Italiano e l’italianità nella lingua e nella cultura, nella storia e nelle eredità. Oggi più che mai va difeso il concetto stesso di italianità perché rimanda all’idea vera di Nazione. Senza nulla togliere alla presenze delle “isole” minoritarie ma bisogna avere la consapevolezza forte che restano delle isole linguistiche. Attenzione a non confondere il valore antropologico con quello storico, il valore di una letteratura nazionale con quello di una frammentazione “etnica”.

Ci sono realtà che vanno salvaguardate perché sono il portato di una storicità che va ben oltre il 1861. E’ necessario riflettere su tali questioni perché è necessario difendere una lingua e con la lingua l’eredità nazionale.

Le presenze minoritarie devono essere certamente tutelate ma all’interno di una tale temperie. Ecco perché la normativa del 1999 diventa ormai quasi obsoleta sia sul piano culturale sia sul versante di una analisi storica sia su quello giuridico. L’Articolo 6 della Costituzione è un riferimento certamente ma il dibattito e le posizioni sulla modifica dell’Articolo 12 impongono un diverso modo di approccio allo stesso Articolo 6 che riguarda, appunto, le minoranze linguistiche ed etniche storiche.

  inizio pagina 

pubblicato il 16 ottobre 2009

Cultura albanese e cultura arberesh. Una nuova ricerca per meglio comprendere l’appartenenza ad un territorio
di Micol Bruni


Minoranze e territorio. Ovvero rapporto tra popoli altri e appartenenza ad una cultura, che caratterizza i luoghi, i costumi e le tradizioni di mondi lontani. In Italia le culture altre sono tutelate dalla L. n. 482 / '99 che detta le norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche.
L’articolo 2 di tale legge specifica le presenze minoritarie in essa tutelate anche se tali presenze, dal punto di vista della realtà antropologica e in una dimensione geopolitica che insistono sul territorio, sono molte di più.
      A norma dell’articolo 2 si legge : “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco – provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.
      È necessario, per tutelare una minoranza partire da un dato di sicuro spessore che è quello giuridico. Perché tutelare non significa necessariamente e unicamente promozione culturale delle tradizioni di queste realtà, ma deve portare alla luce, attraverso l’analisi dei testi e le ricerche storiche, alla nascita di tali culture e alla loro integrazione nel territorio italiano. Pertanto, sarebbe interessante analizzare  le singole minoranze all’interno di un territorio storico, antropologico e giuridico.
    Gli Arbereshe, cioè gli Italo – albanesi , in questo caso specifico,  hanno una particolare singolarità che si è sviluppata nei vari percorsi storici. Gli Arbereshe sono una delle minoranze che ha una forza culturale e giuridica notevole. Essi sono presenti sul territorio nazionale in numero maggiore rispetto alle altre realtà minoritarie e sono  l’unico popolo che ha vissuto la diaspora come fenomeno caratterizzante. Si pensi alle regioni coinvolte. La Calabria, la Puglia, la Basilicata, la Sicilia, il Molise, la Campania e l’Abruzzo. In Calabria inoltre le comunità italo- albanesi ammontano a 33 paesi. Bisogna cercare di analizzare la storia di queste minoranze linguistiche, gli arbereshe, non soltanto da un punto di vista culturale o attraverso le comunità presenti in Italia. Bisogna partire da più lontano. Ovvero da quando gli arbereshe erano ancora albanesi. Cioè dal loro arrivo in Italia in seguito alla morte del condottiero e loro eroe Giorgio Castriota Scanderbeg, avvenuta nel 1468.
      Una ricerca che parte dalla analisi delle tradizioni e delle origini permetterebbe, di comprendere meglio le ragioni storiche e giuridiche della presenza di queste realtà minoritarie in Italia.
      Questa operazione è possibile, nel caso degli arbereshe,  attraverso lo studio del Kanun. Se si consulta un dizionario di lingua albanese si legge che per Kanun si intende statuto, regolamento legge. “Il Kanun è un alegge che è stata raccolta come i chicchi di grano in questa grande povertà” (Ndrek Pjetri).
         
      In particolare mi riferisco al Kanun di Lek Dukagjini diffuso nella montagna della Malesi e Madhe, nella regione del Dukagjini, in quella di Tropoje e in tutto l’arco delle montagne al confine con l’attuale Kosovo.
      Naturalmente oggi il Kanun non è più in vigore ma attraverso la sua rilettura si può comprendere quella che era la tradizione giuridica degli albanesi per meglio capire quella che è la storia e l’integrazione dei paesi oggi ancora arbereshe. In un’opera dal titolo Kanun le basi morali e giuridiche della società albanese  ( Besa Editore) la studiosa Patrizia Resta afferma che “la consuetudine è stata acquisita dal popolo albanese come norma (…) pur essendo raccolta di tradizioni va considerato anche come codice consuetudinario (…) pur modificati, alcune valori in esso contenuti costituiscono il nocciolo duro della identità albanese, sotto altre forme …sono parzialmente accreditabili ancora oggi”.
      Bisogna ricordare che tale codice è una raccolta di leggi consuetudinarie che si sono tramandate per secoli oralmente, un po’ come avviene oggi per le tradizioni arbereshe. Bisogna precisare, che a causa della frammentazione delle valli del territorio albanese e delle difficoltà di comunicazione che vi erano nel territorio ci furono e si diffusero diversi Kanun anche se solo a partire dal 1912 un padre francescano Stefano Costantino Gjecov (Kosovo, 1874 – 1929) si preoccupò di raccogliere tali norme e cominciò a pubblicare in parte questa raccolta.  Si ritiene che quello di Lek Dukagjini sia il codice più attendibile anche perchè i vari codici risultano omologhi tra loro sia  in seguito “all'articolazione del territorio, sia alle modalità della trasmissione del testo “ (Martelli, Capire l'Albania). Dopo la sua morte, nel 1933, i padri della provincia francescana d’Albania decisero di riunire l’opera. Ma perché il kanun è detto kanun di Lek Dukagjini ( in origine Kanun delle Valli della Mirdizia e del Massiccio del Dukagjin, attualmenti distretti di PuKe e di Mirdite)? Secondo fonti letterarie la prima opera di raccolta fu realizzata dal principe Alessandro Dukagjini detto, appunto, Lek intorno alla metà del 1400. Lek Dukagjini viene considerato un eroe della tradizione albanese. La storia racconta, addirittura che venne scomunicato da Paolo II nel 1464 proprio per la crudeltà del codice che non si ispirava ai principi cristiani nonostante ancora oggi in Albania viene considerato “Parola di Dio”. 

Quindi è facile comprendere come in realtà tra questi due mondi ci sia uno scontro primordiale. Gli albanesi vedono nel Kanun la parola di Dio, come dicevo, ma mi chiedo se oggi gli arbereshe, che hanno radici si albanesi ma che sono italiani e vivono in un paese cristiano cattolico, possono condividere quelle norme e quanto della loro identità proviene da un mondo musulmano orientale che oggi si scontra con l’occidente cristiano che, come si legge nell’opera di Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico. Vol.2, “…ha una certezza elementare, la certezza fondamentale del cristianesimo : l’idea del primato dello spirito umano”.
            Si vuole però precisare che a nord “era in vigore il Kanun delle Montagne (Kanun i maleve), detto anche Kanun delle Grandi Montagne (Kanun i Malesise se Madhe), presso le tribù di Kastrati, Hoti, Gruda, Klemendi, Kuc, Krasniqi, Gashi e Bytyci, e applicato nelle zone fra il lago di Scutari a Occidente e le alture di di Gjacova (...) a Oriente (...).
           “ A Sud trovava applicazione il kanun di Scanderbeg (Kanun i Skenderbeut), detto anche Kanun dell'Arberia ( Kanun i Arberise) diffuso nelle zone legate alla famiglia  Castriota , nelle regioni di Dibra, Kruja, kurbin e Martanesh (attuali distretti di Diber, Mat, Kruje Kurbin, Tirane), cidificato negli anni Sessanta del seclo scorso da Frano Ilia.
        “ Nei territori toschi si applicava il kanun della Laberise, trascritto di recente da Ismet Elezi, giurista dell'Università di Tirana, diffuso nelle zone costiere di Valona, nel massiccio del kurvelesh, di Himara, fini al 'territorio dei tre ponti', cioè alle città di Drashovica, Tepelena e Kalasa, al confine con la Tessaglia (attuali distretti di Vlore, Vlore è il nome albanesee di valona. Gjirokaster, quello di Argirocastro, tepelene, gjirokaster e sarande).
          “ Il kanun della Laberise è attribuito a un leggendario personaggio, il sacerdote papa Zhuli, fondatore del villaggio di Zhulat intorno al 1481 presso argirocastro. pertanto è anche conosciuto come kanun di papa Zhuli (Kanun i Papa Zhuli ) (Elezi I, 2002)” ( A.A. V.V., Cultura giuridica arbereshe e croata fra conservazione della tradizione e formazione di una nuova consuetudine, Regione Molise, Assessorato alla cultura, 2006, pagg. 39-40)
      Il Kanun oggi rappresenta quella tradizione albanese che apparteneva a Lek Dukagjini e al suo popolo e che padre Gjiecov è riuscito a dotarlo di veste giuridica. Capire oggi molte delle identità arbereshe significa rileggere il Kanun e scoprire quali di quegli elementi che oggi identifichiamo nel popolo arbereshe erano e appartenevano alla cultura albanese.
     Il testo, del Kanun di Lek Dukagjni, è composto da libri che a loro volta sono suddivisi in articoli. I libri che lo compongono sono dodici. La Chiesa, la Famiglia, il Matrimonio, la Casa, il Bestiame ed i poderi, il Lavoro, Prestazioni e Donazioni, la Parola, l’Onore, i Danni, i Delitti infamanti, il Codice giudiziario, Privilegi ed esenzioni.
      Ad una prima lettura si possono notare subito degli elementi che oggi rimangono nella etnia arbereshe. Innanzitutto il rito del matrimonio e della preparazione dello stesso, soprattutto, in quei paesi che hanno mantenuto il rito greco-ortodosso, rimanda  alle tradizioni che vengono menzionate nel codice albanese. E questo è  un dato importante, perché ci fa comprendere come  la lingua e la religione siano elementi che fanno comprendere che la cultura arbereshe non è  una cultura che viene poi da così lontano.  Se si leggono i libri settimo e ottavo dedicati all’onore e alla ospitalità (art.69) e come rivivere quelle tradizioni arbereshe che parlano di ghitonia e, quindi, di rispetto dell’ospite e del vicinato. Il libro decimo del Kanun inoltre istituisce la Besa che è una parola quasi intraducibile nelle altre lingue ma leggendo l’articolo interessato (122) si ritrova proprio quella tradizione di alcuni paesi arbereshe che intendono la besa come la fedeltà ad un impegno. Se si continua la lettura del codice si nota come negli articoli 103- 104 parlando del concetto di “affretellarsi” o della “parentela spirituale” si ritrova quello che oggi in arbereshe si chiama vellamja ovvero proprio fratellanza e rito di parentela spirituale. Senza poi parlare di tutte quelle esenzioni riservate alla chiesa e agli uomini appartenenti a quel mondo (art.1) o di alcune tasse riferite alla coltivazione delle api (art.53), o manutenzione delle acque del mulino ( art.69 – 70 – 71) , o alla terra coltivata con la scure (art.61) o all’allevamento del pascolo (65)che si ritrovano ad esempio nelle capitolazioni di San Demetrio, Frascineto e Spezzano Albanese da me studiate.
      Sarebbe quindi necessario compiere una attenta mappatura di quei paesi del mezzogiorno d’Italia che ancora oggi sono arbereshe con una analisi sulle tradizioni e origini e poi comprendere quali sono le identità che derivano dal mondo albanese o meglio dal Kanun. Questo potrà servire per cercare di ricostruire una storia del popolo arbereshe che dopo secoli rimane ancora oggi il “popolo senza libri”.
      Non si possono chiudere gli occhi e far finta che nel nostro territorio nazionale nel nostro Stato vivono delle realtà che cercano di rivendicare una loro storia attraverso si una questione di minoranze linguistiche ma anche portando ancora dietro delle origini che sono giuridicamente appartenenti ad un mondo opposto al nostro. L’uomo di diritto non può rimanere inerme davanti alla coscienza storica di un popolo che vuole vedere riconosciute le proprie origini al fine di comprendere il reale legame che vi è tra questi due mondi, Occidente e Oriente, musulmani e cristiani, che sembrano così lontani.
      Tutelare, quindi, per non perdere l’identità e per rispettare quelli che sono i doveri civili di ogni uomo.
      Riconoscere ad ogni essere il proprio posto nel mondo perché come diceva Kant   nell’opera Per la pace perpetua, “…gli esseri umani non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e coesistere” per poi condividere doveri e diritti. E solo attraverso la legge questa condivisione può avvenire nel rispetto delle tradizioni, origini e identità personali.
      Riscrivere o meglio scrivere la storia del popolo arbereshe non più pensando unicamente al loro insediamento locale , nel Meridione d’Italia, ma accompagnando questo dato storico ad un dato giuridico. Il Kanun.

  inizio pagina 

pubblicato il 28 settembre 2009

L'Arbëria come patrimonio culturale

e "Viaggio in Arbëria" di Margherita Celestino

Guida attraverso gli itinerari turistico culturali dei paesi arbëreshë d’Italia.

 

di Pierfranco Bruni

 

Il dibattito recente intorno ai processi etnici diventa sempre più importante e si arricchisce di nuovi significati sia istituzionali che di apertura politico – cultu­rale. Si discute se considerare le minoranze linguistiche storiche delle vere e pro­prie minoranze o delle "presenze minoritarie". Un esempio emblematico resta la storia del territorio dell'Arbëria. L'Arbëria, in realtà, è il territorio dove vivo­no le comunità Italo – Albanesi.

Il libro di Margherita Celestino è un ottimo con­tributo per entrare in un territorio ma anche in una idea di cultura dell'Arbëria.

L'Arbëria non è solo un tessuto territoriale o una geografia dentro la quale si misurano i limiti di una realtà storica e culturale. L'Arbëria non circoscri­ve più confini e neppure definisce luoghi o eredità o addirittura appartenenze. E neppure definisce soltanto comunità all'interno di una dimensione naziona­le. Ormai il concetto di Arbéria è molto più esteso e si incentra anche in una visione in cui storia, letteratura, tradizione, rito sono interazioni in una dimen­sione di una cultura che diventa sempre più immateriale. Un'intuizione della Celestino che si raccoglie leggendo il testo.

