Centro Cultura e Arte 26 - Ricerca antropologica etnofotografica e promozione beni culturali, arte, tradizioni di Calabria

   mappa del sito  

   contatti  

   link  

sei in

EDITORIALI

 Costume e società

pag. 2


Editoriali

Arte

Costume e Società

Dialetto

Etnie

Letteratura

  

Editoriali, recensioni e articoli di cultura, società, costume


 4

 3

 2

 pag. 1


 

pubblicato il 7 maggio 2009

TRADIZIONI MEDITERRANEE

Risorse da conoscere e valorizzare

 di Maria Zanoni

 

 Il prezioso ed inestimabile patrimonio culturale della Calabria poggia le sue fondamenta sulla conoscenza, la comunicazione e la cultura del rispetto, nella convinzione forte che la cultura e solo la Cultura, come rispetto dell’ambiente, dei Beni culturali, come legalità, può rappresentare una leva di sviluppo socio-culturale di un territorio, martoriato, ma anche sconosciuto o misconosciuto.

Le popolazioni del Mediterraneo devono riconsiderare la loro storia, la loro cultura, le loro tradizioni, perchè, attraverso un dialogo costruttivo, possano trovare punti comuni su cui costruire un futuro migliore. Devono riappropriarsi delle loro radici, per aprirsi alle offerte della società interculturale; e trasmettere alle nuove generazioni usi e costumi del passato, anche delle Comunità di minoranza etnico-linguistica presenti sul territorio, che rischiano l’estinzione.

La promozione dell'educazione alla tutela del patrimonio culturale è strumento di sviluppo del territorio.

La mia indagine nell’orizzonte folklorico tradizionale dell’area mediterranea, della Calabria in particolare, è basata principalmente su feste particolarmente significative per riti, miti e simboli.

In questi rituali che ancora sopravvivono alle cancellazioni del tempo, sono presenti antichi valori umani ed elementi culturalmente significanti per scavare nel nostro passato remoto e ritrovare il nostro senso di appartenenza, nella società consumistica contemporanea.

I riti e le tradizioni collettive nella nostra terra, molo naturale al centro del Mediterraneo, (che mi piace definire “culture di mare”), si susseguono secondo una ritualistica consolidatasi nei secoli che si ripropone puntuale.

 

In molte tradizioni contadine italiane, seppur geograficamente lontane tra loro, troviamo alcuni temi comuni che sembrerebbero legare indissolubilmente il mondo agrario ad antiche tradizioni pagane. Le forme estatiche, i rituali di fertilità sembrano essere filo conduttore di una cultura subalterna, mai del tutto scomparsa.

Popoli di prevalente cultura contadina, attraversati da civiltà diverse provenienti dall’Oriente, che si son trovati, per secoli, stretti tra un clero influente e il potere di avidi feudatari, hanno saputo lasciare un ricco patrimonio di valori, civiltà e culture, abbisognevoli di recupero, conservazione e valorizzazione.

Non è un caso che queste tradizioni si siano conservate in zone favorite dall’isolamento e accomunate dalla paura del negativo nella vita quotidiana e delle angustie della povertà agricola. Il sopravvivere di una cultura subalterna contadina ancora attaccata a queste credenze, attraverso ricordi, narrazioni, trasformazioni, ha permesso che le stesse arrivassero fino ad oggi.

 

In Calabria, come in tutto il meridione, il sistema festivo costituisce parte essenziale del dispositivo con cui le diverse comunità procedono alla formazione dei loro orizzonti identitari.

Le feste popolari sono una forma primaria molto importante della cultura umana, il cui clima nasce dalla sfera spirituale e ideologica del popolo; e le fasi delle loro evoluzioni storiche sono legate a periodi di crisi nella società.

Rinascere, rinnovarsi erano caratteri peculiari delle feste popolari, sia laiche che ecclesiastiche. Nelle feste i popoli rivivono i momenti più significativi della loro storia.

Molti riti oggi sono scomparsi e molti hanno subito trasformazioni.

Nella nostra società post-industriale alcune forme liturgiche sono diverse dalle ritualità folkloriche tradizionali ed a volte assumono l’aspetto di sagre ed animazioni etnoturistiche.

In alcuni rituali, credenze e comportamenti che si ripetono annualmente, il popolo manifesta il suo bisogno di evasione dalla realtà, ieri come oggi.

 

I riti della Settimana Santa e la festa del Carnevale, in cui la tradizione cattolica si è innestata su quella pagana, da sempre hanno offerto al popolo la possibilità di estraniarsi dal reale, anche se solo per qualche giornata, di dimenticare convenzioni e ruoli sociali. In particolare in questi due rituali, uno di natura laica, l’altro ecclesiastica, il popolo ha cercato di espellere le forze malefiche che sembravano influenzare il suo vivere quotidiano e, rinnovato e purificato, ricercava la gioia.

Questo anelito di felicità, questa pratica di riscatto umano e territoriale sono collettivi. Sin dalle epoche più remote della società si formò una duplice percezione del mondo e della vita umana: accanto ai riti e ai miti ecclesiastici, seri della preghiera, del pianto e della penitenza stavano i culti comici ed ingiuriosi nei confronti della divinità.

 

Le feste tradizionali della Calabria esprimono un ricco patrimonio di storia e cultura, legate molte volte alla natura e sempre cariche di un forte simbolismo. Parliamo dell’Affruntata di Vibo Valentia, della processione delle “varette” a Cassano Ionio”, dei “vattienti” di Nocera Terinese e di di Verbicaro, ci riferiamo a tradizioni suggestive come il rito greco-bizantino del “rubare l’acqua” a San Demetrio Corone, alle “Kalimere e Vallje” di Frascineto e Civita, alla Giudaica di Laino Borgo e a tante altre.

Le tradizioni popolari, religiose ed anche alimentari a queste legate, come tutti gli altri Beni Culturali e ambientali (monumenti, Chiese, ruderi, torri, castelli, palazzi, musei, siti e parchi archeologici, parchi naturali) sono un’industria antica che può costituire una valida spinta allo sviluppo socio-culturale futuro della  regione.

 

Il patrimonio artistico-culturale, oltre che materiale, è un'importante risorsa da salvaguardare. Di questo immenso patrimonio occorre costruire il valore nel presente, attraverso il riconoscimento sociale della sua importanza e la sua introduzione in circuiti virtuosi di fruizione e valorizzazione. In sostanza i beni culturali devono essere vissuti come risorsa territoriale, non solo come monumenti.

E non è ancora troppo tardi per prendere coscienza dell’immensa ricchezza che questa terra possiede, soggetta nel tempo alla legge inesorabile del progressivo disfacimento, per poter intervenire con una doverosa ed oculata azione di tutela e valorizzazione.

 

Nella foto: Maria Zanoni

 

inizio pagina

pubblicato il 20 dicembre 2008

LA CULTURA DEL TURISMO

di Egidio Chiarella

 

Il nostro territorio non è immune dal processo naturale di nascita, crescita, declino, che coinvolge tutte le cose!

Saper governare in modo corretto la possibilità di fare rivivere i momenti sociali, culturali e religiosi più significativi del nostro passato, significa scongiurare la scomparsa di un patrimonio inestimabile, necessario al rafforzamento dei valori che sono alla base del progresso della nostra regione. Solo attraverso un coinvolgimento diretto e fattivo di tutte le realtà sociali, economiche, culturali, che insistono in un determinato ambito si può realmente incidere sullo sviluppo turistico sostenibile.

 

Partendo, dunque, da un dato certo che ogni calabrese va fiero della bellezza straordinaria della propria terra, sia per le sue coste, sia per gli splendidi paesaggi dell'interno, è probabile, invece, che pochi conoscano a fondo le inesauribili tracce di storia popolare, che fanno grandissima la nostra regione, anche sul piano dell'interesse storico-culturale, nonché sociale e religioso.

