L’ANTROPOLOGIA ROM

 

pubblicato il 26 giugno 2018 -   Etnie

 

 ETEROGENEITÀ E PROCESSI CULTURALI

di pierfranco bruni *

 




Il figlio del vento, credit Mary Blindflowers ©

 

Credo che sia necessario, sul piano della ricerca culturale, conoscere quanti sono i Rom (o i popoli stanziali che sono stati vaganti o nomadi) in ogni territorio italiano e che tipologie di tradizioni custodiscono o a quale modello storico la loro appartiene.

Conoscere la reale diversità tra nomadi e stanziali è un dato antropologico che significa indagarne le radici e le appartenenze. Sapere, sul piano scientifico e antropologico, il loro modello di tradizione e di provenienza ci serve per stabilire la diversità tra i popoli nomadi e stanziali. Addentrarsi anche in termini antropologici nel loro emisfero non è facile o semplice, perché hanno eredità ed identità complesse ed eterogenee.

Parlo da studioso e da persona che ama quella tradizione tra modelli musicali e canto popolare. Sono popoli antichi. Bisogna studiarli nella loro profondità ma per studiarli bisogna capire antropologicamente il loro vissuto. Qui insisto su una antropologia poetica e una antropologia della conoscenza. Non bisogna gridare subito allo scandalo o a fantomatiche visioni razziste. Certo, occorre capire la distinzione tra razze, etnie e tribù.

Pongo questo problema con forza ad una etno – antropologia che ha bisogno di rinnovarsi e andare oltre gli schemi di Ernesto De Martino. In fondo uno dei più grandi studiosi di civiltà e di anime vaganti o nomadi è stato Mircea Eliade ed era nato in Romania.

Quindi, signori, un po’ di calma e tanta intelligenza. Ma anche forza per approfondire alcuni aspetti. Gli zingari, un popolo che viene da lontano e che trasporta lungo i suoi viaggi modelli di identità e tradizioni. Nomadi, figli del vento, viandanti. Una cultura orale che è nel solco di una storia che è ricca di contaminazioni ma che è riuscita ad infiltrarsi nei segmenti di eredità e di realtà che si determinano la contestualizzazione dei territori.

Sinti, Rom e Kalè. Gruppi  che si mostrano con una loro fisionomia in quella dimensione dell’oralità che ha una specificità nell’essere viaggianti o nomadi, semi – viaggianti, stanziali. In Italia se ne contano circa 80.000 e sono, appunto, suddivisi in quella sopra detta specificità, mentre in tutto il mondo sono circa quindici milioni. Hanno una loro cultura attraverso la quale trasmettono non solo codici esistenziali ma anche valori culturali. Diversi sono i miei lavori nei quali si parla dei Rom e dei Sinti. Non cerchiamo di negativizzare tutto.

A questi popoli, sostanzialmente, non interessa affatto di essere inseriti nella Legge di tutela delle minoranze. Questa è la questione – problema vero. Comunque viaggiamo un tratteggio nella loro storia usando la percezione e i dati.

Origini antiche. Dalla storia dell’India o da Omero. I viandanti, i Gitani. Ma il loro viaggio sembra un girotondo ovvero un “nomadismo girotondo in tondo” come ha scritto Françoise Cozannet in “Gli Zingari. Miti e usanze religiose” (1975). E questo girotondo fa parte di un viaggio rituale perché senza il nomadismo non avrebbero senso gli archetipi che sono dentro quella eredità del rituale circolare. Il folklorico che è parte integrante della struttura del tempo primordiale nel quale si configurano, è una recita continua in una visione di una loro immagine popolare che si tramandata nei secoli.

Il folklorico è nella danza, nella musica, nei canti, in quella concezione del bohèmienne che ha raffigurato il personaggio zingaro. Si pensi all’importanza del flamenco. Una ritualità gitana che recupera le voci di una cultura profondamente radicata nel ceppo culturale mediterraneo. La musica e la lingua costituiscono i veri modelli di un codice che pone in essere una insistenza di matrici sia occidentali che orientali, sia cristiane che islamiche. La musica è un linguaggio, è una loro parlata inconfondibile che caratterizza il loro mondo.

Recita un canto zingaro: Quando il dolore mi dilania il cuore,/quando non ho nemmeno un soldo in tasca,/io suono una canzone sul violino,/e lenisco la fame e il dolore./Il mio violino ha due compagni, due/che mi succhiano il sangue del cervello:/uno si chiama Amore, l’altro Sete,/e mi accompagnano, me suonatore”.

Il suonare è anch’esso un rituale. Come è un rituale la presenza dei cavalli nelle comunità zingare. Il mondo gitano è un mondo ricco di colori, di apparenze, di suoni che si definiscono in una vera e propria sensualità della vita. In un altro canto si legge: “Alzati, donna, su,/e accendi la lampada./Di nascosto ho condotto/tre bei cavalli bai./E a te ho portato/un grembiule di seta ricamato/con fili d’oro”.