Eppure l' Arbëria insiste come territorio. C'è un territorio reale che è quel­lo dell'asse geografico che racchiude le comunità italo – albanesi ma c'è, altresì, un immaginario che spazia in un tempo che è quello di un popolo in fuga verso l'Occidente. Un popolo che ha vissuto la diaspora e continua a vivere (almeno fino a qualche anno fa era più accentuato) di fughe.

Questo popolo albanese, che è stato attraversato dai viaggi della dispera­zione in nome di una difesa di un Oriente che viveva la cristocentricità attra­verso un rito profondamente bizantino, ha trovato nel Regno di Napoli (in quello che è stato il Regno di Napoli) un modello di civiltà che ha saputo ben accettare e accogliere sia le istanze culturali che le emergenze storiche (tran­ne alcuni casi particolari che richiamano ad una intolleranza da parte del mondo ecclesiastico di allora).

La dimensione geografica dell'Arbëria, appunto, è dentro la storia di un Regno di Napoli sempre più proteso ad un incontro tra i Paesi dell'Occidente e quelli dell'Oriente, grazie ad una lettura articolata di un Mediterraneo che resta costantemente una cerniera tra le culture.

Su quattro elementi di base si rappresenta l'Arbëria e si consolida come fenomeno identitario: la lingua (che resta il dato centrale perché una comuni­tà che ha perso la sua koinè è soggetta ad una costante distrazione identitaria e non ha possibilità di tramandare quei segni e quei simboli che solo la parola può sottolineare e trasmettere), il rito (quindi la religiosità), la tradizione (i fenomeni legati ad elementi propriamente antropologici), l'arte e la letteratu­ra (che costituiscono un unico percorso: almeno dovremmo poterlo leggere come un percorso di integrazione tra l'immagine e l'oralità). Sono direttrici che troviamo nel viaggio che compie l'autrice di questo testo.

In fondo l' Arbëria è costituita dalle comunità che abitano proprio quel ter­ritorio che ha come riferimento una dichiarazione di civiltà. Mi riferisco alla costante grecità mai venuta meno in un collegamento tra il Regno di Napoli e i Paesi frontalieri nel versante Adriatico.

L'Albania è l'Adriatico che entra nel Mediterraneo. O meglio: è l'Oriente, con la sua storia musulmana, con la presenza islamica (che non vuol dire anti­cristianità) che penetra lo spirito occidentale e cristiano. L'Albania è real­mente il Paese delle contraddizioni. Ma non sempre le contraddizioni sono da ritenersi negative. Sono nella consapevolezza di una maturità in cui la cultu­ra si definisce come prioritario messaggio di un incontro.

L' Arbëria oggi si presenta con delle manifestazioni che non possono esse­re eluse da uno sguardo attento. Da una parte c'è la sicurezza di una integra­zione ben consolidata nei secoli (e fortemente voluta da Giorgio Castriota Scanderbeg, vissuto tra il 1405 e 1468) e dall'altra ci sono elementi di eredi­tà che possono essere considerati dei codici di una appartenenza che oggi si lascia leggere sotto un profilo che è soltanto antropologico.

Credo che l'effetto antropologico si dipana come valenza di una tutela di un patrimonio, ma è naturale che questo riferimento prettamente etnico (l'etnia è il portato della memoria di un popolo che resta tale solo se riesce a difendersi come civiltà e quindi come necessità di radici) non può reggersi senza il tra­sporto della lingua. Ma sono due capisaldi di una cultura che insiste in un voca­bolario in cui il sentimento dell'immateriale è fondamentale nonostante che l'effetto antropologico sia da rintracciarsi anche nelle forme dell'oggetto.

Come mantenere viva la testimonianza culturale del territorio che passa sotto il nome di Arbëria? I quattro punti evidenziati (la lingua, il rito, la tradizione, l'arte-letteratura) sono la prospettiva non solo di una appartenenza che resta den­tro l'eredità culturale di un territorio ma costituiscono un modello di tutela.

In virtù di ciò, l'Arbëria, tratteggiata dalla Celestino, è patrimonio non solo culturale ma è da considerarsi come patrimonio di una umanità soprat­tutto in un legame tra Oriente ed Occidente. Ciò premesso, va detto che l’Arbëria è dentro quel dialogo tra cultura latina e storia bizantina. Definendo questi presupposti non solo si tutela la storia ma si valorizza una eredità in quel Regno di Napoli che è, al di là delle metafore, sempre più Mediterraneo.

  inizio pagina 

pubblicato il 23 settembre 2009

L’archeologia e il legame con l’etno – antropologia

Un dibattito attuale nel concetto moderno di bene culturale

Nella logica istituzionale del MiBAC

 di Pierfranco Bruni*

Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali già da qualche anno ha aperto delle interessanti finestre sulla storia delle minoranze linguistiche storiche presenti in Italia. Un aspetto interessante che si articola ormai su tutti i campi della programmazione e delle attività dei Beni culturali.

Sulla linea delle nuove indicazioni che si è dato il ministero, nel campo della promozione, valorizzazione e fruizione, il rapporto tra archeologia, antropologia e problematiche culturali legati all’editoria, alla diffusione di modelli di ricerca e di proposte (dai Musei alle Biblioteche) sul territorio, mi sembra un dato fondante.

Il campo di azione dei beni culturali diventa sempre più articolato. Si opera ad intreccio tra i vari “saperi” che sono presenti nella geografia delle culture territoriali ma anche tra i “saperi” istituzionali. È su questi tasselli che lavoriamo nelle diverse commissioni in sede ministeriale. Gli input dati con il Codice dei beni culturali (sul quale ho lavorato pubblicando un recente libro) permettono, anche in fase organizzativa, una funzione moderna della cultura o delle culture o meglio delle strategia culturali del Ministero.

Ha  ragione  il Direttore Generale Mario Resca nel sostenere l’importanza del dato valorizzante che permette di entrare in un discorso di economia della cultura vera e propria (un discorso che riprenderemo in altra occasione) soprattutto quando si parla di sistemi mussali e di valorizzare le culture grazie alle innovazioni e alle strategie valorizzanti. 

Nell’ambito del rapporto archeologia – antropologia – etnologia conoscere e approfondire la storia delle presenze minoritarie può giocare un ruolo importante. I territori vivono la loro identità reinventandola, ovvero ricostruendola tassello per tassello grazie a dei processi di scavo proprio all’interno dei tessuti territoriali, che offrono sempre una chiave di lettura fondamentale per definire sia la realtà dei luoghi sia una geografia, che pongono in essere due elementi fondanti: l’etnologia e l’archeologia.

Entrambi sono modelli  che offrono chiavi di lettura sia sul piano scientifico (in termini di selezione e di riselezione del materiale) sia su quello culturalmente più articolato che tocca le sfere e gli elementi modulari di una antropologia del radicamento.

È chiaro che quando si parla di etno archeologia si va nel di dentro di quel senso storico, epidermico, che coinvolge le eredità di un popolo all’interno di una identità di civiltà.

Popolo e tradizione costituiscono un profilo singolare che si manifesta grazie ad una griglia simbolica che è data non dalla percezione soltanto ma dal contatto diretto con i materiali recuperati o con quelli con i quali si è costantemente a contatto.

Ormai il concetto di antropologia non si regge da solo perché, grazie alle varie sperimentazioni scientifiche sul campo, necessita di un confronto a tutto tondo con le altre scienze. Ecco perché il legame del concetto di ethnos si consolida con quello di storia di archeologia, di geografia. 

La vasta dimensione del dato geografico sul territorio incamera lo sviluppo di un pensare all’antropologia come profonda ramificazione all’interno dei sostrati culturali che vive o ha vissuto un intero complesso territoriale. I legami che l’antropologia sviluppa all’interno dei suoi processi si solidificano con un vivere la storia sia come cronaca di un evento accaduto sia come memoria sia come metodologia che è in grado di congiungere la modalità degli archetipi nell’insieme tra simboli e riti.

In questo contesto parlare di etnie, delle quali mi occupo da alcuni anni, significa anche scendere in quell’humus che tiene insieme il valore dell’etno - archeologia stessa con quella etno – storia su un versante in cui la conoscenza dei reperti ( o del reperto in se) depositati dai popoli che hanno abitato un determinato territorio risultano come l’esperienza contaminante  di una eredità che si trasporta nel tempo.

Sia l’etno – archeologia che l’etno – storia non possono fare i conti, appunto, con il tempo. Ma il tempo stesso è la misura del rapporto tra popoli e civiltà. L’antropologia deve fare costantemente i conti con ciò che l’antropologia offre ma è anche vero che l’archeologia, in pari misura, non può essere più letta soltanto definendo la circoscrizione del proprio campo ma ha bisogno di una pedagogia vera e propria che è data dalla lettura antropologica.

Ecco perché il territorio oggi viene ad essere studiato analiticamente ma anche percepito grazie a due finestre che sono rappresentate, appunto, dai simboli e dai riti. Indagare sugli insediamenti significa creare una rete di indagine tra l’archeologia e la storia attraverso quel fattore significativo che viene da una visione complessiva del paesaggio. Così studiare i popoli nomadi attraverso il materiale depositato sul territorio ci porta ad una osservazione chiaramente di natura geo – archeologica le cui strutture del pensare  partecipano  con le strutture materiali.

L’archeologia è sempre una eredità che affiora da quel territorio che è stato che è partecipazione frequente alla storia e le tracce diventano tracciati in un intrecciarsi di fenomeni puramente etno– grafici.

In virtù di ciò si ripropone l’importanza della validità delle etnie in uno studio in cui capire la presenza di una civiltà di un popolo su un determinato territori significa in modo prioritario non dover prescindere da  quella griglia mitico – archetipale che è la vera chiave di comprensione dell’intero contesto di cui ci si occupa.

Ma parlare di etnie vuol dire anche riconsiderare complessivamente sia l’archeologia in sé sia l’antropologia sia la storia e direi anche, perché non bisognerebbe escluderla, quella linguistica,  che è fatta da codici simbolici veri e propri, che manifestano una derivazione prioritaria che ci permette di catturare il senso e l’orizzonte dei popoli che hanno testimoniato una civiltà.

Le etnie in fondo sono l’espressione più vera di un mosaico di posizionamenti e di strutture mentali che sanciscono la liberazione di quel nodo di Gordio  insiste ancora nello scibile e che dovrebbe essere risolto in quei nuovi saperi che l’etno – archeologia deve porre come confutazione di un dato recepito sul territorio.  Sostanzialmente bisogna porre al centro, come in questo caso specifico, il valore intrinseco ed estrinseco, dei legami che la cultura delle etnie sottolinea nei rapporti con le altre componenti che permettono un vero e proprio rapporto. Un museo nazionale dedicato alla storia delle minoranze linguistiche, in virtù di questo mio dire e dell’incarico che svolgo all’interno del MiBAC, sarebbe una proposta da vagliare con molta attenzione.

Il dato essenziale, comunque, è che studiare le etnie  ci impone una riflessione in un passaggio emblematico che va dalla protostoria alla storia  e quindi scava nella coscienza dei tre riferimenti, spesso qui citati, che sono le eredità, i popoli , il territorio. Un parlarsi per definirsi e per definire le diverse identità espresse dalle culture etno - antropologiche. Un discorso che va sostenuto e ricontestualizzato nella logica di un bene culturale non solo da tutelare ma da valorizzare e far fruire. I territori vanno fruiti. La fruizione però è data chiaramente dalla conoscenza.

 * Responsabile Progetto Minoranze Linguistiche del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

 

  inizio pagina 

pubblicato il 20 settembre 2009

Kuscë nzuer silicheth

di Atanasio Pizzi*

Eminenti studiosi asseriscono che: la memoria dei luoghi è radicata nelle menti di chi per ovvi motivi li ha dovuti lasciare, mentre coloro che rimangono ne perdono i riferimenti vivendo le mutazioni inconsapevolmente con lo scorrere del tempo.

L’argomento su cui vorrei porre l’attenzione sono le nuove pavimentazioni, con cui sono stati ricoperti i più reconditi angoli dei centri Italo-Albanesi di Calabria citra, utilizzati in modo indiscriminato materiali alloctoni.

Va ricordato che i centri storici delle comunità Arbëreshe fanno comunque parte dell'edilizia storica che pur se influenzata dalle regole edilizie del sud Italia si distingue nel sistema aggregativo del modulo tipo il catoio; inconsapevolmente aggrediti nella morfologia e nel rapporto tra costruito ed

ambiente naturale, vanno sempre più abbandonando l’aspetto tipico che li caratterizzava.

Il risultato……. un freddo e asettico scenario ove non si colgono più gli aspetti che definivano gli spazi aggregativi che hanno fatto crescere e formare intere generazioni di arbëreshe.

Viaggiatori del secolo scorso descrivono i centri parzialmente lastricati: ricostruzioni grafiche, realizzate dallo scrivente, sono state utili a dedurre che in prevalenza venivano protette quelle strade o spazi ove la vorticosità delle acque meteoriche, erodeva le superfici se lasciate senza una adeguata protezione, inoltre, i selciati in pietra avevano la funzione di portare a valle nei periodi di pioggia, tutto quello che con metodo vi veniva depositato.

Lastricati in declivio associati a comode gradinate in pietre di cava o di fiume, venivano adagiate su cuscinetti di terreno vegetale misto a sabbia e ben livellate tra loro mediante la percussione di pesanti mazze, coprendo così le superfici esposte all’erosione.

L’avventurarsi nella riconfigurazione planimetrica, a mio avviso, senza un’adeguata analisi storica ha prodotto errate valutazioni nella compilazione progettuale architettonica.

Le piazzette, "sheshi", le strade "udeth", i vicoli "ruga", la ideale divisione dei paesi: la superiore "Drelarti", quella inferiore "Drehjimi", assieme alle regole dell’approvvigionamento idrico, legate da specifici significati economici, storici, sociali e religiosi, hanno da sempre avuto precisa collocazione nel vissuto quotidiano degli arbëreshe; ridurre tutto in un unicum di colori e di materiali significa appiattire le identità di quegli spazi conservati da generazioni.