 

Quello che, ancora manca, è la volontà ferrea che questo patrimonio di bellezze storiche, legato alle nostre tradizioni popolari, diventi la "materia prima", esclusiva ed inimitabile, di una immensa industria dell'accoglienza e di una autentica risorsa economica. Ma al dì là della valenza strettamente economica e commerciale di questa risorsa, pur fondamentale per il potenziamento dell'occupazione in Calabria, credo che lo svi­luppo di una "cultura del turismo” intesa come opera di divul­gazione e di valorizzazione dei nostri "beni popolari e folklorici", potrebbe rappresentare anche l'occasione di una sorta di "Rinascita Calabrese".

 

La riscoperta di un forte orgoglio regionale mi sembra, infatti, assolutamente indispensabile, in un momento storico e politico in cui alla solidarietà etnica e all'abbattimento delle frontiere (valori sacrosanti ed indispensabili) fanno riscontro, però, l'affievolimento delle identità culturali di ciascuno ed insieme un deleterio senso di sradicamento. Il recupero ed il rafforzamento delle proprie radici storiche e della propria fisionomia di popolo, accoppiate ad una intelligente "cultura del turismo", che valorizzi e richiami alla memoria le antiche e nobili tradizioni calabresi e che rinnovi l'interesse ed il rispetto verso beni trascurati e degradati, si porterebbe dietro, un autentico risveglio dello spirito e della coscienza calabrese, spesso depressi e mortificati.

 

Su queste basi nasce l'impianto di una mia proposta di legge regionale, che attraverso un'attenta e concertata pianificazione territoriale vuole promuovere lo sviluppo di Grandi eventi, per la rivitalizzazione di aree storico-turistiche attualmente in declino o per il mantenimento di quelle realtà, che riescono a mantenere una loro precisa fisionomia, in un’ottica di salvaguardia del nostro patrimonio culturale e sociale.

 

Nella foto: L'on. Prof. Egidio Chiarella, presidente IV Commissione Regione Calabria.

 

inizio pagina

pubblicato 20 novembre 2008

Riconsiderare il Mediterraneo e raccogliere le parole e i luoghi d’Europa.

Tra la poesia e il viaggio  

di Pierfranco Bruni

 

 Sulle orme di San Paolo e incontrando le piazze della recita e dell’incontro. Ancora una volta sono stato ad Ankara. Non mi affascina più, pur non dimenticando il paesaggio solcato dall’Apostolo delle Genti.

Non mi affascina quella cultura, ma è certamente diversa da quella Albanese o Macedone. In Macedonia ho toccato la visibile invivibilità. Un mondo che si chiude. Un mondo chiuso all’Occidente.

In Turchia il bisogno di capire l’Occidente c’è. Ma i miei pensieri vanno oltre. Mi accorgo definitivamente di un passaggio di tempo e di luoghi e di culture quando giungo a Basilea e poi in Francia. Da Mulhouse a  Strasburgo e successivamente da Strasburgo a Nancy e da qui a Francoforte. Parlando di letteratura italiana del Novecento ho sempre nei pensieri il viaggio di San Paolo tra il deserto e il mare, perché Paolo è il viaggiatore che viaggia per parlare guardando negli occhi. Il primo scrittore cristiano.

 

Proprio a Strasburgo ho toccato questo tema e ho affrontato il rapporto tra la piazza e San Paolo. Dall’Agorà alla Medina. Sì, perché anche la Medina, nella sua complessità, è una piazza che diventa mercato e incontro di lingue. Ma non riesco a dimenticare il freddo di Strasburgo e l’eleganze delle donne di Strasburgo. Queste donne che sembrano recitare tra i boulevard e i battelli. Ho segnato negli appunti.

Ore 7,40. Strasburgo. Sembra ancora buio. È ancora buio. Il freddo ghiaccia il naso e le mani. Ci sfiora come un taglio i capelli mentre camminiamo costeggiando la cattedrale. Ci sono occhi di donne che hanno il chiarore prévertiano anche se Prévert non è di queste parti. L’Alsazia non è la Bretagna. Ieri sera serata importante all’Istituto Italiano di Cultura.

 

Ho parlato della piazza nell’Italia della cultura contadina. Tanto interesse e domande. Il viaggio è sempre un incontro che non si ferma in un luogo o in un porto. Continua anche nel ricordare immagini e colori. Mi hanno chiesto perché mi interesso di poesia. Non c’erano ragazzi. Perché poi parlare sempre ai ragazzi o alle ragazze? Finalmente ho potuto svolgere una conferenza senza mediare le parole. Un pubblico che aveva quasi la mia stessa età. Forse, anzi certamente, più giovane. Qualcosa in meno della mia età e qualche leggerezza di tempo in più. Ha incuriosito il mio approccio poetico e il mio raccontare la piazza come viaggio e come luogo che resta nell’inquieto e nella fantasia del mistero.

 

Perché mi occupo di poesia? Ho risposto così: “Per cercare di capire cosa dicono gli sguardi delle donne che incontro. Per tentare di penetrare gli occhi che non hanno bisogno di parole per esprimersi”. L’ho tirata lì senza rifletterci su. Una donna giovane, archeologa per vocazione e docente per mestiere, mi ha detto subito: “Che strano. Non avevo mai sentito un tale giudizio”. Accento alsaziano. E poi mi ha chiesto se amassi realmente l’Agorà e se io mi sentissi di vivere al centro dell’agorà. Mi ha sorpreso. Occhi vivaci ma malinconici. Fabienne. Mi ha detto: “Lei mi sembra di vivere l’agora ma di cercare un approdo che non ha”. Ancora sorpresa. È possibile. Ho risposto. Mi ha detto ancora che era stata a Tunisi e aveva ascoltato una mia conferenza su Cesare Pavese. Si trovava a Tunisi per una campagna di scavo. Mi ha detto anche che era presente quando mesi fa sono stato nuovamente a Strasburgo per parlare di Pasolini e le etnie. Viene spesso a Roma. Ma poi altre domande, altri incontri.

 

Strasburgo è meravigliosa. Nonostante il freddo. I battelli, le case che ricordano l’urbanistica tirolese. Forse quella svizzera. Dolcezze, eleganza, stile e profumi. Niente di orientale. Prima o poi dovrò rivedere il mio concetto di Mediterraneo. Bisogna viaggiare per capire cosa è realmente il Mediterraneo e cosa rappresenta l’Europa. Nessun odore di spezie orientali. Qui la poesia e la lingua sono dolcezza e gli sguardi sono preci e incisivi. Mi sembra di vivere in un tuffo improvviso le pagine di Simenon. I Bistrot sono ricordi antichi del Commissario che ho tanto amato. Come i ragazzi che si baciano in piedi tra le porte della notte. Nostalgie. Il freddo è intenso.

 

Sono le 8,06 e tutto è ancora grigio. Passano i passanti. Spiccano le insegne luminose. I battelli fanno eco con l’acqua. Qui c’è una atmosfera completamente diversa rispetto a Istabul. Devo essere sincero? Amo i boulevard più che la confusione delle Medine. Squilla il telefonino. È l’archeologa docente. Mi saluta e dice che non può venire in Lorena, all’Università di Nancy. Non ero stato io ad invitarla. Mi dà la buona giornata in francese e io rispondo in italiano. Bene bien, mi dice. Comunque mi comunica che sarà a Roma, per un convegno, la prossima settimana. La inviterò a cena.