L’espressione progettuale rappresentativa delle tradizioni arbereshe, potrà emergere solo da un’adeguata conoscenza storica delle genti e dei luoghi, cosi facendo, potranno essere distinti dal viaggiatore errante e riconosciuti da chi per ovvi motivi, ritornando nei luoghi di origine li riconosca.

L’auspicio è quello di sensibilizzare i vertici istituzionali locali, affinché appropriati interventi di recupero ridiano dignità a quegli spazi, per consegnarle alle nuove generazioni in modo che siano anche per loro il bagaglio storico-culturale che è giunto a noi sino a pochi decenni addietro.

 

* Architetto arbëresh

Foto: Archivio Pizzi 

  inizio pagina 

pubblicato il 16 giugno 2009

Eredità storiche delle comunità di minoranza linguistica

non contemplate dalla legge di tutela

Un dibattito da riconsiderare

 

di Micol Bruni*

 

Lo studio delle minoranze linguistiche passa inevitabilmente attraverso dei parametri che hanno come elemento di base la conoscenza storica  non solo delle lingue ma anche delle culture e delle civiltà identitarie. La loro presenza sul territorio nazionale comporta una analisi attenta di quei processi pedagogici che si vivono anche all’interno del mondo scolastico che possono essere definiti come modelli della “differenziazione”.

Tra lingua e modello etnico ci sono passaggi che possono essere maggiormente compresi se alla base c’è una volontà di metodologia pedagogico che viene ad essere supportata da precise realtà intersogettive tra la cultura italiana e le matrici ereditarie che si portano dietro i cosiddetti “popoli altri” presenti sul territorio nazionale. Proprio in virtù di ciò la scuola ha un ruolo predominante non solo in quei contesti dove il tessuto linguistico vive di contaminazioni articolate e le lingue assumono il contorno di un vero e proprio bilinguismo ma anche in quelle realtà comunitarie dove si assiste ad una presenza non storica ma contemporanea di presenze minoritarie.

Credo che qui la didattica della integrazione gioca un ruolo significativo.

È naturale che le comunità che si mostrano con una storia di bilinguismo rientrano in quei parametri sanciti dalla legge di tutela ora vigente ma è anche vero, comunque, che diventa necessario stabilire un dialogo tra territori perché, in molte occasioni, un Istituto superiore accoglie studenti che provengono da comunità in cui è forte l’insistenza (in positivo) del bilinguismo.

La Legge di tutela (ovvero la 482 del 99) non prende in considerazione questi casi perché si sofferma su un aspetto giuridico riguardante le comunità o le scuole ricadenti nelle comunità di minoranza linguistica ma sarebbe opportuno aprire un vero dibattito, a tutto tondo, su delle fattispecie che insistono in alcuni Istituti scolastici che non risiedono in dette comunità ma accolgono alunni provenienti da situazioni di bilinguismo storico.

Il dato relativo ad una metodologia didattica e quindi pedagogica mi sembra che debba essere presa in considerazione con molta delicatezza e attenzione. Come altre situazioni riguardanti comunità che hanno mantenuto intatti tradizioni e lingue sino a un determinato perizio e poi hanno perso il rito e la  lingua ma sono presenti e visibili i segni di una tangibilità  culturale con matrici provenienti da altre civiltà.

Infatti richiamandosi alla questione Arbereshe si riscontrano situazioni in cui molte comunità sono stati Arbereshe sino al 1700 e successivamente è andata perdendosi la lingua e prima della lingua il rito pur consapevoli che ci sono segni significativi di una identità storica albanese che è visibile nelle strutture, nei modelli architettonici, nei rimandi religiosi, nella tradizione di alcuni festeggiamenti.

Ebbene, questo fatto non può essere trascurato e nonostante non ci sia più la lingua Arbereshe c’è da sottolineare che i simboli comunitari della stessa comunità hanno dei richiami precisi senza i quali è impossibile leggere il suo territorio e la sua essenza vera dal punto di vista sia culturale che umano.

C’è da precisare che il concetto di tutela è molto ampio ma si tutela la storia e dentro la storia ed è per questo effetto, non solo giuridico, che il rapporto tra tutela – salvaguardia e valorizzazione – promozione deve poter avere una articolazione che consenta di approfondire, proprio nel campo della tutela delle minoranze linguistiche, elementi e modelli di importanza anche in quelle comunità che hanno perso la lingua (si potrebbe anche dire l’etnia) ma che sono stati e sono dentro una identità storica in cui il valore della diversità culturale ha lasciano segni ben individuabili.

Si tratta di un discorso che deve sottoporsi ad una valenza chiaramente culturale ma anche giuridica estendendo così il concetto e la visione di tutela.

È naturale che i riflettori devono restare puntati sulla contemporaneità delle presenze minoritarie ma non si possono trascurare testimonianze, che geograficamente a volte ruotano intorno ad uno stesso complesso territoriale, che si manifestano sia attraverso il patrimonio culturale (diciamo beni culturali) sia in una grigia più vasta che va dai rimandi linguistici alle forme di etno – antropologia. In questo senso la scuola può inserirsi in un dibattito che può risultare importante.

 

 *Micol Bruni

(Cultore di Storia del Diritto Italiano dell’Università degli Studi di Bari)

  inizio pagina 

pubblicato il 3 giugno 2009

Le minoranze linguistiche in Italia

Tra storia e ricontestalizzazione giuridica

I nuovi processi culturali

 di Micol Bruni*

 

La presenza di popoli stranieri sul territorio italiano creò sempre un processo non solo di natura storica ma anche giuridica. La storia delle minoranze etno-linguistiche è una storia che ha vissuto stagioni di grandi conflittualità sul piano storico ma anche di importanti fasi in cui il senso dell’identità viene ad essere assorbito come un “ereditarismo” di èlite nella consapevolezza anche di una nobiltà culturale. Le minoranze etno linguistiche sono piccole realtà che con dignità cercano di restituire un senso alle radici antiche della loro appartenenza.

      La presenza relativa alla tutela delle minoranze  linguistiche in Italia, oggi in vigore, nasce da un processo di dialettica istituzionale e culturale abbastanza variegato e articolato anche sul piano delle valenze giuridiche. Nella realtà attuale è ormai una certezza giuridica che le minoranze linguistiche sono dentro una dimensione istituzionale in cui tutela e valorizzazione rappresentano un punto di sicuro riferimento. Alla Legge che sancisce tale tutela, la Legge n. 482 del 15 dicembre 1999 si è giunti dopo un significativo raccordo parlamentare che ha innescato un confronto politico e istituzionale tra le varie scuole di pensiero.

      Il dibattito sulle minoranze etnico linguistiche viene affrontato già nella “Commissione per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato” nota nel linguaggio comune come Commissione Forti. E’, in particolare, nella seduta del 2 febbraio 1946 che tale Commissione affronta il problema presentato da Silvio Innocenti sulle minoranze. La Commissione arriva a una distinzione precisa : suddivide le norme generali che sono valide per tutti i cittadini perché si tratta dei diritti di eguaglianza e di libertà garantiti dalla Costituzione, e norme speciali volte alla tutela dei gruppi minoritari per salvaguardare la lingua in modo da mantenere un contatto con gli organi giudiziari con attenzione all’istruzione e allo sviluppo della cultura.

      Diventa quindi importante citare gli articoli 3 e 6 della Costituzione. A norma dell’articolo 3 si legge : “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. / E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Un articolo che creò non poco scompiglio facendo riferimento a quel concetto di razza presente nel primo comma. Ma sia Basso che Aldo Moro tentano di spiegare quanto l’articolo cerca di sancire. Basso faceva riferimento al fatto che una volta individuati i principi di libertà e di eguaglianza potevano nascere degli ostacoli di ordine economico e sociale e quindi tutta la legislazione italiana  doveva muoversi nel tentativo di eliminarli. Aldo Moro facendo riferimento “ad un uguale trattamento sociale” specifica che si tratta in realtà di un “carattere dinamico che deve avere lo Stato democratico”.

      Inoltre il dibattito sulle minoranze si è affrontato, in seno all’Assemblea Costituente, in una seduta del 27 giugno 1947 in cui, discutendo sull’articolo 108,  si prevedeva una autonomia  speciale alle Regioni in cui vi erano queste presenze definite minoranze di confine, e in un’altra seduta del 1 luglio 1947 discutendo sull’articolo 108 - bis destinato poi a diventare l’articolo 6 della nostra Costituzione.

      Nella storia della tutela delle minoranze etnico linguistiche è importante ricordare anche la cosiddetta proposta Codignola e l’emendamento Lussu. Il primo, in sostanza era contrario al sistema degli statuti speciali, un sistema che mirava a garantire solo alcune minoranze linguistiche.  Lussu invece cercò di riprendere in qualche modo la proposta di Codignola  e precisò il divieto per le  nascenti regioni di limitare lo sviluppo delle minoranze.

      Oggi, è proprio all’interno della nostra Costituzione, in virtù dei dibattiti affrontati nell’Assemblea Costituente, che ritroviamo il concetto e la tutela delle minoranze etnico linguistiche. In particolare l’articolo 6 recita : “  La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.  Scompare quindi il termine etniche proprio per far risaltare i contenuti culturali e non nazionali e,inoltre, tale  norma è una evidente applicazione dell’articolo 3, della Costituzione stessa, citato precedentemente, vietando,appunto, ogni forma di discriminazione  ma anche dell’articolo 2 ( “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. E richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”) poiché in attuazione dei principi di tolleranza e di pluralismo mette in atto una tutela positiva delle minoranze volta a salvaguardare la loro cultura e a consentire una partecipazione nella vita sociale del paese.

      Sono tutti questi dibattiti ed è la Costituzione ad aprire la strada ad una legge di tutela specifica per le minoranze linguistiche che si avrà solamente nel 1999. Un ruolo molto importante è stato giocato dalla figura dell’Onorevole Natino Aloi che nella seduta del 11 giugno 1998 nella Camera dei Deputati  proprio in un dibattito dedicato alla difesa  delle minoranze etnico linguistico  nel rispetto  dell’unità nazionale (parafrasando il titolo di un suo libro) e analizzando quello che diventerà l’articolo 1 della legge 482 afferma : “…ho presentato una serie di emendamenti  che si muovono in direzione della salvaguardia del valore centrale, essenziale della lingua italiana. Ma abbiamo presentato, oltre alla proposta di legge che risulta parte integrante del testo, anche una serie di emendamenti per salvaguardare il diritto di quelle che non definiscono minoranze, ma presenze etnico – linguistiche e quindi culturali. Infatti, la presenza di un gruppo etnico in una certa area può sembrare minoritaria, ma di fatto costituisce il momento culturale più importante della zona e quindi l’espressione di tradizioni, valori, tutta una serie di elementi che ci hanno posto in condizione di affermare che per noi si tratta di presenze etnico – linguistico – culturali”.

      In riferimento alla difesa della lingua italiana come difesa dell’unità nazionale l’Onorevole Aloi ancora precisa :“ A fronte di presenze etnico – linguistiche e culturali, che non inducuno alcuna preoccupazione in ordine a fenomeni centrifughi e scissionistici, è importantissimo salvaguardare la lingua italiana. È questo il motivo per cui abbiamo fortemente voluto l’articolo 1 : la nostra lingua va difesa anche in rapporto a tutta una serie di ‘barbarismi’ di ritorno. Ribadiamo questa posizione nel solco della nostra tradizione, che pone l’Italia al centro della nostra proposta politica, sociale, culturale e morale”.

      Difesa delle minoranze e tutela della cultura delle etnie. Si tratta  di una sottolineatura di sicuro spessore che chiama in causa un rapporto e su questa visione di idee che risulta fondamentale tra le presenza minoritaria in sé e la territorializzazione. Infatti la minoranza è dentro un territorio e il confronto è sempre un incontro tra la cultura di appartenenza e la cultura già esistente sul territorio. Ed  è su questo rapporto che nasce la Legge n. 482 del 15 dicembre 1999 che detta “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”.

      Il testo, costituito da  20 articolo con un articolo, il 18 – bis, introdotto dall’articolo 23 della legge 23 febbraio 2001 n. 38, è quello approvato in via definitiva dal Senato della Repubblica il 25 novembre 1999 e pubblicato sulla G.U. del 20 dicembre 1999. Per capire di quali minoranze si parla e quali minoranze vengono tutelate bisogna leggere l’articolo 2 : “ In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quella parlanti il francese, il franco – provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.

      Il dibattito sulla presenza minoritarie in Italia richiama certamente un percorso che ha delle valenze sia storiche che giuridiche. Oggi più che mai è da riconsiderare la normativa riferita alla tutela delle minoranze linguistiche in Italia. La legge deve avere un ruolo di proposta culturale e non soffermarsi soltanto su elementi riguardanti contributi finanziari  a Istituti e organismi vari. Bisognerebbe insistere sul valore culturale e quindi etno – antropologico con un sistema di misure che abbiano una valenza certamente normativa ma soprattutto progettuale. L’identità nazionale, comunque, resta fondamentale e il rischio che questa possa essere in un certo qual modo non messa in discussione ma non valorizzata a sufficienza esiste.

      Occorrerebbe riflettere su alcuni riferimenti di fondo. Primo elemento. È necessario parlare di “presenze” minoritarie e non di minoranze vere e proprie. Il discorso è sottile ma qualifica e diversifica la questione sia politica che giuridica e culturale. Secondo elemento non può interessare soltanto la lingua e le culture o la Pubblica Istruzione e quindi le scuole ma deve creare la possibilità di comparazioni altre e questo nonostante il successivo Regolamento non si evince con chiarezza. Terzo elemento: bisogna alleggerirla e aprirla ad un confronto con le identità nazionali. Non la si può circoscrivere ad una tutela e ad una promozione della tutela soltanto delle minoranze non tenendo conto che queste minoranze sono “presenze” nel contesto territoriale italiano, regionale e provinciale. Contesto che ha già un suo dialetto.

Quarto elemento: le 12 minoranze linguistiche di cui parla la normativa sono ampiamente superate anche se ci si riferisce ai livelli storici. Un solo esempio la presenza Armena che fine ha fatto? Oltre a quelle che vengono considerati non stanziali e anche qui la questione ora si pone. Quinto elemento: non può essere considerata come un serbatoio dove attingere economie per una tutela che, a volte, è abbastanza mediocre dal punto di vista della proposta culturale.  Le presenze minoritarie sono estese su tutto in territorio nazionale.

      La geografia del Sud mostra le sue forti eredità: dalla cultura grecanica a quella arbereshe, da quella occitana a quella franco provenzale, da quella catalana a quella  armena sino a quella rom.

      Quindi, la normativa, occorre rivederla nella sua struttura e nella sua complessità proprio per definirla nelle sue interazioni. Gli stessi Sportelli Linguistici, nei territori interessati, dovrebbero avere una funzione di forte incisività culturale e invece sono molto limitati. D’altronde il dibattito sulla modifica dell’Articolo 12 va a cambiare logicamente la Legge in questione e perciò occorre necessariamente ricontestualizzare la tutela delle minoranze storiche sulla base della difesa della lingua italiana e dell’identità italiana.

 

* Cultore di “Storia del Diritto Italiano”  – Università degli Studi di Bari

  inizio pagina 

pubblicato il 28 maggio 2009

Le minoranze etno-linguistiche storiche in Italia

Ripensare la legge di tutela

 

di Micol Bruni

  

Si apre una stagione di “ri-discussioni” sulla normativa riguardante la tutela delle minoranze linguistiche (ed “etniche”) storiche in Italia. Ed è anche giusto che sia così a dieci anni dalla emanazione. La legge deve avere un ruolo di proposta culturale e non soffermarsi soltanto su elementi riguardanti contributi finanziari  a Istituti e organismi vari. Occorre un progetto culturale forte con degli obiettivi precisi che devono riguardare tutti i campi della tutela sia in termini giuridici che prettamente culturali.  Bisognerebbe insistere sul valore culturale e quindi etno – antropologico con un sistema di misure che abbiano una valenza certamente normativa ma soprattutto progettuale. L’identità nazionale, comunque, resta fondamentale. La presenza delle minoranze etnico-linguistiche in Italia, riconosciute come tali, va considerata almeno  secondo tre aspetti che costituiscono la vera base di discussione:

 Il primo certamente storico in quanto occorre capire e analizzare il rapporto tra la loro provenienza e la contestualità territoriale nella quale le stesse minoranze si sono stanziate. In tale aspetto rientra certamente una meditazione e una valutazione delle influenze che si sono verificate nel momento in cui le minoranze si sono insediate all’interno dello stesso territorio italiano e all’interno di un particolare assetto geografico. Perché un loro insediamento ha contribuito a creare una rete estesa di legami e di rapporti con le popolazioni già esistenti sul territorio e nelle strette vicinanza e quindi essendo state popolazioni aggiuntive al territorio si è verificato un incontro tra storia, modelli di civiltà e tra assetti territoriali stessi. Proprio per questo è necessario approfondire quelle valenze storiche che nel corso dei secoli hanno portato alla luce modelli di identità.

 

2)      Il secondo aspetto è chiaramente quello che riguarda gli elementi giuridici. In realtà una minoranza linguistica per resistere su un determinato territorio o all’interno dell’intero Paese Italia ha necessità di essere tutelata grazie a precise normative che devono garantire la salvaguardia della loro presenza attraverso apposite leggi stabilite sia a livello nazionale sia a livello regionale ovvero locale.

Su questo tema si sono sviluppati diversi dibattiti ma resta fondamentale ciò che stabilisce la Costituzione della Repubblica Italiana. O meglio occorre far riferimento costantemente all’articolo 6 della Costituzione nel quale si sottolinea :“La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Eravamo nel 1948, da allora la discussione sia giuridica, istituzionale e parlamentare è stata abbastanza articolata e vasta. Proprio partendo dall’articolo 6 alcune regioni nelle quali ricadono le presenze minoritarie si sono sentite in dovere di proporre e attuare delle normative e delle leggi in grado di tutelare e promuovere le realtà etnico-linguistiche ricadenti ,certamente, nel territorio di competenza.

Sulla scorta di una discussione che è continuata per anni soltanto nel 1999 è stata promulgata una legge che sancisce “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”. La legge in questione è del 15 dicembre 1999 n.482 ed è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.297 del 20 dicembre 1999, il cui regolamento di attuazione è andato in vigore il 28 settembre 2001. In questa legge si sancisce come recita l’articolo 2 : “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche e slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.

La legge che è costituita da 20 articoli punta, certamente, a valorizzare il patrimonio linguistico e culturale ma anche sottolinea l’importanza della valorizzazione della lingua e delle culture. Quindi non solo tutela la lingua ma anche il  tessuto culturale di cui le minoranze sono portatrici. C’è da ribadire,comunque, un dato significativo sul quale la discussione è di estrema attualità : l’articolo 1 di questa legge ribadisce “La lingua ufficiale della repubblica è l’italiano”. In virtù di tali elementi si è aperta la discussione, di recente, proprio sull’articolo 12 della Costituzione in materia di riconoscimento dell’italiano quale lingua ufficiale della repubblica. È necessario ,chiaramente, approfondire i risultati che  hanno portato la legge n.482/ ’99 non solo dal punto di vista giuridico ma anche dal punto di vista storico e proporre che tipo di incidenza politico-culturale nel corso degli anni si è innescato anche alla luce della autonomia regionale.

 

3)      Il terzo aspetto è prettamente culturale e interessa in modo particolare la ricostruzione di queste presenze e della loro incidenza storico-sociale. Ciò ha portato ad una discussione sul concetto di etnia, ovvero della valenza storica dell’etnia in Italia a partire sia dall’Unità d’Italia e successivamente dal 1948 alla L.n.482/ ’99. La questione riguarda le presenze minoritarie storiche e si guarda con attenzione a quelle presenze definite stanziali e non migratorie. Un inciso che è prettamente culturale  in quanto si ribadisce  il fatto che si tratta di presenze minoritarie all’interno di culture nazionali e non tout court di minoranze linguistiche. Ogni realtà di presenza minoritaria ha vissuto un impatto particolare con il territorio sia in termini di incisività storica sia sul piano culturale attraverso usi, costumi, tradizioni ed elementi etno-antropologici e letterari che andrebbero analizzati sia sotto il profilo storico sia sulla base di moduli normativi sia  attraverso una residuale presenza linguistica e perciò culturale.

 

      In riferimento a ciò detto sarebbe necessario soffermarsi attraverso approfondimenti particolareggiati su: -Dibattito che ha portato alla L. n. 482/ ’99, analizzando alcuni passaggi discussi sia in sedi parlamentari sia in sedi regionali ricostruendo storicamente la visuale di tali elementi; -Importanza della L. n. 482/ ’99 e sui risultati e anche su alcuni vuoti  e lacune e incomprensioni che ha lasciato; -Attualità o inattualità della L. n. 482 in riferimento al dibattito inerente la modifica dell’articolo 12 della costituzione.  Dopo tale premessa sarebbe necessario approfondire quali sono le presenze minoritarie storiche all’interno della geografia delle regioni meridionali soffermandosi sulla presenze degli Italo-albanesi (arbereshe), dei Grecanici (nel Salento e nella provincia di Reggio Calabria), degli Occitani ( Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza).

      È necessario ribadire che si tratta di minoranze storiche. Proprio in virtù di ciò si sottolinea la necessità di riconsiderare la normativa sulla legge di tutela delle minoranze etnico linguistiche attraverso un’azione sia parlamentare che politica. La necessità di progetti articolati è un dato dal quale non si deve prescindere. Le minoranze linguistiche storiche restano un patrimonio ma i flussi economici per i progetti devono avere obiettivi scientifici e didattici con ricaduta non solo sul territorio circostante ma deve poter avere un respiro nazionale ed europeo. Attenzione a non cadere nei “provincialismi”.

  inizio pagina 

pubblicato il 28 maggio 2009

L’identità europea nella cultura del Medioevo, secondo Jacques Le Goff. Il dibattito si riaccende

di Micol bruni 

  

 Il dibattito su Europa e fasi storiche è completamente aperto. Se ne discute sia nelle “società” accademiche sia in un percorso di dialettica militante. Il punto di discussione, proprio in questi giorni, ruota intorno a Jacques Le Goff con Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea. Le Goff si pone (e ci pone)  alcuni interrogativi chi sono tuttora alle radici di un dibattito tra modernità e modernismo, tra tradizione e progresso, tra concetto di razza e concetto di nazione. Si parte dal Medioevo e si giunge sino ai nostri giorni. In un altro suo volumetto dal titolo: L’Europa medievale e il mondo moderno aveva scritto: “L’Europa ha un eredità ecologica. Anche qui, la modernità non è altro che accellerazione di una tradizione.”

      Il concetto di tradizione, dunque, è antico ed ha attraversato i secoli e le epoche. La tradizione è un eredità che vive quotidianamente nel tempo e si decodifica grazie ad una memoria che ci trasporta in una appartenenza. Nel Medioevo c’è una umanità colorata. Ci dice Le Goff. E aggiunge: “Prima di essere sommersi, nei tempi moderni, dal grigio, da un marrone e da un nero incolore, gli Europei crearono nel Medioevo un umanità colorata, che oggi rinasce”. Si attraversano tutti i secoli e il Medioevo è dentro la cultura dei secoli perché occupa spazi nella civiltà dell’uomo. In quella civiltà che ha formulato modelli e ha formato coscienze.

      Ogni epoca, indubbiamente, lascia la sua storia ma il Medioevo consegnato quelle eredità di cui ancora oggi si discute. Dopo le appartenenze e le eredità greche quelle medievali restano punti cercati. D’altronde lo stesso Le Goff riconosce alla civiltà greca quei valori fondamentali che hanno formato gli europei. Ma questo viaggio è una costante nella coscienza dei secoli. Il diciannovesimo secolo “è soprattutto il secolo dell’esplosione del nazionalismo”. Scrive Jaques Le Goff in L’Europa Medievale ed il mondo moderno.

      Questa esplosione diventa una sfida e Le Goff la fa risalire al Medioevo considerandola “la prima malattia dell’Europa moderna.” E lo scarta tra nazionalismo che viene ad essere considerato una malattia. E a questa si lega, secondo Le Goff,  “quella del risorgere del razzismo e delle esclusioni.” Un tema importante che pone in discussione l’eredità dell’Europa che passa attraverso l’idea portante della tradizione. Ma il diciannovesimo secolo si apre sul movimento che è culturale ma è anche politico: il romanticismo il quale disegna un percorso verso la maturità favorita dai nuovi assetti dati dalla rivoluzione industriale.

      Annota Le Goff: “Il mondo moderno è il mondo di oggi e di domani. E con questo che bisogna confrontare le strutture ,le tradizioni, la civiltà europea vecchia di almeno venticinque secoli”. La scelta, comunque, non si gioca per, L’Europa, sul banco di prova tra tradizione e modernità. Infatti una scelta per l’Europa “Consiste nel buon uso delle tradizioni, nel ritorno alle eredità come forza di ispirazione, come punto d’appoggio per mantenere e rinnovare un’altra tradizione europea, quella della creatività”.

      Una delle chiavi importanti per capire il ruolo della tradizione e il rapporto tra la tradizione e la modernità è indubbiamente una penetrazione storica, culturale, civile dentro la civiltà del mondo medioevale. Sempre Le Goff afferma: “Gli europei si abituarono ad essere eredi e scolari: ma appresero anche a distinguere consapevolmente (a partire perlomeno dal XII secolo) tra antichi e moderni. Il Medioevo non conobbe l’idea di progresso, ma si sforzò – nel campo delle pratiche così economiche come intellettuali, ma anche nella vita morale – di far meglio, mediante sia il miglioramento che la crescita. Cercò la via alla perfezione in un orientamento dal basso verso l’alto (il cristianesimo è una religione celeste ) ,e nell’allargamento dei suoi orizzonti terreni (conquista del suolo e padronanza del mare ) e in un’interiorizzazione via via più accentuata della vita personale e sociale, professionale e spirituale” (Il Medioevo alle origini dell’identità europea).

    Il Medioevo fu caratterizzato da due grandi poteri. La chiesa e l’impero. Questi due grandi poteri, questi poteri contraddistinsero non solo in termini reali un’epoca  (che segnò inevitabilmente le civiltà successive) ma anche in termini simboli. D’altronde c’è una fiorente letteratura che racconta epigoni e leggende dell’uomo medievale. La ragione e il sentimento ebbero una loro energica esplicazione.

      Ancora Le Goff che aggiunge: “nel secolo XII, il pensiero medievale aveva raggiunto un alto livello d’equilibrio tra la fede e la ragione; e fu appunto da quest’equilibrio che nacque in Europa la tradizione della ricerca di un armonia tra il cuore e la ragione”. Il Medioevo come epoca di transizione certamente tra modelli di cultura ma soprattutto un’epoca che ha permesso risvolti di grande ampiezza. In questi risvolti c’è l’equilibrio intellettuale. Ma il Medioevo resta un epoca di iniziazione.

      L’idea di nazionalità è un evento importante e significativo che apre prospettive notevoli. L’idea di nazionalità si lega alla nascita degli stati moderni. Attraverso questi due luoghi del pensare e del pensiero si è data vita a quella che Henr Hauser  ha chiamato “rivoluzione morale”. Ma è proprio il sentire della nazionalità e la formazione di una concezione moderna degli stati che aprono un dibattito sulla funzione che ancora oggi ha la tradizione.

      Il Medioevo non solo conserva una eredità ma trasforma questa eredità in tradizione e lo fa proprio nel momento in cui si parla di modernità e di progresso. L’eredità del Medioevo è l’Europa. Perché “L’Europa non è vecchia è antica? Il mondo non è moderno, è attuale. La tradizione, se ben utilizzata, è una risorsa” (Le Goff)

  inizio pagina 

pubblicato il 28 aprile 2009

Letteratura delle contaminazioni

Mediterraneo, Adriatico, letteratura, lingua ed etnie. L’importanza della realtà pugliese e meridionale. Dai grecanici ai rom e sinti.

 

Su queste problematiche si sono sviluppate  le relazioni e il seminario svolto a Termoli da Pierfranco Bruni per conto del MiBAC.

I popoli che vengono dal mare. Un tema affascinante tra etnie e letteratura. Un’analisi condotta da Pierfranco Bruni che ha sottolineato l’importanza degli scrittori e poeti del primo Novecento all’interno del contesto antropologico – letterario europeo. “Sulle rotte del Mediterraneo: i popoli che vengono dal mare”. Un percorso che è stato individuato e tracciato da Pierfranco Bruni, Coordinatore del MiBAC per le Minoranze linguistiche storiche in Italia, che ha dato delle precise indicazioni tra letteratura ed etnie.