 

Mi affaccio alla finestra in attesa dell’autista. Spiccano ancora le insegne. Il rosso è splendente come pure l’azzurro. Questi luoghi mi affascinano. Mi affascinano questi luoghi dove i profumi hanno delicatezza e grazia e non portano incenso e le poesie sono poesie nella leggerezza delle parole che si fanno intense. Il mio Mediterraneo se ne va in frantumi e tutto un mondo che era dentro di me si sgretola.

La civiltà ha un costo? Mi convinco sempre più che ho bisogno di riconsiderare le mie riflessioni sul tema di un Mediterraneo, che resta solo un termine, un concetto, una parola. Mi considero veramente mediterraneo? Parigi resta Parigi e lo sguardo di Fabienne è incantevole.

 

Sì, il Mediterraneo comincia ad infastidirmi. Forse sto diventando vecchio o sto ringiovanendo. Non sopporto più viaggiare tra i Balcani. Non mi interessa più comprendere l’Adriatico e il Mediterraneo. Il mare resta sempre il mare. Certo. Ma vuoi mettere una donna coperta di seta e di profumi inebrianti con una donna d’Oriente che cerca di accattivarsi ancora con la danza del ventre. L’età, il tempo, il passare degli anni fanno scherzi.

Cammino tra le strade e la bellezza mi entra negli occhi. Anche qui i foulard e le pashimine hanno un altro odore. Restano avvolte tra i capelli. Ma hanno un altro tocco. La femminilità affascina. Non sono uno sciamano. Non mi dicono nulla. Preferisco gli chansonier che riportano nostalgie e ricordi sulle onde di una giovinezza sbiadita. Prévert è ritornato a farsi sentire. Lascio l’Alsazia e la Lorena. Vado a Francoforte. Ascolto le parole e i segni di un cammino che mi cammina dentro.

 

Perché sono partito pensando a San Paolo: da Ankara dove tutto resta avvolto nella storia di Ataturk a Strasburgo dove non ci sono donne velate ma occhi che domandano perché “ti occupi di poesia? Vuol dire che sei un poeta?”. Non voglio dire nulla. È che, a lungo andare, i viaggi ti cambiano dentro e ti fanno toccare con mano la realtà. La poesia ha sempre il suo fascino. Dove andrò? Ci sono occhi che mi scrutano. Hanno sguardi. Forse perché ho sempre avuto l’attrazione per “Questo amour…”.

E il Mediterraneo. È tutto questione di profumi. I profumi mi cambiano come i viaggi. Edith Piaf e Charles Aznavour  cantano nel ritornello il richiamo di un amore. Un amore che non c’è o un amore che vorrei.

 

Ritorno a Roma da Francoforte. Ma il viaggio continua. Domani telefonerò a Fabienne per sentire il suo accento alsaziano. Ma nulla di più.

L’Italia è nel Mediterraneo. Forse sì o forse no. Ma smettiamola con questa farse del Mediterraneo fascino e mistero. Il primo a doversi ricredere sono proprio io. Ma San Paolo non c’entra. Resta il viaggio nella fede oltre il Mediterraneo stesso.

Dovrò ripensare il “mio” Mediterraneo. Certamente sì. E lo farò. Eluard mi penetra più di Hikmet. E Paul Geraldy recita: “Il Ricordo è un poeta. Non ne fare uno storico”. Ed io ricordo. Senza nostalgie.

 

Nella foto: il dott. Pierfranco Bruni, Archeologo direttore Ministero Beni e Attività Culturali.

inizio pagina

pubblicato il 27 Gen 2008

L’ARTE DEL GUSTO

Saperi e sapori mediterranei

di Maria Zanoni

 

La presentazione del “Golosario” 2008 - guida alle cose buone d’Italia - di Paolo Massobrio, un evento culturale ed enogastronomico di alta qualità del gusto, invita a qualche riflessione sul mangiar bene.
La meritoria opera del critico enogastronomico milanese, fondatore del Club Papillon, riserva ampio spazio ai prodotti tipici genuini di Calabria ed alle aziende Agricole, enoteche, boutique del gusto, produttrici di eccellenze.
Alla guida dei luoghi del gusto e dei produttori di cose buone di tutte le regioni italiane si affianca “Adesso 2008”, 366 giorni da vivere con gusto.


Elegante e raffinata la veste grafica di un’opera che lo stesso autore definisce: “ Non un’agenda, ma il diario della vita. È il ricordo che diventa memoria, è la famiglia che non ti abbandona mai, perchè il gusto l’hai scoperto lì” - afferma Paolo Massobrio, dall’alto della sua esperienza - si occupa da oltre vent’anni, come giornalista, di enogastronomia e di economia agricola.
Massobrio ha curato con passione l’opera, nell’intento di portare la bellezza ed il gusto nella famiglia, distratta e frettolosa dell’era Internet.
Il volume, illustrato dall’artista milanese, Letizia Fornasieri, coniuga arte, saperi e sapori, nelle sue sezioni dedicate al gusto, ai consigli per la spesa e la casa, al vino, al giardino.
Dalle pagine traspare chiaramente il gusto per la vita, per i prodotti tipici, genuini, per i sapori e gli odori di antica tradizione, che rischiano di scomparire negli anni del Fast Food e del frettoloso self service. Paolo Massobrio invita a mangiare sano, cucinando con passione, perchè il cibo, oltre che salute, è anche cultura. Gli alimenti sono beni culturali che fanno parte di un ecosistema sociale.

 

 L’arte culinaria, perchè di una forma d’arte si tratta, durante la sua lunga storia, ha realizzato pietanze, di forme, colori, sapori e profumi di innegabile attrattiva; ma fondamentalmente nelle sue rielaborazioni, nelle reinvenzioni tradisce una matrice senza dubbio contadina. I piatti tipici della tradizione contadina, appartenenti a rituali alimentari legati all’antica sacralità naturalistica, nel tempo, sono stati trasformati.

La società sazia e consumistica di oggi, col progressivo livellamento delle classi sociali, l’avanzata inarrestabile della massificazione dei gusti e delle abitudini, la desacralizzazione dell’esistenza, sta sgretolando gli antichi modelli. E in funzione di un’alimentazione standardizzata, omologante, all’insegna degli stili moderni, self service e fast food, si è molto allontanata dagli antichi modelli, basati sulla socialità, sullo stare insieme a tavola, sulla dimensione conviviale, sulla comunicazione, sulla lentezza della cottura, sulla genuinità e salubrità.

Lo affermava con forza nel 2003 il volume “Salute e pane asciutto. Mediterraneo tra cultura dell’alimentazione e stile di vita”. Gli Autori, Cauteruccio e Zanoni, invitavano al recupero ed alla valorizzazione delle risorse del territorio calabrese, che sono sì un prodotto economico, ma anche un bene culturale. Vanno adeguatamente protetti e valorizzati i prodotti enogastronomici tradizionali, i cui metodi di conservazione, lavorazione e stagionatura risultano consolidati nel tempo, nella cultura e nella tradizione della nostra terra.

 

 L’attenzione alle valenze simboliche, sociali e culturali dei cibi, alla scelta oculata tra ciò che fa bene mangiare e ciò che è opportuno evitare, è segno di sensibilità, di rifiuto di un’alimentazione sostanzialmente “artificiale” della società postmoderna. La dieta mediterranea appare, dunque come l’antidoto al “villaggio globale alimentare”, alle attuali manipolazioni e combinazioni che ribaltano la dieta tradizionale. Così, “dieta mediterranea” andrà a significare “alimentarsi” della storia, dei simboli, dei riti, dei beni culturali del territorio.