 

Un legame significativo che ha segnato civiltà e Paesi. Gli incontri con Bruni si sono svolti alla Galleria Civica di Termoli.    

 Il rapporto tra minoranze linguistiche ed etnie costituisce una chiave di lettura fondamentale per confrontarsi con il territorio e soprattutto con le culture delle identità e delle diversità che si muovono all’interno del contesto italiano ed europeo.

Alla luce delle sue recenti pubblicazioni e gli studi decennali sul significato di presenze minoritarie in un raccordo tra lingua, letteratura ed etnia, Pierfranco Bruni sottolinea l’importanza e il ruolo della cultura dei popoli altri che vivono in Italia. Un segno di civiltà all’interno di un processo culturale, secondo Bruni, che resta fondamentale.

 

È proprio alla problematica del Mediterraneo e letteratura che Bruni ha dedicato numerosi suoi testi che sono stati tradotti in diverse lingue. Tra questi testi c’è anche l’Antologia, bilingue: italiano e albanese, dedicata ai poeti del Novecento che traccia un profilo tra la sponda Mediterranea e quella Adriatica dell’Europa.

Gli incontri con Pierfranco Bruni, uno dei massimi esperti di “Letteratura delle contaminazioni”, così è stato definito, hanno permesso di indagare tra la cultura italiana mediterranea a partire da Alvaro sino a toccare le sponde albanesi e tra gli autori citati è stato prese come modello la giovane scrittrice Ornava Vorpsi.

C’è da dire che Bruni ha inserito nel suo progetto anche le culture “zingare” e la cultura armena. Pertanto il quadro si è articolato con una visione ampia riguardante le presenze minoritarie in Italia.

 

Proprio sulla cultura rom e dei sinti Bruni si è a lungo soffermato sostenendo: “Gli zingari, un popolo che viene da lontano e che trasporta lungo i suoi viaggi modelli di identità e tradizioni. Nomadi, figli del vento, viandanti. Una cultura orale che è nel solco di una storia che è ricca di contaminazioni ma che è riuscita ad infiltrarsi nei segmenti di eredità e di realtà che si determinano la contestualizzazione dei territori. Sinti, Rom e Kalè. Gruppi che si mostrano con una loro fisionomia in quella dimensione dell’oralità che ha una specificità nell’essere viaggianti o nomadi, semi – viaggianti, stanziali. In Italia se ne contano circa 80.000 e sono, appunto, suddivisi in quella sopra detta specificità mentre in tutto il mondo sono circa quindici milioni. Hanno una loro cultura attraverso la quale trasmettono non solo codici esistenziali ma anche valori culturali”.

 

  “L’indifferenza nei confronti della diversità, dei popoli  - ha sempre sostenuto Bruni - è una sovrastruttura che non ci allontana dal problema reale perché in fondo è proprio da questa che il rapporto parola tradizione non assume uno spessore dissolvente ma ci mette a contatto non tanto o non solo con le eredità ma soprattutto con la nostalgia.

      “Il passaggio dalla indifferenza alla nostalgia non è soltanto un fenomeno culturale. È piuttosto un attraversamento non solo di valori ma di raggiungimento di quell’ordine sancito dai sentimenti che portano a capire  le matrici dell’appartenenza. E se si volesse ancora insistere su questo dato non si potrebbe che aggiungere che il passaggio dalla indifferenza alla nostalgia è sancito proprio da una metafora indissolubile che è quella del mito-simbolo”.

 

  inizio pagina 

pubblicato il 21 aprile 2009

Ankara e Istanbul

Un Oriente che è nel nostro destino - Tra i luoghi dei miei viaggi

 di Pierfranco Bruni

Ankara

Istambul

 

  Ataturk. Il cielo non ha stelle. Le nuvole sono nell’ottobre mite che annuncia l’inverno. Il sole ha raggi mediterranei. Il mausoleo di Ataturk racconta storie. Storie di frontiere e di bandiere. Il vento raccoglie parole e l’odore di echi d’Oriente si sente nei passi  dei viandanti che guardano senza abbandonarsi alle osservazioni. Sono in Turchia. Ad Ankara. L’intreccio degli sguardi si fa intenso.

 

L’immagine delle moschee si dilata e ci accompagna durante tutto il tragitto che dall’aeroporto ci conduce sino all’albergo. I minareti sembrano toccare le nuvole ed hanno colori chiaroazzurri. Si perdono nel fumo del vento. Il paesaggio ci recita subito la sua storia. Il mare è distante e le colline e la terra fanno da scenario. Gli occhi delle donne hanno arcobaleni. Sembrano assenti ma non si smarriscono. L’albergo è turco. Si nota a primo impatto.

 

Ho viaggiato lunghi viaggi ma ogni qual volta la Turchia mi chiama sento quell’odore e quei sapori di un Oriente che è dentro di me. L’antica Costantinopoli conosciuta tra le pagine di Edmondo D’Amicis e tra le parole incantate di Corrado Alvaro mi porta una luce che è fatta di ombre e di nuvole che ondeggiano tra i cieli del Mediterraneo. E penso al mio Mediterraneo. A quello che ho vissuto nel tempo della mia infanzia tra le scogliere di Sibari e i mari del Sud.

 

Costantinopoli resta un immaginario che rivivo nella Istanbul di un aeroporto che ha profumi di dolci con il miele. La mia Calabria ha molto della Turchia. Lo diceva bene Corrado Alvaro. Istanbul è un mercato nella fiera dei colori. È una fiera tra i silenzi notturni e la festa del giorno. Tutto mi riporta a un gioco che resta dentro di me interminabile. Un gioco di sguardi come le donne zingare che danzano con le movenze delle stelle in una notte di luna che spezza il mare dal deserto. Questi miei viaggi non sono più fatica. Forse abitudine.

 

I foulard di seta e le sciarpe ricamate mi coprono il capo. Sono il misterioso tra le parole che cuciono nel vento i segreti di una vita. L’aereo atterra con lentezza su Istanbul. Il porto è una marina. Osservo dal finestrino. La musica è sempre una dimensione che tocca le corde del cuore. Poi da Istanbul con i suoi minareti che sembrano toccare l’anima del vento giungo ad Ankara. Sembrano due città distanti nella storia e nel tempo ma sono soltanto ad un’ora di aereo. Ankara ha le colline e il montuoso della Turchia è segmentato.

 

I destini decifrano l’immaginario che ho lasciato nell’Occidente – Oriente di Istanbul. Il fascino dei colori anche qui ha un suo tocco di inimitabile  festa. La piazza è un grande mercato e lo sfolgorio delle pietre luccicanti abbaglia. Le gonne delle donne sono banderuole al vento. Gli occhi delle ragazze hanno uno splendore ospitale. Mi trovo ancora una volta qui. Anzi ci troviamo qui per discutere di letteratura italiana e dialogare con gli studenti universitari e docenti di una Italia che recita i suoi linguaggi, le sue eredità, le sue poesie.

 

Raccontiamo una storia di piazza  attraversando poeti e avventure nei personaggi che si incontrano tra le pagine e la vita. Tutto diventa decisamente ordinato nella logica del nostro parlare ma veniamo osservati, scrutati e ogni parola è presa con il bilancino. Chiedono. Domandano. Interrogano. La letteratura non è più storia. Ma si fa destino perché si misura con le cifre delle metafore. Tutto diventa una metafora che continua nei giorni che misurano il tempo con la clessidra della memoria.

 

C’è un narrato che si sgretola nel raccordare la realtà con la geografia che non conosce alcuna storia perché resta dentro ognuno di noi. Ankara non smette di tentare di raccordarsi con l’Occidente ma non rinuncia alla sua eredità e alle sue tradizioni. Non solo dal punto di vista religioso. Nella durezza dei volti c’è un sorriso nascosto. Bisogna sempre fare i conti con il passato, ma il passato si dimentica se il presente è camminamento nel quotidiano. Non solo per gli Stati ma anche per gli uomini.

 

Il passato della Turchia è nella memoria. La bandiera con la mezzaluna continua a restare nel presente ma tutto cambia anche se si vorrebbe restare legati ad una eredità. Non sempre è possibile. Ed è sempre necessario essere diversi nel tempo che  vive nella pietra angolare della nostra autentica biografia. Non siamo sempre gli stessi. La nostra mutevolezza è nel misterioso degli incontri.

 

La prima volta che giunsi in Turchia il timore era penetrante. Non conoscevo. Non avevo visto. Non avevo avvertito il fascino. Possiamo tutti essere mercanti di pietre preziose. Ma anche le pietre preziose hanno un loro diverso valore e poi bisogna capire il senso delle pietre. Parlare di letteratura italiana in Turchia non è la stessa cosa di come parlarne in Francia, in Germania, in Austria. Forse la Turchia ci appartiene di più. Siamo sempre un Mediterraneo che penetra l’Adriatico e un Adriatico che si cerca nel Mediterraneo.

 

Mi separo da Ankara con nostalgia. Il viaggio di ritorno è sempre una nuova partenza. Non è realmente un ritorno. È un nuovo viaggio che comincia. Lascio (lasciamo) la città nell’ora presta. Il chiarore si dipana tra le parole. Istanbul è sempre in festa. Ancora l’odore del miele e dello zucchero è tra le pieghe dell’aeroporto. Anche con la pioggia. Il vento è alle  spalle. Roma è sempre una attesa. Anche quando la notte occupa i quartieri. Ci accoglierà con le parole del sempre. Ma Ankara e Istanbul sono anche il nostro viaggio.

 

  inizio pagina 
pubblicato il 15 aprile 2009

Viaggiatori stranieri nelle comunità di minoranza linguistica

Tra i luoghi e le lingue

 di Pierfranco Bruni

 

       L’Italia è stata visitata da viaggiatori e scrittori che hanno dedicato pagine emblematiche al territorio e al paesaggio oltre a sviluppare ricerche sulla storia delle comunità italiane. Soprattutto quei viaggiatori che si sono soffermati sulle lingue minoritarie e sulle etnie hanno sottolineato alcuni particolari elementi che hanno una valenza sia letteraria che di ricerca e riflessione storica.

      I viaggiatori stranieri in Italia hanno lasciato una importante testimonianza attraverso pagine esemplari. In quella Italia delle culture sommerse e delle lingue “tagliate” i viaggiatori hanno inciso una particolarità di letture e interpretazioni.

      Il progetto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e da me coordinato e in fase di sviluppo, si propone di avviare un 'azione' in favore della conservazione e della conoscenza di  culture di tradizione millenaria nel nostro Paese, che traggono origine da un costante rapporto tra le popolazioni della costa orientale dell’Adriatico e le regioni del centro e sud Italia, tra quelle provenienti da tradizioni non italiane ben integrate nel contesto nazionale a quelle radicate nelle isole, tra quelle del nord a quelle prettamente di origini mediterranee.

      Il discorso, come si sta sviluppando, guarda con attenzione ai viaggiatori nelle realtà culturali con caratteristiche di cultura etno – linguistica. A partire dalle comunità Arbereshe il tracciato diventa un viaggio nel territorio che è tradizione, fotografia e lingua oltre ad essere letteratura, storia e antropologia. Il tema letterario legato all’immagine del paesaggio, nel progetto e nello studio già avviato, diventa fondante.

      La letteratura di viaggio è anche dettata dalla curiosità. Conoscere per soddisfare il bisogno di curiosità e non tanto di consapevolezza e non tanto di leggere modelli di identità che sono  già, in molti casi, parte integrante della storia stessa dello scrittore che viaggia.

      Invece la letteratura – viaggio (o meglio la letteratura e viaggio) non si mostra, appunto, con la meraviglia ma con uno stato di consapevolezza. Come in Raymund Netzhammer, un monaco benedettino che compie nel 1905 un suo viaggio nei paesi albanesi della Calabria e ne scrive delle pagine di una singolare importanza. I luoghi ci sono, le immagini anche, così le atmosfere ma in questa testimonianza emerge la consapevolezza di una identità che è appartenenza. Non c’è la curiosità tout court ma è presente l’interpretazione meditativa.

      Pur essendoci, comunque, un percorso fisico nei luoghi l’approccio è di altra natura. Si cercano questi luoghi per rafforzare dei codici di identità e non per alleggerire la curiosità stravagante dei viaggiatori anche se questi hanno dato un sicuro contributo alla conoscenza dei territori. Perché i loro scritti hanno permesso di sviluppare un immaginario dei luoghi e delle tradizioni.

Il viaggiatore ha con sé lo sguardo ma dentro di sé ha il tempo. La letteratura di viaggio non può fare a meno di prendere consapevolezza che le “rovine” esistono. Lo scrittore che viaggia raccoglie immagini che si trasformano in impressioni.

      Norman Douglas ci lascia oltre a delle pennellate descrittive questa cesellatura: “L’orgoglio di San Demetrio è il suo collegio (…)…La lingua è di tale difficoltà che dopo cinque giorni di residenza, io ancora mi ritrovo in impaccio…”.

      In un passo della lettera di Duret de Travel del 1820: “…Questi esuli hanno conservato la loro lingua, il libero esercizio della loro religione e i loro costumi, che sono molto ricchi ed eleganti, oltre che di un effetto singolarmente grazioso…”.

      Un frammento di viaggio di Jorgaqi, che mostra una sua interessante lettura. Si legge in Nasho Jorgaqi: “Andare tra gli Arbereshe e non passare per Napoli significa non conoscere pienamente il teatro della loro storia. Quasi tutte le loro peregrinazioni attraverso l’Italia passano per questa città. Più tardi Napoli, quale capitale dell’Italia Meridionale, entrò nella storia degli Arbereshe, come questi in qualche misura entrarono nella sua storia tempestosa”.

      La letteratura viaggio è un tracciato in cui i segni del tempo sono esistenza. Viaggi e viaggiatori tra i luoghi e le storie. Quei luoghi che restano sempre dimensioni reali ma anche dimensioni metaforiche in un tempo che si consuma dando spazio alla memoria. Viaggiatori e viandante.