Nella foto: Maria Zanoni con Paolo Massobrio

 

inizio pagina

pubblicato il 5 Gen 2008

PROMUOVERE LA CALABRIA

LE PIETRE DIVENTANO PAROLE E SUONI

di Cesare Pitto

 

 L'occasione di presentare il libro di Maria Zanoni "I Palmenti — tracce di cultura materiale in Calabria" apre uno spazio per una personale riflessione non distaccata dai temi agitati da tanti antropologi e demologi che hanno in vano modo percorso le strade della Calabria ed in particolare di questa Calabria del Pollino che è anche Basilicata, Campania e, in sostanza, Mezzogiorno.
Una lettura comparata dei territori nelle sue componenti storiche ed etno-antropologiche riesce a rilevare il dialogo tra memoria, segni di civiltà e popolo.
Lo sforzo intrapreso dall'autrice è quello di inseguire nella contemporaneità i segni della storica trasformazione dei prodotti vitivinicoli in elementi nutritivi, in cibo e bevande, in piacere della mensa e al fine in convivio.
Segni di pietra che lasciano ancora intendere nella struttura dei palmenti la fatica dell'uomo, la conservazione del bene, l'ansietà del nutrimento nei tempi di assenza vegetale.
Da questo punto di vista il volume spazia dalle tracce del tempo d'interesse archeologico fino agli usi e costumi di un recente passato della civiltà contadina e poi i segni talvolta drammatici del cambiamento.
Filo conduttore del lavoro è la presenza fisica del palmento, una traccia di cultura materiale che corre lungo le epoche e si apre nella realtà odierna. le pietre diventano parole, suoni, e riecheggiano nei canti popolari caratteristici del territorio calabrese.


Le ormai quasi del tutto scomparse manifestazioni legate alla civiltà contadina escono dalla memoria delle persone più anziane oltre che dai segni del territorio, e resistono nelle tradizioni legate alle festività, dal Carnevale ai riti di passaggio della primavera, alla celebrazione del Natale e dell'inverno, in attesa della ri-fecondazione della tema.
Anche il passaggio da una civiltà agraria a quella industriale e post-industriale — qui in Calabria non ben definita — apre al contesto le problematiche del cambiamento e del bisogno di un itinerario anche interiore che attraverso la rivitalizzazione eno-gastronomica dei luoghi produce un senso del nuovo antico abitare.


Perché è storia recente del territorio un processo di urbanizzazione con fortune e danni rapidamente cresciuti che aprono il tramonto della civiltà contadina ad una tematica che Ernesto De Martino definiva apocalissi culturali.
Al tema della fine del mondo veniva allora come oggi sottoposto ad una interrogazione socio-antropologica a vasto raggio che sconfinando nei territori della psicologia, dell'etnologia, della storia delle religioni e della filosofia si apriva a questioni radicali e attuali del senso dell'uomo e della cultura in questa condizione.


È merito dell'autrice aver tenuto il filo di questo discorso anche attraverso una sequenza delle immagini. Immagini del passato anche recente con le lotte per la terra che le rappresentazioni delle rare foto del secondo dopoguerra ponevano al bisogno delle masse contadine che avevano fame di terra e lavoro.
L'occupazione delle terre incolte dal Pollino a tutta la Calabria segnata nel '49 del sangue sparso a Melissa viene ricordato e presentato dall'autrice che ci ricorda come "quel movimento di lotta che nasceva fra i braccianti poveri, affamati di tema, incominciava a diventare movimento di classe".


Dì conseguenza i libri che raccontano riti e miti intorno alla produzione vitivinicola fanno diventare questi beni materiali minori una risorsa culturale europea passando dal documento, veicolo di comunicazione, ad una rete di consapevolezza che permette la ricostruzione scientifica degli insediamenti, delle tecniche agricole, dei metodi di produzione e di una riproposizione di usi sociali e qualità della vita che possono ridare identità storica e sociale alla comunità, promuovere la Calabria.


Si potrebbe dire che nel testo vi è anche una costante attenzione ad una lingua nazionale, che comprende il dialetto e la lingua della minoranza arberesh che propone nella diversità l'ipotesi formulata da Jakobson, cioè superare le distanze fra le persone e fra i gruppi ma anche e in opposizione, istituire se stessi e gli altri come soggetti di una comunicazione e pertanto riconoscere e qualificare le distanze e le diversità.


La dignità del grande fiume osserva Sergio Salvi ne “Le lingue tagliate”, non è incompatibile con quella della tenue vena. Da questo punto di Vi-sta, allora, è importante come ha fatto l'autrice ripercorrere il cammino del vino dall'epoca tardo antica ai giorni nostri interpretandola come presenza, assenza e desiderio fino ad esaltarne i valori religiosi, terapeutici e qualche volta miracolosi.
In Italia questo volume mi fa pensare che esistano pochi luoghi capaci di esprimere in un ambito territoriale morfologicamente circoscritto come questa terra, la Calabria, tutto ciò che di bello esiste nel nostro paese.


Tra questi rari e suggestivi luoghi dove si concentra una tale varietà di paesaggi e di habitat scaturisce un'identità artistica e storica che ha bisogno di essere riproposta al panorama culturale e turistico (perché no) italiano ed europeo.
Una risorsa che va salvaguardata e sfruttata al meglio attraverso politiche di promozione che consentano di veicolare anche l'esterno dei confini nazionali e regionali di questo territorio. Giustamente, l'autrice prende in considerazione visiva non solo i reperti e i luoghi ma anche la produzione ed i risultati agro-alimentari. Infatti, la bellezza e la memoria dei luoghi si riverbera anche nella tradizione eno-gastronomica intimamente connessa con la qualità e tipicità dei prodotti. Il tema principale diventa perciò un meraviglioso delicato da cercarsi nel territorio circostante con pazienza e con immense soddisfazioni e sorprese.
Si raffigura così un viaggio mitico fra le attrattive del territorio, tra i suoi impareggiabili beni culturali, il più delle volte nascosti e troppe volte trascurati.


Da questo punto di vista una tutela sarà esercitata dall'istituzione provinciale e da quella regionale attraverso la collaborazione di strutture di collaborazione turistiche e con il consorziamento dei segmenti del turismo ricettivo e delle attività alberghiere e agro-turistiche di tipo innovativo. Questi itinerari potranno fornire l'incentivazione per l'incremento della qualità e della tipicità dei prodotti con le relative nicchie di proposte.
L'elemento di protezione del territorio, con una intensificazione dei contatti fra turismo e consumo agro-alimentare nelle nicchie territoriali può contribuire istituendo dei percorsi e degli itinerari qualificati, all'impossibilità economica di ricorrere ad apparati di distribuzione che l'attuale mercato non riesce a soddisfare.

Foto: Maria Zanoni ed il prof. Cesare Pitto - Ordinario di Antropologia Culturale Unical

 

inizio pagina

pubblicato il 25 Maggio 2007

GRAN FESTA DEL PANE AD ALTOMONTE

IL PANE TRA SAPORI E SAPERI

di Maria Zanoni

 

 

Il pane, padrone di casa ad Altomonte.
Quattro giorni dedicati alla festa del pane, bene culturale, ricco di tradizione, che l'assessorato al turismo del Comune, con la collaborazione della Regione, della Provincia, della Camera di Commercio e di diverse associazioni nazionali, ha voluto legare al territorio. Visite guidate ad antichi forni, restaurati in abitazioni private, momenti di degustazione e percorsi organizzati tra i vicoli del centro storico, lungo un preciso itinerario, opportunamente segnalato per i visitatori, che dall’anfiteatro porta fino alla trecentesca Chiesa di Santa Maria della Consolazione ed al Museo di Arte Sacra, sono stati un evento di straordinaria valenza culturale.

Alla scoperta del centro storico, dunque, delle tradizioni enogastronomiche, degli antichi sapori e della nostra storia, con esperienze didattiche (interessante la mostra dei pani tipici di varie regioni italiane) e degustazioni guidate di pane con formaggi, salumi, miele e di crespelle calde preparate con antica maestria da panificatori locali. L’evento ha avuto un momento toccante con la benedizione del pane da parte del neo vescovo Bertolone nel Duomo.

Di pane, come alimento principale delle popolazioni calabresi dall’antichità fino ad oggi, tra cultura dell’alimentazione mediterranea e stile di vita, parlano le 271 pagine del volume “Salute e pane asciutto” - edizioni Arte26 – 2003 – Autori: Maria Antonella Cauteruccio e Maria Zanoni, che ha avuto il suo spazio nella mostra bibliografica, insieme ad altre pregevoli opere sul prezioso alimento.

Il pane occupava la maggior parte dell’alimentazione della popolazione: “Si allu mutu lli cacci ‘u pani - lli veni la parola”, si soleva dire. Dunque, il pane come alimento basilare dell’alimentazione ed elemento di coesione delle popolazioni mediterranee. “A chine te caccia llu pane, càcciacce 'a vita” (A chi ti toglie il pane, togligli la vita) suggeriva la filosofia della sopravvivenza. Quella sopravvivenza che era legata alla buona annata, poichè si consumavano i prodotti coltivati nei campi. Il focolare con il forno, il paiolo e la pignatta sono stati per molti secoli gli elementi chiave della cucina contadina, espressione della centralità del mangiare.

Si panificava una volta alla settimana; e, quando si era costretti a risparmiare tempo da dedicare ai lavori nei campi o la legna che alimentava il forno, si faceva il pane in casa ogni mese o ogni due mesi. Le famiglie più povere si servivano dei forni pubblici di antichissima origine baronale, soprattutto in prossimità delle feste; e pagavano per l’uso. Il pane, alimento principale, veniva consumato a qualsiasi ora, solo o con companatico. Ma sempre il pane scuro, ottenuto dalla mistura di farine di cereali inferiori, perchè quello bianco di grano il contadino lo vedeva solo una o due volte all’anno: a Pasqua ed a Natale, seppure c’era la possibilità. Le farine più usate, oltre quella di grano, nei paesi della provincia di Cosenza erano: quella di avena, granturco, orzo, castagne; e, in tempi di crisi estrema, anche di lupini e di ghiande. Ogni pane era buono a riempire la pancia, anche quando faceva la muffa. Il pane era il volto di Cristo e non ne andava buttata neanche una fetta; e nemmeno poteva essere posato sulla tavola girato sottosopra, perchè si credeva fosse un grave peccato. La miseria non permetteva di buttarne neanche un pezzo. Anche i pezzi di pane indurito venivano utilizzati e resi commestibili con minestre saporite.

La licùrdia, antichissima pietanza di origine mediterranea, era, infatti, una zuppa preparata con acqua bollente in cui erano stati uniti olio, cipolle, pezzetti di pomodoro, sedano, uova e un pizzico di sale, che veniva versata sul pane raffermo. Comunque sia, il pane risolveva il problema della fame.

Fare il pane in casa era un’arte che si tramandava di madre in figlia. Le donne si alzavano al mattino molto presto e preparavano la pasta con il lievito che la sera precedente erano andate a prendere in prestito dalle vicine o dalle comari. Impastavano la farina nella màdia e poi formavano dei pani rotondi che sistemavano su di un canovaccio steso sul letto e ricoprivano con delle coperte, perchè col calore lievitassero. Intanto si riscaldava il forno, con fascine di legna; e quando la volta diventava bianca, toglievano la brace, e, dopo essersi segnate la fronte con la croce ed aver recitato: “Santu Martinu, panu cuttu e furnu chijnu”, nella credenza di allontanare il malocchio, mettevano a cuocere i pani, lasciando alla “bocca” del forno lo spazio per le pitte. Una di quelle focacce, a forma circolare del diametro di 30 centimetri, sfornate prima del pane, solitamente veniva mandata in dono a chi aveva prestato il lievito. Era una gioia per tutta la famiglia sfornare il pane e sistemarlo a raffreddare nella madia.

Nella cultura contadina la panificazione seguiva dei rituali religiosi, primitivi, magici, misti a quelli cristiani, tramandati alla terra di Calabria dai suoi dominatori. Nell’antica Grecia la coltura del grano era un vero e proprio culto alle divinità: si offrivano pani e focacce per propiziare la buona riuscita della semina durante le feste Panepsie, che si celebravano in Atene in onore di Apollo, dio che portava a maturazione i frutti.
Anche nell’antica Roma venivano offerti cereali e focacce agli dei.

Alla dea Cerere, protettrice del frumento e dei frutti della terra, prima dei raccolti si facevano sacrifici con focacce e vino. Questi riti si erano diffusi in tutta l’area mediterranea; e la cultura subalterna meridionale è ricca di tracce di questi antichi rituali. L’arte della panificazione, perchè di una forma d’arte si tratta, durante la sua lunga storia, ha realizzato forme, colori, sapori e profumi di innegabile attrattiva; ma fondamentalmente nelle sue rielaborazioni, nelle reinvenzioni tradisce una matrice senza dubbio contadina. I forni erano momenti di socialità. Ad Altomonte son tornati ad esserlo alla grande.

Recuperiamo la tradizione e valorizziamo le risorse del territorio. Il possibile futuro sviluppo passa attraverso la riappropriazione della nostra identità mediterranea e la sua affermazione.

Nella foto in alto a destra: Maria Zanoni con il sindaco di Altomonte Giampietro Coppola e il consigliere regionale Egidio Chiarella.

Nella foto di gruppo in basso: al microfono l'assessore al Turismo del Comune di Altomonte, Enzo Barbieri con le Autorità regionali e provinciali all'inaugurazione dell'evento nell'anfiteatro.

 

inizio pagina

pubblicato il 12 Gennaio 2007

IL PRODIGIO DELLA FEDE

di Maria Zanoni

 

Uno dei santuari più suggestivi della Calabria, quello della Madonna delle Armi, sul monte Sèllaro, ultima propaggine della catena del Pollino che si stende nella baia di Sibari, è sempre più meta di fedeli e curiosi, da quando, Vincenzo Rimola, un giovane di Spezzano Albanese, ristoratore per mestiere, poeta per vocazione, ha additato a tutti il fenomeno della “visione” del volto della Madonna, stagliato sulla montagna, vicino all’ascetario quattrocentesco delle Armi.

Un effetto di luci ed ombre sul costone roccioso, ricoperto di macchia mediterranea, che restituisce non solo allo sguardo, ma anche alle riprese fotografiche, le sembianze di un volto, con occhi, naso e bocca antropomorfi.

Sulla strada della “Caccianova” che da Doria porta a Francavilla Marittima dalle 8 del mattino fino a mezzogiorno si può osservare il prodigio della pietas popolare.
È il paesaggio naturale antropizzato che assume valenze fortemente mistiche, nel momento in cui s’incontra con animi puri, vibranti d’intensità emotive particolari.
Non di apparizione si può parlare. Rimola non è il solo a beneficiare della “visione” (e neanche visione o apparizione si può definire).

Il prodigio delle trasformazioni cromatiche e dei movimenti del sole può portare come conseguenza l’incremento della devozione mariana, ma non può lasciare spazio a fenomeni di suggestione collettiva o speculazioni.
Il prodigio della fede, il miracolo sta proprio in questo fervore di fede.
Ciò che Rimola addita agli altri non risulta frutto di falsità intenzionale. Nei nostri paesi la devozione popolare è rimasta ancora fervida.