      La letteratura dei viaggiatori arbereshe o albanesi in terra di Arberia ha i connotati ben marcati che sono immediatamente visibili e leggibili a primo acchito sia per conoscenza e vissuto sia per quel senso di radicamento che dà una caratura di una straordinaria sensibilità (non sempre in positivo) al rapporto stesso tra sentimento e viaggio. Ma in questo caso si avverte la passione, il voler autodefinirsi e viene meno il sottile spirito critico che non favorisce le descrizioni e il racconto.

 

      Tra viaggio nei luoghi e viaggio in una cultura che è espressione di processi non solo antropologici ma anche esistenziali dove non mancano elementi sociali. Perché in fondo il tutto si potrebbe tradurre come il viaggio vero in una cultura attraverso le tradizioni e l’arte. Il paesaggio, il luogo, lo sguardo costituiscono gli elementi della descrizione. Una descrizione che si confronta, comunque, con il tempo. Ma il tempo è fatto anche di rovine che si infiltrano nel nostro immaginario   

      La letteratura dei viaggiatori è letteratura geografia, è letteratura luogo, è letteratura contatto, la quale non si serve però della metafora ma della descrizione. Descrivono a volte con meraviglia e curiosità degli aspetti ma è una letteratura che non si confronta con il tempo.

 

  inizio pagina 

pubblicato il 19 marzo 2009

 

Minoranze linguistiche storiche tra eredità e contaminazioni

 

di Pierfranco Bruni*

 

       C’è un processo interessante che tocca due elementi significativi della cultura antropologica delle minoranze linguistiche storiche.

      1. La presenza nella contemporaneità attraverso il filtro delle tradizione.

      2. Le eredità che costituiscono un patrimonio sia immateriale sia di intreccia territoriali e geografici.

      Le minoranze linguistiche storiche oggi costituiscono un serbatoio necessario per leggere o rileggere la carta non solo linguistica di una Nazione, ma definiscono  i rapporti e i legami che una civiltà come quella italiana ha filtrato nel corso dei secoli. La lingua ha la sua radicale importanza ma ci sono elementi antropologici che si lasciano leggere come una vera e propria mappatura culturale e umana.

 

     Tre esempi. I popoli Germani hanno una loro storia antica che si è intrecciata tra modelli identitari e letteratura. Così quella Franco – provenzale o quella Francese. I territori rappresentano un dialogo che mai separa e sempre unisce grazie ad un patrimonio di culture sommerse che si definiscono proprio nella dimensione dei beni culturali. La lingua italiana trova la sua maggiore forza non solo in una dimensione dove l’identità diventa fondamentale ma anche nel saper convivere con le ormai “indispensabili” contaminazioni. La tutela della cultura italiana deve confrontarsi costantemente con i risvolti letterari e storici che provengono da altre lingue e culture.

 

      È un presupposto sul quale occorre riflettere non solo dal punto di vista strettamente linguistico ma anche antropologico. È un dato che risulta di estrema importanza soprattutto se si considera il fatto che la lingua è parte integrante di un modello di civiltà all’interno di processi anropologici. La storia d’Italia si è sempre espressa con le sue identità e la sua robusta appartenenza mai smettendo di compararsi con altre civiltà, con altre culture, con altre etnie. È naturale che la sua eredità va espressamente salvaguardata ma difenderla non significa non accettare o non “modulare” le contaminazioni che costituiscono una ricchezza nei valori prioritari di un confronto tra civiltà. Si tratta di uno dei punti focali di una discussione che frequentemente si avanza nella nostra contemporaneità.

 

      La lingua italiana, e la sua cultura, non è minata dalle contaminazioni all’interno del territorio italiano. Piuttosto deve essere garantita all’esterno del territorio nazionale. D’altronde anche gli stessi dialetti hanno come riferimento sempre un ceppo madre che è, appunto, l’italiano. Il raccordo tra l’italiano e i dialetti (mi riferisco chiaramente ai dialetti e non alle lingue altre pur presenti sul territorio italiano) ha delle chiavi di lettura che restano ben sottolineate nella storia di una Nazione. La letteratura italiana non dimentica di confrontarsi, in molte occasioni (e direi spesso se si considerano alcuni scrittori e poeti), con i dialetti che nascono all’interno delle varie comunità.

 

      Il dialetto, il più delle volte, è la rappresentatività di una comunità che diventa espressione di un vocabolario simbolico. Il caso di Pier Paolo Pasolini con il suo modello friulano è una testimonianza emblematica. Ma in questo caso si tratta di una vera e propria scelta tra l’italiano (lingua ufficiale) e il dialetto e non si avverte in Pisolini contaminazione alcuna. Anzi è il dialetto che prevale ma resta all’interno di un processo che pone all’attenzione quella cultura popolare che è una eredità di territorio, di geografia umana e di realtà storica.

 

      In altri scrittori, invece, si avvertono delle vere e proprie contaminazioni. Contaminazioni che hanno una loro impostazione espressiva ma anche dei moduli linguistici all’interno della lingua italiana stessa. Il caso di Stefano D’Arrigo o il caso di Cesare Pavese che modula un fraseggiare, una parlata, una sintassi all’interno di un incontro tra lingua e dialetto. Non siamo all’impatto sperimentale -  linguistico di Carlo Emilio Gadda, ma in Pavese si “consumano” quelle forme di una storicizzazione del dialetto all’interno dell’identità della lingua nazionale.

 

      Un lavoro di grande portata in una impostazione di recupero delle realtà dialettali in un contesto di identità dell’italiano. Mi pare che sia una cifra di straordinaria valenza perché non depaupera assolutamente la lingua nazionale bensì la arricchisce con una “fisiologia” linguistica ricavata da modelli identitari locali. È naturale che la lingua italiana si è aperta e si è sviluppata nel corso dei secoli.

      I popoli che hanno attraversato l’Italia hanno lasciato una loro eredità anche linguistica e sono stati depositari di culture. La nostra lingua si è sempre aperta ad una “civilizzazione” di comparazioni e di incastri espressivi.

 

      Da questo punto di vista c’è stata una vera e propria storicizzazione di elementi grazie proprio alla presenza di diversi popoli sul territorio italiano. Ancora oggi ci sono termini, vocaboli, modi dire che hanno chiari richiami storici ma, come già si accennava, la letteratura ha dato il suo notevole contributo. Voglio qui citare l’esperienza dell’antologia degli scrittori americani che ha visto protagonisti da una parte Elio Vittorini e dall’altra ancora Cesare Pavese. Quegli scrittori americani tradotti in italiano hanno contribuito ad immettere nella letteratura italiana e quindi nella lingua italiana codici linguistici che sono prettamente angloamericani.

      Credo che sia stato un riferimento da non trascurare l’impatto tra scrittori di lingua inglese e letteratura italiana. Ma siamo sempre dentro alla capacità di tenuta della lingua italiana la quale chiaramente va tutelata  e non sacrificata, almeno in Italia, a trasmissioni linguistiche altre.

 

      Ora si pone un’altra questione. In Italia insistono lingue e comunità provenienti da altri Paesi non solo europei. Nel confronto con altre identità e con lingue di altri Paesi l’italiano deve imporsi all’attenzione con la sua appartenenza. Un conto è realizzare un confronto con lingue di altri Stati un altro conto è permettere di a queste lingue altre di prendere il sopravvento sull’italiano in Italia. Attenzione. Si parla di vere e proprie lingue e non di dialetti derivanti da contesti italiani. È qui che la lingua italiana deve risultare garante di una civiltà e di una storia.

 

      L’italiano in Italia deve restare lingua madre, lingua prioritario. Ma credo che il problema non si dovrebbe neppure porre restando all’interno dell’Italia. È naturale che ci sono aspetti antropologici o etno-antropologici che sono la risultante di altre civiltà presenti in Italia. Ed è un dato incontrovertibile che questi aspetti devono godere di una tutela ma la lingua italiana non deve essere messa in condizione di subalternità. È necessario soprattutto nella attuale temperie riflettere sul ruolo delle contaminazioni linguistiche che sono riferimenti non trascurabile ma queste non possono sostituirsi con i condizionamenti linguistici.

 

      La lingua è l’espressione identitaria e in Italia non può che costituire la vera chiave di lettura di una civiltà sia attraverso modelli storici sia soprattutto attraverso una composizione di civiltà letteraria nella quale gli scrittori e i poeti risultano i veri protagonisti e i veri contaminatori. Tutte le testimonianze, tutti i reperti, tutte le presenze chiaramente materiali sono strumenti di verifica e di valutazione sul piano dell’indagine. Ciò si evidenzia man mano che la ricerca è andata avanti.

 

      Una testimonianza diventa non solo una rappresentazione del territorio ma sostanzialmente una espressività di codici e di elementi etno - antropologici. All’interno di una tale riflessione le relazioni tra aspetto fisico del territorio e quello più direttamente antropologico delle culture sommerse che vi hanno abitato costituiscono il vero dato di una comprensione di ciò che si è manifestato in un determinato luogo.

 

      Proprio per questo anche il riferimento archeologico e architettonico non vive di episodicità ma si caratterizza per la sua articolazione d’indagine e di continuità tra cultura di appartenenza, elementi ereditati, bagagli di contaminazione e ciò che è concretamente visibile. Non possono esserci via di mezzo almeno nella sostanza teorica. È, comunque, naturale che l’impatto che lo studioso vive è inizialmente pratico ma questa sua praticità è certamente dettata da basi teoriche in quanto la ricerca parte dalla conoscenza diretta di una questione  ma il “viaggio” sul territorio si stabilizza su presupposti di analisi sul terreno.

 

      Leggere il terreno - territorio significa non solo capirlo e conoscerlo dal punto di vista archeologico, storico e geografica ma significa altresì definirlo nella sua specificità culturale. Il luogo, dunque, è un territorio ben definito o meglio il territorio caratterizza un luogo. Ma sul luogo definito tale convivono fenomeni e fattori addirittura pre – archeologici o meglio tali fenomeni e tali fattori sono la risultante di una sistematica insistenza di civiltà e di insediamenti di popoli. I popoli insediati creano vita e la quotidianità porta a manifestazioni di relazioni concrete con il luogo.  

      I popoli che vivono si definiscono nei materiali che usano. I popoli che abbandonano un luogo o che scompaiano lasciano sempre tracce di materiali. Nel tempo delle contaminazioni i luoghi e i popoli sono sempre più espressione di civiltà. Una espressività che si sviluppa in un rapporto culturale ben definito che va nella direzione sottolineata. Il senso dell’etno - cultura trova proprio qui il suo punto di maggiore chiarificazione. Le minoranze linguistiche, in questo caso preciso, sono una interazione tra la storia e i modelli contemporanei. Soprattutto in un contesto in cui lingua e antropologia interagiscono e a loro volta si integrano.

 

*Coordinatore Minoranze Linguistiche del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

 

  inizio pagina 

pubblicato il 9 marzo 2009

Discutendo su Giovanni Laviola, oltre gli steccati dell’ideologismo dell’appartenenza. Non richiudiamolo nel provincialismo di una Arberia antistorica.

  di Micol Bruni

 

C’è un libro di Giovanni Laviola che costituisce un testamento umano e letterario di estrema importanza. Lo studioso, l’arbereshe, lo storico. Tre percorsi che in questo libro emergono. Va inserito in un contesto articolato e mai provincializzato. Il rischio che riguarda la figura e l’opera di Giovanni Laviola come di molti studiosi e personalità del mondo arbereshe è quello di rinchiudere il tutto in una visione della cultura territoriale.

Su Laviola si corre questo rischio. Ma apriamo una buona volta queste finestre e queste porte per parlare un linguaggio che possa toccare le voci e i destini che vanno oltre le cerchie murarie dell’arbereshità. Attenzione perché c’è in altro pericolo che è quello di relegare in una limitazione anche di pensiero e di pensare l’identità arbereshe (se tale si tratta).

 

Creare processi di confronto tra i non arbereshe significa affrontare la questione non solo con sicurezza ma anche intelligenza critica e con una vis polemica costruttiva. Ma qui sembra che tutto gira-che-ti-rigira per ritrovare i soliti argomenti e i soliti nomi che oltre il cerchio arbereshe non vanno.

La cultura arbereshe va oltre la stessa arberescità e oltre lo stesso territorio dell’Arberia. Ma dobbiamo ben capirci. Altrimenti ha un destino segnato.

Il caso Laviola è un esempio emblematico. Per questo voglio ricordarlo attraverso un romanzo (pagine che riportano ad una struttura logica narrante) che resta punto nevralgico oltre la stessa lingua. Gli ulivi di Marzucco. Sono racconti – ritratti.

 

Era nato a Spezzano Albanese nel 1915; morto a Trebisacce nel 2008. Attento studioso della cultura Italo – Albanese. Era stato preside e magnifico educatore. Certamente, un riferimento nella storia della cultura Arbereshe. L’uomo e lo studioso non si scontrano con il narratore ma occorre saper leggere le pieghe del suo raccontare.

L’ultimo suo testo, studio, al quale aveva lavorato per decenni, è una paziente ricostruzione bio-bibliografica della presenza Arbereshe attraverso testimoni e protagonisti. Un dizionario. Anzi un dizionario raccontato. Ma, come dicevo, non lo storico ma il narratore mi interessa particolarmente anche se resta un punto centrale negli studi sulla storia degli Arberesh.

 

Nei ritratti di Giovanni Laviola infatti  non vi è soltanto uno spaccato figurativo dove le immagini si incontrano e si popolano. Vi è soprattutto un tracciato dove la memoria si incontra con il tempo. un incontro esistenziale ma anche poetico. L'attualità de Gli ulivi di Marzucco è proprio in questo rapporto tutto giocato fra il senso della memoria e la poesia.

Da qui partono le traiettorie che si trasformano in segni. Segni del tempo. un tempo che non si dimentica. e il paese è un riferimento centrale. I personaggi che si muovono sulla pagina sono personaggi di paese che hanno capito il loro ruolo e vivono all'interno delle varie realtà. Realtà che non sfuggono al sentire poetico dello scrittore. Quadretti di vita nella storia di un paese. Quadretti di paese nel viaggio dei personaggi. E troviamo Maria Grazia, Zia Rachele, Paolo, Rosa, Luca, Pietro. E troviamo quelle splendide memoria in grido-verde. In queste memorie vi è una incisività nostalgica che tocca momenti elevati. Vi è tutto un mondo di ricordi, di ansie, di attese.