Nella società del terzo millennio, dove l’uomo esplora senza limiti i segreti della natura, naviga nel grande mare di Internet e arriva a decifrare i codici del genoma umano, l’uomo del ventunesimo secolo, consumista e arrivista, è però inquieto ed insicuro ed ha sempre più bisogno di spiritualità.

Qui in Calabria, crocevia di popoli e civiltà, spesso il sentimento religioso è vissuto in espressioni magiche di una fede miracolosa, manifestazioni dell’animo popolare. E la fede religiosa, intrisa di mistero, se non viene vissuta con equilibrio può sfociare in forme ambigue – afferma la Chiesa – che, preoccupata, è molto cauta di fronte al moltiplicarsi di fenomeni di visioni, apparizioni e statue sanguinanti; e mette in guardia i fedeli dal lasciarsi trascinare in devozioni ingannevoli.

Le apparizioni o rivelazioni private approvate dal Magistero della Chiesa sono, infatti, pochissime e non sono dogma di fede.
Prima che la Chiesa indaghi e si pronunci su fenomeni come questi passa molto tempo.
Intanto nessuno può impedire a chi crede di rivolgere un pensiero e una preghiera alla vergine delle rocce. Sta in questo il grande miracolo.

Il racconto di Vincenzo Rimola, innanzitutto, ha avuto il grande merito di metterci di fronte ad un episodio di spiritualità popolare, che, come altri che suscitano chiaramente reazioni emotive, va indagato e ripensato, da un punto di vista antropologico, sociologico, religioso.

Nella società meridionale ancora oggi esiste un legame indissolubile tra luoghi, paesi, Madonne, Santi patroni e individui, che cercano prove di carattere miracolistico, alla ricerca vana di segni che manifestino l'onnipotenza divina dispiegata su questa terra. È forte la convinzione che l'immagine del santo non è solamente un segno che fa riferimento ad altra realtà, ma è il luogo della presenza stessa del Santo, soprattutto quando ci si trova in prossimità di un importante luogo di culto.
Ed il Santuario della Madonna delle Armi, costruito nel 1440 su una precedente chiesa basiliana del IX – X sec, sulle rocce (in greco armòn significa roccia) è stato nel tempo meta continua di pellegrini e devoti. Alla Vergine delle rocce, la cui immagine si conserva su una lastra di pietra, ritrovata in una delle grotte abitate dai monaci bizantini, la tradizione attribuisce molti miracoli.

È un segno dei tempi la nostalgia del sacro, che trova un riscontro anche nell’interesse che i mass-media dimostrano nei confronti degli avvenimenti religiosi.
L’insicurezza e il conseguente bisogno di valori assoluti cui ancorare la vita, nascono dalla crisi del mondo tecnologico, elargitore di benessere materiale e di pensieri di utilità egoistica che soffocano certe facoltà spirituali di cui oggi si avverte drammaticamente la mancanza.
In questa non facile esperienza dell’invisibile e dell’eterno, mi sembra opportuno concludere, citando un brano del Discorso del 7 settembre 1991 di Papa Giovanni Paolo II: “Non si può pensare di vivere la vera devozione alla Madonna, se non si è in piena sintonia con la Chiesa e col proprio vescovo. Si illuderebbe di essere accolto da Lei come figlio chi non si curasse di essere, al tempo stesso, figlio obbediente della Chiesa, alla quale spetta il compito di verificare la legittimità delle varie forme di religiosità”.


Nella foto: Vincenzo Rimola, sulla strada della Caccianova, rivolge uno sguardo di fede alla figura della Madonna visibile sulle rocce del monte Sellaro (indicata con la freccia).
Nel riquadro sembra di notare i tratti di un volto. La foto è stata scattata da Maria Zanoni.

 

inizio pagina

pubblicato il 13 Dicembre 2007

NUOVO TEMPO - GIOVANI, MUSICA E POESIA

di Maria Zanoni

 

I giovani protagonisti alla Fiera della Cultura, promossa dal G.A.L. Pollino, con la partecipazione delle Associazioni e dei Comuni di Castrovillari e del suo hinterland, presso il Protoconvento Francescano della città del Pollino nei giorni 12 e 13 dicembre 2007.
Lo spazio riservato al Centro d’Arte e Cultura 26, associazione di promozione culturale al suo trentesimo anno di attività, è stato dedicato a: GIOVANI, POESIA & TERRITORIO. Al Teatro Sybaris si è tenuto un recital di poesie ed un concerto di chitarra folk acustica e percussioni, dedicato alla poesia ed alla musica di Fabrizio De Andrè.


Un gruppo di giovani che coltiva la poesia, nobile arte un tempo appannaggio solo di élite e colti anziani, ha declamato i versi scelti da recenti pubblicazioni dei poeti locali Anna M. Basile, Ciro Cauteruccio, Antonio e Carmine Zofrea, Maria Zanoni. Si sono alternati al leggìo Marco e Giuseppe Fioravante, Claudia Rende, Adele Stigliano ed Antonio Zofrea. Alla kermesse hanno partecipato i gruppi musicali Acoustic Friends Duet (Luca Oliveto e Manuel Alessandria) e Sand Creek Trio, il gruppo di Fazio, Chimenti e Giordano, noto al grande pubblico per la capacità stilistica di ripercorrere nel tempo la memoria storica della meravigliosa canzone d’Autore italiana e per la forte passione per Fabrizio De Andrè.

Il sognatore mediterraneo, come lo definisce il critico letterario Pierfranco Bruni in una sua recente pubblicazione, è dentro un processo culturale che ha ramificazioni poetiche, esistenziali ed umane. È un personaggio che ha caratterizzato alcune generazioni ed ancora affascina con una cultura che cammina nel solco della tradizione. Il linguaggio della musica di De Andrè, il cantautore che penetra civiltà, etnie e nostalgie, è un tutt’uno con i versi, sul piano esistenziale e letterario. Musica e poesia, come espressione dell’anima delle generazioni di tutti i tempi. Come nuovo tempo.
I giovani, dunque, protagonisti di una serata di promozione della cultura del territorio, ricca di emozioni e sensazioni, contro le nuove forme di frustrazioni e solitudini della società globale postmoderna e per sconfiggere la crisi della letteratura che ha caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento.

Nella foto: momenti della Kermesse

 

inizio pagina

pubblicato il 1 Dicembre 2007

IN ALTO I CALICI

IL VINO, ORGOGLIO DELLE NOSTRE RADICI CULTURALI

di Maria Zanoni



In alto i calici, per sorseggiare la cultura del vino di Calabria. Una degustazione di vini tipici per apprezzare il bouquet intrecciato di conoscenza e amore per la propria terra, per le antiche tradizioni enogastronomiche.
Nella sala dell’Hotel Garden a Praia a Mare si è tenuto un incontro tematico, moderato da Filomena Pandolfi, esperta in Marketing territoriale: “Calici di vino, sorsi di cultura” che ha riscosso grande successo.


Un appuntamento di rilievo, organizzato dalla Pro Loco di Praia, in collaborazione con quelle di San Nicola Arcella, Aieta e Tortora e con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale, guidata da Carlo Lomonaco. Un plauso particolare al dinamico presidente della locale Proloco, Franco Di Giorno, che ha proposto, in forma nuova e originale, al numeroso pubblico presente in sala, enoturisti ed appassionati del buon bere, degustazioni di alcuni tra i migliori vini della Calabria, abbinati ai prodotti tipici di qualità, espressione del patrimonio regionale, offrendo spunti di seduzione visiva ma, soprattutto, suscitando emozioni. È con questo intento che vino e cultura si sono incontrati, come segno di orgoglio verso le nostre radici storiche e culturali, di rispetto verso il territorio ed i suoi prodotti, patrimonio di conoscenza, capacità e passione. In questa direzione, dunque, il contributo di presentazione del mio recente studio sulla cultura del vino, “Percorsi mediterranei”, edito da Arte26, con il patrocinio dell’Assessorato alla cultura della Regione.


La storia della viticoltura in Calabria è narrata dai “palmenti”, antichi testimoni di archeologia del vino, vasche per la pigiatura dell’uva, scavate nella roccia all’epoca dei Greci, dei Romani e dei Bizantini, che, illustrati in volume, raccontano la storia delle nostre tradizioni enogastronomiche, meglio di mille pagine scritte.
Se qualcuno si aspettava un libro noioso, un concentrato di tecnica e ampelografia per addetti ai lavori, è rimasto deluso, nell’incontro con una pubblicazione che fa della promozione del territorio e dei suoi beni culturali la sua colonna portante. Promuovere la conoscenza del nostro prezioso patrimonio di cultura materiale che va ad affiancarsi a quello ricchissimo naturalistico, artistico e storico è una necessità improcrastinabile.
La conoscenza dell’originalità dei nostri vini, dei prodotti tipici di qualità contribuisce alla promozione di corretti stili di vita, sicurezza alimentare e rafforza il legame con il territorio e la sua cultura enogastronomica.


Voci autorevoli come quelle dell’assessore regionale all’Agricoltura, Mario Pirillo, e dell’assessore provinciale al Bilancio, Rachele Grosso Ciponte, hanno rimarcato la valenza dell’incontro, come azione promozionale dei vini regionali che vantano un illustre passato con il quale ben pochi altri possono competere, in funzione dell'inserimento di più vini calabresi nelle liste dei ristoratori locali.
Una serata dedicata alla degustazione che ha comunicato soprattutto emozioni, sorseggiando vini di qualità, percependone profumi e cogliendone il retrogusto, indice di cultura enologica in terra enotria.


nella foto da sinistra: Giovanni De Rose, consigliere regionale UNPLI, Carlo Lomonaco, sindaco di Praia, Franco Di Giorno, presidente Proloco Praia, Filomena Pandolfi, Esperta in Marketing territoriale, Maria Zanoni, scrittrice, Mario Pirillo, assessore regionale all'Agricoltura e Rachele Grosso Ciponte, assessore provinciale al Bilancio.

 

inizio pagina

pubblicato il 7 Novembre 2007

NUOVA SCOPERTA DI ARCHEOLOGIA DEL VINO

Palmento rinvenuto a Belvedere

di MARIA ZANONI


 
Sulla collina in contrada San Giorgio a Belvedere è venuto alla luce un altro palmento antico.
Il reperto di archeologia del vino va a collocarsi a fianco dei quasi mille palmenti rinvenuti in tutta la regione. Nel mio recente volume “I Palmenti, tracce di cultura materiale in Calabria” edito da Arte26, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Regione e della Provincia di Cosenza, sono censite ed illustrate queste vasche per la pigiatura dell’uva, scavate nella roccia, all’epoca dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, che costituiscono un patrimonio molto interessante per aprire ulteriori spiragli alla conoscenza della nostra storia, degli insediamenti rurali, dell’economia del territorio.

Queste arcaiche pigiatrici che sopravvivono a cielo aperto o in vecchi casolari nelle campagne raccontano la storia delle masse contadine, dall’antichità ad oggi, meglio di mille pagine scritte. E l’antico palmento affiorato qualche giorno fa nel territorio di Belvedere a qualche centinaio di metri di distanza da un altro magnifico esemplare di epoca romana, già rinvenuto qualche anno fa, racconta la storia della vitivinicoltura sulla costiera tirrenica al tempo dell’insediamento romano (dal III secolo a. C. al III dopo Cristo), quando sui fertili terrazzamenti tra il mare e i monti fioriva la coltivazione della vite e dell’ulivo.

Sotto i Romani il territorio era organizzato in “fundi” sparsi indirizzati a produzioni di elevato valore mercantile, soprattutto vino ed olio. La documentazione archeologica del territorio intorno a Belvedere (determinante il lavoro dell’archeologo Fabrizio Mollo) testimonia che sulla fascia tirrenica vi furono numerose ville produttive di proprietà delle aristocrazie romane, con forte utilizzo di manodopera servile.

Col processo di romanizzazione si ha la fine degli insediamenti lucani e brettii e sorgono ville a S. Litterata di Belvedere, a Cirella, a Fischija di Scalea, a San Nicola Arcella, a Fiuzzi di Praia a Mare. Le ville rustiche intorno a Blanda e Laos vengono abbandonate verso il III secolo dopo Cristo. Le fattorie agricole romane dotate di palmenti e celle vinarie erano organizzate intorno all’approdo marittimo di Capo Tirone, come attestano anche i rinvenimenti subacquei di epoca romana.

In questo contesto, verosimilmente, il palmento per la vinificazione apparteneva ad una villa rustica, una struttura eminentemente produttiva, inserita nel sistema dei latifundia, dedita principalmente alla produzione di vino, come le altre “ville rustiche” rinvenute a S. Litterata, Fontanelle, Cotura, Vetticello. Anche i due impianti per la vinificazione rinvenuti in contrada Fischija a Scalea testimoniano l’antica cultura del vino nel territorio, così come il nome “Parmint” della piazza principale di Belvedere. La documentazione archeologica (anfore vinarie e monete su cui sono riprodotte scene dionisiache) e le fonti scritte ci attestano dell’alta qualità dei vini prodotti in quel territorio, esportati in gran quantità, come il Chiaretto di Belvedere e Cirella, definito già nel Cinquecento “da signori e non da famiglie”, lo zibibbo di Diamante, il vino di Cetraro definito zucchero e cannella.

La mia ricerca sul campo (che cede il passo ora all’Archeologia) spero apporti un contributo alla conoscenza e valorizzazione di questi beni materiali legati alla cultura del vino.
Nel mio recente libro “Percorsi mediterranei” non c’è solo la passione della ricerca antropologica, ma la manifestazione di un incontro tra la cultura contadina nella temperie archeologica e la contestualità storica. Questi reperti materiali sono strumenti di verifica e di valutazione sul piano dell’indagine.

I due palmenti di Belvedere si possono ammirare all’interno di un percorso agrituristico che dall’antico palmento ha preso il nome. Qui la passione nella preparazione dei cibi e la squisita accoglienza verso l’ospite da parte della famiglia Cristofaro Riente non è riversata solo nella elaborazione dei piatti tipici della nostra terra con prodotti genuini, ma anche nella valorizzazione di questi beni culturali.

L’antico palmento, degnamente inserito in un percorso turistico-culturale, testimonia l’antica grande vitalità del luogo nella coltivazione della vite e nella produzione di buon vino, ed è sinonimo anche di cultura e amore per la propria terra. Il cibo, come i palmenti sono beni culturali da tutelare e valorizzare, perchè dipendono direttamente dalla cultura di un popolo, con i suoi riti, i suoi miti, i suoi codici simbolici, i suoi valori, espressi nelle tradizioni popolari.

Un patrimonio inestimabile di beni materiali, saperi e sapori che ci riconducono alle nostre radici culturali, pertanto meritano di essere conosciuti e apprezzati e fruiti.



Nella foto: la vasca superiore del palmento scavata nella roccia. In primo piano è visibile la canalina di scolo del mosto nella vasca inferiore (poco visibile, perchè interrata) e sulla parete di fondo si vedono i due fori per l'inserimento dei pali della pressa in legno.

 

inizio pagina

pubblicato il 3 Novembre 2007

IL SENSO DELL'ETNO-ARCHEO-ANTROPOLOGIA

 di Pierfranco Bruni

Il senso dell’etno – archeologia – antropologia trova nella ricerca di Maria Zanoni il punto di maggiore chiarificazione.
Uno studio che certamente farà discutere. Positivamente.