 

L'attesa diventa la grande attesa. La vita scorre lungo le ombre della grande attesa. Si attende il ritorno. Ci si attende senza null'altro chiedere. E si ascolta: "Forse, mi addormento. Mi sveglia un mandolino che un soldato di marina suona con una mano maestra e con sentimento. Cosa suona? Nel dormiveglia, riodo canzoni di un giorno lontano, canzoni legate ad un paese ad un angolo di strada, ad una donna bruna o bionda". L'attesa è nella nostalgia. Si compie all'interno stesso del processo nostalgico.

 

È nella nostalgia che l'anima dei personaggi trova una spiegazione più matura. Ci sono personaggi che restano fissi, immobili sulla pagina e immobili nel paese. Ci sono altri che partono. Ci sono altri ancora  che cercano il ritorno. Il tocco più vibrante, in questo senso, lo si legge nelle ultime parole: " A casa arriverò molto tardi, ma stanotte dormirò nel mio letto, quello che è soffice tanto e che mamma prepara tutti i giorni, perché ogni giorno ella spera debba essere quello del mio ritorno".

 

Una ripresa, dunque, sulla possibilità di catturare l'attesa che si trasforma in una meditazione sulla vita. Una meditazione che diventa contemplazione: " Che buffa la vita! Incontrarsi e dirsi addio. Scomparire l'uno dalla scena dell'altra. E anche il ricordo svanisce con il tempo. il ricordo di poche ore belle che hanno riempito di luce questa scorribanda mia attraverso l'Italia".

 

Svanisce il ricordo ma resta la memoria. la presenza di questa memoria è nella grande attesa. Il gioco si completa attraverso la proiezione delle immagini le quali hanno voce, hanno suoni, hanno colori e gesti. Il gioco diviene possibilità di catturare il tempo. E il tempo si cattura per quel solo istante nel quale si riesce a fissare il viaggio della memoria.

 

Si diceva che i ricordi svaniscono. Certo i loro frammenti sono nel tempo. e il tempo ricuce le ferite. Anche le memorie ed i pensieri. Gli ulivi di Marzucco hanno una condensazione lirica profonda. Vi si effettua uno scavo che penetra sia i contenuti che la poetica. È certamente una raccolta di novelle dove la poetica trova precisi nuclei tematici che sono anche nuclei mitici. Soprattutto nelle pagine dove i personaggi arricchiscono il quadro, il disegno mitico ha un respiro maggiore.

 

 Ci sono punti di riferimento quali il paese, la terra, gli ulivi stessi o i personaggi che sono i portatori di quella condensazione lirica nella quale convivono i giorni del tempo attraverso un ciclo di caratterizzazioni esistenziali. Tutto questo si sviluppa grazie ad una narrazione densa di significati. Il linguaggio si snocciola con molta chiarezza. Una chiarezza tipica nel mondo letterario e culturale di Giovanni Laviola, il quale è soprattutto uno storico. Ma fa storia attraverso il racconto.

E il racconto diventa vivo. Ne Gli ulivi di Marzucco c'è tanta poesia. Una poesia che non disdegna il racconto. Le immagini servono proprio a questo. Ecco come il rapporto immagine - poesia è vivi: "Torno a Roma a mezzanotte. Esco dalla stazione e aspetto l'alba camminando per la città con un collega che incontro per caso, per la strada. Andiamo a zonzo. C'è, in alto, la luna./ E' questo il mio primo incontro con la città eterna. Resto meravigliato solo davanti ai ruderi del passato. Il Colosseo suscita in me quella meraviglia che nessun'altra opera costruita dall'uomo ha suscitato". 

     

Immagine e poesia. Ma anche racconto. Vitalità in una pagina che non perde la sua identità. Perché è una pagina scritta con il cuore. Una testimonianza che non si dimentica perché non dimentica la vita. E' ciò che troviamo in Laviola. Non solo in questo Laviola narratore, ma anche quello storico, nello studioso di tradizioni albanesi e soprattutto nell'uomo. Ma alla fine il processo culturale compiuto da Laviola attraversa sia la storia che la letteratura. 

     

Interessante  il suo Società, comitati e congressi italo - albanesi dal 1895 al 1904 tanto che ha segnato un percorso nella ricostruzione storica della geografia degli Arberesh. Così come la sua ultima ricerca che lo ha impegnato per lunghi anni passando in rassegna personaggi, libri, problemi, radicamenti culturali, visioni scientifiche. Un lavoro che resta e che diventa indispensabile. Ma siamo allo storico.

     

Oltre lo storico resta, comunque, l’anima del narratore. Elegante, sobrio, ritrattista di condizioni esistenziali. Ed è questo che aggiunge un capitolo nuovo alla letteratura Italo – albanese. Credo che Giovanni Laviola vada riscoperto proprio sotto il profilo letterario oltre lo storico e l’educatore o il “professionista” di problematiche Arberesh.

     

Sarebbe opportuno rileggerlo proprio sotto il profilo letterario. Perché è sotto questa visione che si universalizza lo scrittore e il ricercatore portandolo in quel contesto che crea raccordi tra la letteratura dell’identità e della tradizione con la letteratura dell’appartenenza. Codici umani e non solo linguistici. Certo, lo studioso non può essere dimenticato o messo in discussione ma è lo scrittore che parla la lingua del narratore che sottolinea emozioni, sensazioni, umanità.

     

Uno scrittore dunque che non parte dalla storia ma da una esperienza – identità che è appunto quella della eredità Italo – albanese. Ma Laviola sapeva inserirsi nel dibattito della cultura italiana con grando contributi di idee oltre la provincia oltre il territorio stesso. Il suo ultimo lavoro non è un Dizionario soltanto. Ma guai se lo si lascia soltanto nel contesto degli arbereshe. Attenzione perché è su questa strada che si va avanti.

     

Le celebrazioni hanno un senso se si storicizza il personaggio con un confronto a tutto tondo sia in termini culturali che politici. Uso a proposito il termine politico perché la cultura arbereshe non è assolutamente appannaggio di una cultura egemone. Lo stesso Laviola lo sapeva bene e lo aveva intuito. Nella storia degli arbereshe, per capirla fino in fondo, bisogna non egemonizzare gli “ismi”, ovvero quella componente tardo illuminista che non ha nulla a che fare con la storia arbereshe. Anzi tutto il contrario. L’Illuminismo portato al razionalismo non è parte integrante della consapevolezza identitaria della cultura arbereshe. Laviola lo ha ben dimostrato.

 

Nella foto: la Dott.ssa Micol Bruni

Presidente IRAL (Istituto Ricerca Arte e Letteratura)

 

  inizio pagina 

pubblicato il 3 marzo 2009

 

INTERVISTA A BRUNI SUL RUOLO DELLE MINORANZE

 

di Michele Lenti

 

Vede la luce un progetto del Ministero per i Beni e le Attività culturali, riguardante la riscoperta delle culture etnolinguistiche regionali. Infatti, nella prestigiosa cornice di palazzo Ducale, a Martina Franca, si è tenuto un convegno, al quale hanno partecipato docenti universitari, rappresentanti di istituzioni provenienti dalle aree linguistiche regionali, e una piccola delegazione armena. 

È stata anche l’occasione per presentare il volume, che raccoglie saggi di Pierfranco e Micol Bruni, Agostino Giordano e Antonio Basile, intitolato “La Puglia Arbëreshe, Grecanica, Franco-provenzale. Beni culturali tra minoranze linguistiche ed eredità etniche”.
Dallo studio, condotto in questi anni, è emerso che la presenza di suddette comunità linguistiche non deve essere vista in termini minoritari, grazie all’apporto socio-culturale dato, nei secoli, da queste realtà a una terra da sempre crocevia di popoli  e culture.

Tre le etnie presenti in Puglia: gli Arbëreshe, giunti in Italia a seguito della lotta che gli albanesi, guidati dal principe Skanderbeg, portarono contro i turchi ottomani, i grecanici, discendenti dai greco-bizantini, la cui dominazione, in particolar modo nel meridione, perdurò fino all’XI secolo, e i franco-provenzali, che cominciarono a popolare la penisola a partire dal 1300.
Abbiamo intervistato per voi Pierfranco Bruni Coordinatore del Progetto Minoranze Linguistiche del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.


In che modo le minoranze etnico-linguistiche hanno inciso nel tessuto storico, sociale e culturale pugliese, in un contesto, quale quello della nostra Regione che, nel corso dei secoli, ha visto l’incontro e lo scontro di varie civiltà, da quella japigia a quella magnogreca fino alla dominazione romana, da quella bizantina a quella araba, fino all’epoca normanno-sveva, passando per l’influenza ebraica?

“La storia d’Italia è stata sempre frazionata da una diversità di culture, che provengono da altri contesti geografici, per cui si è sempre posta una questione di rapporti, legami e integrazioni. Il risultato è stato, quasi sempre, quello dell’interazione tra le varie civiltà, a partire dalla Magna Grecia, che costituisce il primo nucleo fondante omogeneo delle cosiddette culture “altre”. Le influenze che ha subito la Magna Grecia, infatti, non sono quelle soltanto provenienti dalla Grecia, ma anche da altre realtà più adriatiche.
Pertanto l’Italia ha saputo sempre raccogliere/accogliere le presenze sia linguistiche che culturali, tanto che si è creato il cosiddetto concetto delle contaminazioni, che oggi definiamo come rapporto tra culture meticciate. Per questo, se l’Italia non fosse stato un Paese dell’accoglienza, avremmo avuto difficoltà anche nel momento in cui è stata sancita l’Unità d’Italia, la quale non rappresenta soltanto l’unione, da un punto di vista geografico, di varie realtà, ma anche la definizione di un processo linguistico, antropologico e di tradizioni sulla base, anche, di un percorso economico. Oggi la Puglia è caratterizzata non soltanto da minoranze linguistiche, di cui noi oggi parliamo, ma anche da innesti che interessano tutto il Mediterraneo. È necessario, pertanto, dare un risvolto storico per cercare di capire il fenomeno delle emigrazioni e immigrazioni contemporanee, in virtù della capacità di integrazione nel nostro territorio”.

Possediamo testimonianze letterarie prodotte, nel corso dei secoli, dalle comunità etnico-linguistiche presenti in Puglia?


“C’è da precisare un fatto, vale a dire che la maggior parte delle presenze minoritarie in Puglia hanno, quasi sempre, proposto una cultura orale. Il caso degli italo-albanesi è emblematico in quanto, fino a qualche secolo fa, la loro precisa identità culturale si basava sul valore della tradizione che significa anche, in questo caso, tramandare, ovvero trasmettere una cultura popolare. La quale corrisponde alla cultura orale, e questo registro si è rivelato tale anche in quello franco-provenzale, oltre che in quello grecanico. Solo di recente abbiamo una bibliografia considerevole, ma è una questione che riguarda la realtà contemporanea”.

Quanto è importante conoscere la musica e la danza di queste etnie per capire la loro identità storica e culturale?


“Essendo la cultura di queste minoranze linguistiche basata sulla tradizione orale e, quindi, sul passaggio, di ricordi e memorie da una generazione all’altra, la musica è una di quelle forme culturali abbondantemente tramandate dai nonni ai nipoti, tanto che, anche la canzone popolare che si lega alla danza, ha una trasmissione che ci porta a modelli mitici. Infatti il mito è il racconto che si tramanda come una favola, grazie al “c’era una volta”. È importantissimo questo fatto, perché se ancora oggi sussistono queste realtà minoritarie, lo si deve al processo di ricordi e di memorie, facenti parte della spiritualità di un popolo, e che, come testimonianze, vengono sublimate nella musica e nella danza. In tal senso esse diventano parte integrante della conoscenza di un’eredità che oggi definiamo come antropologia di un popolo”.

La Puglia, per la sua posizione, ha rappresentato il punto d’incontro, per quello che riguarda le minoranze etniche, di due modelli di civiltà: quello adriatico greco e illirico, e quello mediterraneo occidentale, rappresentato dalla cultura franco-provenzale. Possono, queste comunità, sulla base di un vissuto storico-sociale, costituire un esempio di pacifica convivenza, alla luce dei cambiamenti che stanno avvenendo oggi nella nostra società, sempre più multietnica?

“Certamente sì, perché non esistono minoranze linguistiche isolate: infatti io non credo alle minoranze come isole o arcipelaghi, dal momento che esiste, sempre più, il valore della “contaminazione”, che significa incontro di culture e di storie  che hanno origini diverse. Giudico positivo il raccordo tra popoli ed etnie che provengono sia dall’Oriente estremo che dall’Occidente più vicino a noi. Dobbiamo cominciare a riflettere, però, anche sulle “contaminazioni” etniche che provengono da Paesi oltre Oceano. Ciò vuol dire che il Mediterraneo, con la realtà più vicina a noi rappresentata dall’Adriatico, si confronterà con culture e tradizioni distanti, geograficamente, migliaia di chilometri”.

 

  inizio pagina 

pubblicato il 1° marzo 2009

Gennaro Cassiani

Uno statista nella difesa della storia Arbereshe

Gli Italo – Albanesi come realtà nel Regno di Napoli

 

 di Micol Bruni

 

 Un costituzionalista che ha segnato un percorso importante nella storia della tutela degli Italo – albanesi è stato certamente Gennaro Cassiani. Una figura di primo piano nella rilettura storica e politica di quel Regno di Napoli che ha rappresentato non solo un modello di civiltà ma soprattutto un riferimento per quei legami tra il Mediterraneo e l’Adriatico. E questi riferimenti si sono trasformati in atti istituzionali. Arbereshe, Cassiani è riuscito a portare nella questione nazionale (e non solo in quella meridionale) una chiave di lettura che ha interessato tutta la storia e l’identità Italo – albanese guardando con molta attenzione al rapporto tra Occidente ed Oriente. Ci sono passaggi che restano indelebili.

      Come questo: "Nel caso del Mezzogiorno, la storia regionale ha un suo valore inconfondibile. Non solo e non tanto per la divisione che caratterizza l'Italia, ma anche per la tradizione delle regioni meridionali di fronte a quelle del nord". Una prima cesellatura che pone all'attenzione un rapporto improntato tra rilettura politica della questione meridionale, identità storica e modelli innovativi. Gennaro Cassiani, in fondo, un arbereshe nella storia della democrazia e della politica contemporanea.

      Gennaro Cassiani, politico, penalista, statista, scrittore, meridionalista, uomo di pensiero. Una personalità che va ricontestualizzata in un processo di reinterpretazione della storia d'Italia e soprattutto di quella storia meridionale che è contrassegnata da luci e ombre. Una storia che vive all’interno delle sfaccettature politici e costituzionali del Regno di Napoli.

      Ricostruzione e rilettura. Soprattutto in una temperie come quella che stiamo vivendo oggi. Nella cultura sociale - cristiana, grazie ad una lettura politica degli avvenimenti e ad una interpretazione storica dei fenomeni, la figura di Gennaro Cassiani (Spezzano Albanese, 1903 - Roma, 1978), in un contesto tra gli anni Trenta e Sessanta, riveste una particola importanza sia per gli incarichi che ha rivestito sia per la stimolazione dialettica che è stato capace di innescare. Attraverso un confronto serrato tra istanze politiche e percorsi culturali la sua presenza ha lasciato dei segni tangibili proprio in un legame tra culture Adriatiche e Regno di Napoli.

      Un modo di pensare la politica al di là degli schematisni che un partito può imprimere, nonostante fosse uomo di partito. Dalla cultura alla politica. Il sentimento dell'appartenenza (appartenere è creare  modelli di identità) trova in Cassiani dei riferimenti storici ed umani significativi. Il suo essere Arbereshe è una componente che arricchisce, che motiva confronti, che stimoli raccordi tra il presente e la tradizione. I suoi scritti su Scanderbeg (le sue commemorazioni, in particolare), i suoi scritti in omaggio ad un maestro della letteratura albanese come Ernesto Koliqi rappresentano tappe fondamentali in quel costante confrontarsi con la memoria delle radici, ovvero con il tempo della storia e della tradizione di un popolo al quale si è sempre riferito.

      Riferendosi proprio a Koliqi, in un articolo dal titolo: "Ritratto del più grande scrittore cattolico dell'oriente", apparso sul numero speciale di giugno della rivista "Shejzat" ("Le Pleiadi") dedicato alla scomparsa di Koliqi, nel 1975, Cassiani affermava: "Egli mi svelava i misteri fascinosi del mondo orientale, mi accompagnava per mano lungo l'erta della montagna albanese e mi diceva delle leggi raccolte dal Codice della Montagna, particolare e misterioso, facendomi penetrare così in un mondo che per me aveva del fiabesco. E per intanto egli mi metteva a nudo l'anima sua, che non consentiva ripieghi subdoli o viltà nascoste. Così forse si può comprendere come particella del mio spirito sia finita con lui".

      Una testimonianza che si porta dentro un vissuto e una indelebile matrice non solo culturale ma chiaramente umana il cui senso è rappresentato dal sentimento dell'appartenere, dal sentimento delle origini. Un aspetto non trascurabile che è parte integrante della sua formazione. Cassiani parte da una visione culturale e umana della politica. Ovvero la politica è all'interno della cultura attraverso esempi e partecipazione.

      Ci sono aspetti significativi nell'impegno di Gennaro Cassiani. Aspetti che si sono esplicati non solo su un piano istituzionale ma anche (e nella prima fase soprattutto) su quello di una cultura militante. La sua è una formazione militante che si sviluppa, sin dalle prime esperienze, attraverso un costante rapporto con la realtà territoriale, con le realtà territoriali. E queste realtà si trovano sempre in quel  suo rapportarsi con le Istituzioni, con la politica alta, con le sue metodologie espressive in quelle  sue esperienze nei vari settori nei quali si è trovato ad operare e nei vari problemi con i quali si è quotidianamente confrontato.

      La politica come modello di comunicazione alla cui base doveva esserci, comunque, un sistema di valori che avevano come riferimento l'uomo. Una matrice profondamente cristiana che è maturata negli anni la cui centralità è stata sempre rappresentata dagli ideali della politica. Una politica come servizio per l'uomo, per la crescita dei territori, per lo sviluppo delle comunità all'insegna di una dignità e di una profonda consapevolezza nei confronti di quel tempo nuovo che si affacciava all'orizzonte. La questione arbereshe era un orizzonte nel suo essere e manifestarsi uomo delle istituzioni.

      Capire i tempi nuovi e la storia che avevamo davanti già a partire dagli anni turbolenti della primo periodo nel quale si preparava la stagione post - fascista. Ebbene, Cassiani nel concetto di ribellione (termine e definizione ben studiata nella sua tesi di laurea del 1925) manifestava non soltanto una sottolineatura giuridica ma un essere dell'esistenza che congiungeva il pensiero morale con l'atto politico. Un rapporto che è stato un tassello necessario per comprendere la società dagli anni Cinquanta in poi. Un rapporto che trovava la sua dimensione comportamentale nell'idea etica.

      L'etica della politica nella visione morale dei problemi che andavano affrontati e risolti. Ma non oltre la politica. Sempre all'interno della politica perché la politica, per Cassiani, partiva da una testimonianza spirituale, da un sentimento che focalizzava le questioni vere, le radici problematiche dell'essere uomo in una comunità di uomini. Forse anche in questo stava il suo raccordo con la cristianità della cultura di un popolo.

      Nei suoi saggi, nelle sue conferenze, nei suoi discorsi non viene mai meno la funzione di un dialogo tra la politica come testimonianza costante e l'uomo come portatore dei principi fondamentali di solidarietà e di comunanza. Una politica come umanesimo dell'uomo. Nella Presentazione al suo saggio Le pietre (Studi Meridionali, 1977) si legge: "I giovani mi insegnano con i fatti che la vita non è materia, ma spirito, non è egoismo, ma slancio verso i nostri simili". Comunanza spirituale e testimonianza. La lezione crociana da una parte e il popularismo sturziano dall'altro, mutuati in una meditazione che trova in  Jacques Maritain (1882 - 1973) quel pensiero pensante che ha offerto un contributo notevole al cattolicesimo politico moderno, costituiscono un tracciato storico e filosofico che ha caratterizzato, in fondo, l'operare di Cassiani.

      L'approccio ai problemi non aveva quasi mai un immediato sostegno pragmatico. Partiva da una elaborazione che costituiva un vero esercizio metodologico. Quando si trovò ad affrontare la questione meridionale sul piano istituzionale (ovvero da incarichi ministeriali) diede un esempio di sicura lungimiranza nel sostenere la valorizzazione dei territori affidando alle risorse vocazionali un ruolo prioritario. Riferendosi alla Calabria in un suo discorso cesellava: "In Calabria si potrebbero suscitare tutte le industrie naturali derivanti dall'agricoltura. Chi parla di altre industrie non conosce la Calabria, non ne ha un'idea nemmeno approssimativa…".

      La Calabria come tutto il Mezzogiorno. Una tesi ancora attuale e che è costantemente motivo di discussione. Ma ciò non può che avere una sua logica disquisizione in una antica questione affrontata, anche in termini storici, più volte da Cassiani e che sancisce in molte pagine del saggio Le pietre (già citato) i capisaldi per una ricontestualizzazione storica ed ideologica del fenomeno riferito al capitolo inerente la politica sul Mezzogiorno.

      Tema sempre caro a Cassiani sin dai suoi primi scritti e sin dai suoi primi impegni politici e parlamentari. Ma le sue tesi sembravano esprimere una visione problematica del fenomeno ma in realtà avevano una chiarezza proprio per la conoscenza degli aspetti ben vissuti direttamente da Cassiani e definiti in un prospetto che non esulava la consapevolezza storica e la natura del territorio.

      La sua impostazione della politica, pur non concedendo nessun improvvisato subdolo impatto con il dato pragmatico, si affidava sempre alla conoscenza e il rapporto con la realtà attraverso fattori di concretezza. Si pensi al  dibattito sul ruolo dei cattolici in politica, si pensi ai suoi interventi giuridici anche negli anni difficile del fascismo, si pensi alla funzione svolta nel periodo che resse il dicastero della Marina Mercantile, si pensi ai suoi tanti contatti con i paesi esteri, si pensi al suo amore per la cultura delle minoranze.

      Proprio in riferimento alla questione delle minoranze, Cassiani, Arbereshe di Spezzano Albanese, ha portato avanti una politica in difesa della lingua e della tradizione italo - albanese. Non solo scrivendo su questioni riferite al mondo e ai personaggi Arbereshe (come si è già detto) ma anche attraverso la focalizzazione di normative precise. La norma era un punto di riferimentop. Bisognava stabilire delle regole attraverso una legge. Questo era il punto centrali sul quale si dibatteva Cassiani. Uomo politico e uomo giuridico.

      Nel testo di Gabriella Fanello Marcucci (Gabriella Fanello Marcucci, in Gennaro Cassiani 1903 - 1978, penalista, umanista e politico della Calabria, edito da Rubbettino) si legge: "La sua attenzione verso le comunità albanesi divenne adesione attiva quando nel 1969 fu costituita l'Unione delle Comunità Italo - Albanesi, con sede nel Collegio S. Adriano in San Demetrio Corone, l'istituto nel quale Cassiani aveva conseguito la maturità classica". E poi più avanti: "Cassiani aveva presentato in Parlamento la prima proposta per l'insegnamento della lingua albanese nelle scuole delle comunità dell'Arberia, che finalmente nel 1999, con la legge 204 è divenuta realtà". Anche su questi aspetti una visione della politica tra innovazione e tradizione.

      Una visione, pertanto,  della politica tra conoscenza e meditazione, ovvero consapevolezza della realtà e delle idee in una temperie di dura dialettica con le opposizioni, sempre all'insegna di una partecipazione democratica in una ampia libertà di espressione. Una politica sempre pensata in un pensiero mai improvvisato. E' su questo tracciato che Cassiani, oltre alle testimonianze delle opere, ha lasciato segni indelebile nel panorama della politica calabrese e nazionale. Un dato identitario dal quale non si può sfuggire. Se Cassiani ha inserito la problematica, nella realtà e nella storia, degli Arbereshe in una questione istituzionale, in anni ormai non vicini, significa che quella eredità era portatrice di interpretazioni profondamente legati a tutto ciò che si è sviluppato intorno alla storia del Mezzogiorno.

      Il Sud per Cassiani era Regno di Napoli, compresa la problematica relativa agli Arbereshe. Quindi come tale andava argomentato. D’altronde non gli sono mai sfuggiti i rapporti che Giorgio Castriota Scanderbeg aveva intrattenuto proprio con il Regno di Napoli. Gli Italo – albanesi sono dentro il Regno di Napoli. Non si può prescindere da ciò.

      Credo che da questa considerazione occorre ripartire per affrontare, in una dimensione più ampia, una interpretazione Italo – albanese che non può interessare soltanto una dimensione linguistica o etno – antropologica ma deve sempre più riguardare il legame tra diritto alla tutela e diritto alla valorizzazione di una identità che vive all’interno della storia e della cultura dell’Italia. Punto di riferimento, ancora una volta, la storia del Regno di Napoli. Dentro questa storia gli Arbereshe non sono un popolo in fuga ma una civiltà che tutela la propria identità nel rispetto elle norme.

  inizio pagina 

pubblicato il 4 febbraio 2009

MINORANZE LINGUISTICHE IN PUGLIA

di Anna Maria Colaci*

 Lo studio di Pierfranco Bruni è un testo importante non solo perché spiega tante cose ignorate dai più e perché è una felice opera di sintesi, ma anche per gli spunti e le riflessioni che solleva.

           Tra queste mi permetterò di soffermarmi su alcuni aspetti. Il primo è laddove (pp. 37 e seguenti) si spiega molto bene che la tradizione permane e fruttifica dentro di noi, “La grecità non è soltanto una forma simbolica. E’ l’essere che attraversa le nostre coscienze. Anzi è la nostra coscienza che diventa consapevolezza di un processo che è sì culturale ma che diviene profondamente etico ed esistenziale in un quadro di valori la cui eredità è nel rispetto delle appartenenze”.

Qui è un punto fondamentale non solo della tematica affrontata nel testo, ma anche della realtà attuale. Quello che vorremmo, in una realtà complessa come la presente, è il saper coniugare insieme tradizione innovazione rendendoci conto che la civiltà non è solo un’unione di linguaggi, ma anche di codici, di simboli, di significati che costituiscono e devono costituire il senso del nostro essere.

Di qui nel libro il giusto rilievo dato, ad esempio, alle identità etniche della Magna Grecia e al suo modo di permanere nello spazio e nel tempo. Vorrei dire che, pur nel tumultuoso vortice delle novità, dovremmo essere accorti custodi dei tanti saperi che si sono avuti nel corso della storia e che continua a sussistere e a saper infondere, a chi sa intenderli, linfa vitale.

         Su tale vissuto vanno intese, a mio modo, le pagine dedicate al tarantismo, a Comuni come San Crispieri e San Marzano,  come alle realtà italo-albanesi nella provincia di Foggia. In tutto il libro vive non solo la spiegazione delle difficoltà che queste cosiddette culture “minori” o soggiogate, hanno vissuto, ma come esse siano riuscite, malgrado tutto a permanere e a influire su costumi e modi di vita.

         A me pare pertanto importante e significativo che vengano pensati e pubblicati libri come questo che non sono mera erudizione, né intendono riproporre come attuale una realtà che pure c’è stata nella storia, quanto a mostrare come il cammino, quello che noi siamo come salentini, come pugliesi, è un intreccio di voci diverse che in qualche modo hanno coabitato e coabitano con noi. Un passato da non liquidare come remoto, ma da conservare gelosamente per meglio comprendere chi noi siamo.

        E’ davvero la storia della nostra tradizione, delle nostre radici, forse non le uniche, ma comunque elementi fondamentali di un processo storico. Particolarmente chi si interessa di educazione dovrebbe comprendere, far propri e poi spiegare come la civiltà non è né un puro aprirsi agli altri, e neanche una pura contrapposizione, ma una lenta e difficile – talvolta contrastata – mediazione. Se riusciremo a capire questo, forse sarà anche più facile affrontare le questioni dei nostri giorni.

        Per questo non posso che apprezzare il lavoro promosso da Pierfranco Bruni.

*Università del Salento 

foto di copertina: elaborazione grafica di Maria Zanoni

 

  inizio pagina 

 
 
 
 

 

©  Copyright 2005 - 2014  Tutti i diritti riservati - Centro Arte e Cultura 26 ( C.F:94001680787 )

Associazione culturale di ricerca antropologica etnofotografica fondata da Maria Zanoni nel 1978