Il recente libro di Maria Zanoni dedicato ai Palmenti (ma è molto di più) pone delle interessanti “invasioni di campo” in quell’articolato processo culturale che interessa sia l’archeologia che l’antropologia. Tre titoli o un titolo con due “giustificazioni” o esplicitazioni. Percorsi mediterranei. I palmenti. Tracce di cultura materiale in Calabria. Edito nella collana del Centro Arte e Cultura 26.
L’indagine riguarda la cultura contadina all’interno di precisi territori della Calabria con incursioni di analisi in altri contesti geografici. Nella cultura contadina o della civiltà pre-contadina i palmenti attraversano sia l’elemento archeologico che quello antropologico.

Le scoperte che la Zanoni compie non sono soltanto da definirsi come “rivelazioni” di luoghi e di materiali. Ma credo che si vada oltre perché interessa l’apparato teorico del legame tra archeologia e antropologia.


Cosa fa l’archeologo secondo Maria Zanoni? L’archeologo scava nella memoria storica del territorio attraverso la ricerca certamente ma anche grazie ad un dialogo che penetra l’humus (ovvero il vero tessuto di una umanità sul territorio) che è fatto di strati, di connivenze con i resti di epoche, con la contaminazione di passaggi di civiltà, di culture, di identità. L’archeologo non si sporca soltanto le mani nel terricci, nella terra, nello “scavo” vero e proprio ma deve avere la capacità di leggere il colore del terreno, il senso delle deposizioni e il battere dei passi del tempo.

 

Le testimonianze che vede, che legge, che sente non sono altro che un rimembrare elementi di civiltà. Portarli alla luce significa, tra l’altro, dare la possibilità di interpretare una composizione di passaggi e paesaggi epocali. La differenza tra un archeologo e uno storico non sta soltanto nella tipicità del materiale con il quale occorre confrontarsi. Sta soprattutto nella capacità di penetrare il valore storico di un determinato materiale. Il dato storico è diverso da quello archeologico anche se è naturale convivere nella contaminazione degli stili che l’incontro del e con il tempo rende malleabili. Forse l’archeologo è il conoscitore del profondo. Ovvero dell’inconscio che il terreno preserva.

 
I palmenti (anche se non entro nel merito delle ricerche o della collocazione o dei luoghi: il lettore dovrà leggere il libro altrimenti il gioco è tutto scoperto e non mi piace disputare una tale partita su tali argomenti) sono la manifestazione di un incontro tra la cultura contadina nella temperie archeologica e nella contestualità storica. La Zanoni lo dice molto bene. In modo particolare nelle geografie del Mediterraneo sono espressioni di vita che restano ad identificare una precisa identità e anche una precisa “etimologia” dei luoghi stessi.


Tutto ciò che affiora appena, sembra dirci la Zanoni, e tutto ciò che non affiora prepara il lavorio della pre-storia. Ci si immerge, con la ricercatrice e con questo testo, in quel “sottosuolo” che diventa mistero.
L’archeologo, dunque, indaga e assume una funzione fondamentale proprio in virtù di un collegamento tra i “sistemi” archeologici (parla di sistemi culturali e mentali) e quelli etno-antropologici. Il territorio, d’altronde, deve costantemente fare i conti con una visione sia etnica (per le varie eredità che insistono sullo stesso territorio) sia antropologica (perché le culture che convivono su un territorio sono sempre il portato di una misurazione storica, la cui storia stessa proviene da modelli di civiltà che costituiscono il senso di una tradizione e di una identità).

 

In virtù di ciò, secondo lo studio in questione, il modello di riappropriazione culturale ci permette di leggere un determinato territorio grazie ad una valenza che presenta elementi materiali. Si è già detto che l’archeologo lavora certamente su materiali ma è anche vero che questi materiali devono permettere una interpretazione e quindi una chiarificazione di un sostrato sia archeologico che antropologico. In altri termini l’archeologia opera all’interno di un bacino di ricerca che puntualizza due riferimenti centrali: il territorio e i popoli. Ovvero la geografia reale che ha il compito di descrivere e quindi di definire una visibilità ed un immagine del territorio stesso e l’identità di una cittadinanza espressa dalla civiltà che si è manifestata sul territorio e all’interno di esso.

 
Tutte le testimonianze, tutti i reperti, tutte le presenze chiaramente materiali sono strumenti di verifica e di valutazione sul piano dell’indagine. Ciò si evidenzia man mano che la ricerca va avanti. Una testimonianza diventa non solo una rappresentazione del territorio ma sostanzialmente una espressività di codici e di elementi etno-antropologici. All’interno di una tale riflessione le relazioni tra aspetto fisico del territorio e quello più direttamente antropologico delle culture sommerse che vi hanno abitato costituiscono il vero dato di una comprensione di ciò che si è manifestato in un determinato luogo.

 

Proprio per questo il riferimento archeologico non vive di episodicità ma si caratterizza per la sua articolazione d’indagine e di continuità tra cultura di appartenenza, elementi ereditati, bagagli di contaminazione e ciò che è concretamente visibile. Non possono esserci via di mezzo almeno nella sostanza teorica. Tutto ciò è ben dimostrato e documentato da Maria Zanoni.
È, comunque, naturale che l’impatto che l’archeologo vive è inizialmente pratico ma questa sua praticità è certamente dettata da basi teoriche in quanto la ricerca parte dalla conoscenza diretta di una questione ma il “viaggio” sul territorio si stabilizza su presupposti di analisi sul terreno. Leggere il terreno significa non solo capirlo e conoscerlo dal punto di vista archeologico, storico e geografico ma significa altresì definirlo nella sua specificità culturale.

 
Oggi, e qui ripropongo una mia riflessione già datata nei miei studi, l’archeologo non può studiare un territorio o una situazione archeologica senza fare i conti con il valore e l’essenza antropologica. Archeologia e antropologia devono per ragioni di “mestiere” convivere, raccordarsi, e parlarsi sul vero senso del termine. Altrimenti la stessa indagine non può offrire quegli effetti completi di cui si ha bisogno per contestualizzare un luogo.
Il luogo, dunque, è un territorio ben definito o meglio il territorio caratterizza un luogo.

 

 Una insistenza che percorre tutto il lavoro di Maria Zanoni. Ma sul luogo definito tale convivono fenomeni e fattori pre – archeologici o meglio tali fenomeni e tali fattori sono la risultante di una sistematica insistenza di civiltà e di insediamenti di popoli. I popoli insediati creano vita e la quotidianità porta a manifestazioni di relazioni concrete con il luogo. I popoli che vivono si definiscono nei materiali che usano. I popoli che abbandonano un luogo o che scompaiano lasciano sempre tracce di materiali.

 

Proprio per questo deve essere un fatto ormai ovvio far convivere l’archeologia con l’antropologia. Nel tempo delle contaminazioni i luoghi e i popoli sono sempre più espressione di civiltà. Una espressività che si sviluppa in un rapporto culturale ben definito da questa ricerca. Il senso dell’etno-archeologia – antropologia trova proprio qui il suo punto di maggiore chiarificazione.

Uno studio che certamente farà discutere. Positivamente.

Nella foto: un palmento in grotta rinvenuto da Maria Zanoni nel territorio di Castrovillari

 

inizio pagina

 

 4

 3

 2

 pag. 1

 
 

 

©  Copyright 2005 - 2014  Tutti i diritti riservati - Centro Arte e Cultura 26 ( C.F:94001680787 )

Associazione culturale di ricerca antropologica etnofotografica fondata da Maria Zanoni nel 1978