Una cultura della fantasia ma anche del mistero. Ma dimostra un altro aspetto particolare che è dimostrabile proprio nelle contaminazioni. La musica zigana (zingara), gitana, è parte integrante di quella cultura etnica che proviene dalla Catalogna. Ha scritto nel 1964 B. Leblon: Il Flamenco è noto: esso simboleggerà ben presto la rinascita della Spagna… ma durante il suo sonno questo patrimonio musicale Andaluso era diventato, per i gitani di Spagna, la loro propria musica etnica. Oggi gitani di Castiglia, di Catalogna o del sud della Francia, si riconoscono in questa musica. Essa appartiene a loro”. D’altronde è proprio questa danza e questa musica che formano un linguaggio gitano ricco di simboli e la simbologia nella cultura orale zingara è fondamentale.

Ha ragione Françoise Cozannet quando sostiene che: “Nel Flamenco, danza e musica, abbiamo l’espressione più tipica dell’anima zigana: dramma tragico del gesto e della voce, attitudine fiera e altera dell’uomo, piena di seduzione e di nobiltà anche nella donna”. Da questo punto di vista si tratta proprio di una cultura musicale della sensualità nella quale esplode tutta una psicologia del movimento che porta alla riconsiderazione di una strategia rituale. Gli zingari hanno una forma di tradizione ereditaria che non potrà scomparire perché la stessa tradizione si muove all’interno proprio di una visione circolare della vita come nella religiosità dei popoli antichi.

Ha ben evidenziato Jean Hancok nel sostenere, da zingaro, che “le radici della nostra storia, del nostro passato sono dentro di noi; tagliare le radici vuol dire dichiarare la morte dell’albero; nessuno vuole distruggere il proprio passato; magari si può innestare perché l’albero cresca meglio, ma sono sempre le vecchie radici che fanno vivere”. Ciò dimostra che queste radici non solo sono ben impiantate sul terreno ma non possono essere recise proprio perché, come si diceva già prima, provengono da molto lontano.

La cultura egiziana, la parentela con le lingue dell’India, l’Epifania omerica, l’oriente biblico, sono tutti elementi che vivono nell’idea del viandante che non è solo una metafora ma è il testamento rituale di questo popolo. Non solo nella gestualità ma anche nella oralità il gitano ha una lingua di grande vitalità. Così sottolinea François De Vaux De Foletir: “La lingua zingara o ròmani è una lingua della famiglia detta indoeuropea. Per il vocabolario e la grammatica si collega al sanscrito (come l’italiano al latino). Facendo parte di un gruppo di lingue indiane, è strettamente imparentate con lingua vive quali il hindi, il mahrati, il guzurati, il kashmiri” (in “Mille anni di storia degli zingari,1990).

Popolo di migranti la cui lingua però insieme al canto alla musica-danza rappresentano quella dimensione dell’essere  di un viandante che ha attraversato le geografie dei territori e ha disegnato, in un attestato di civiltà culturali, una mappa propriamente esistenziale. Certo questo bohémien, ovvero gitano, è l’espressione di una parentela  con quelle eticità che non può essere considerato minoranza. Piuttosto è un modello di civiltà alta che si caratterizza per la capacità di una fedeltà alle origini che non si sono sradicate nonostante la fedeltà al nomadismo.

Il nomadismo è una specificità perché secondo la loro identità essere “figli del vento” è appartenere a quel libro dell’esistenza che una volta sfogliato non si ripone ma ritorna ad essere riletto. La metafora di abitare il vento è una caratteristica letteraria ma è anche una indicazione che sottolinea “il loro modo di stare nel mondo”, anzi come sostiene Giacomo Scotti “vogliono essere padroni del tempo e liberi di dare del tu anche a Dio” (in “I figli del tempo”, 2004).

 Radici storiche, patrimonio culturale, ritualità del flamenco, senso circolare del viaggio sono emblemi di un valore che può essere considerato etnico, in quanto valore di un popolo ma la loro diversità consiste proprio nel mostrare l’anima come un paesaggio dell’essere. D’altronde il grande poeta Rabindranath Tagore, nato a Calcutta il 1861 e morto sempre a Calcutta il 1941, cantando i viandanti nelle liriche dal titolo “Gitanjali”, ci lascia questa straordinaria immagine “ Come uno stormo di nostalgiche gru/in volo notte e giorno verso nidi lontani/ tutta la mia vita si metta in viaggio/ verso la sua dimora per l’eternità/ nell’estremo saluto a te, mio Dio”.

 L’andare o il ritornare, il partire o il rincasare nel mitico girotondo delle danze rom o nel volteggiare delle pieghe dei vestiti zigani sono la rappresentazione di una fantasia che solo in quel viaggio interiore che è espressività di un reale  percorrere il tempo può richiamare i segni e i  miti di una cultura che va rintracciata soltanto restituendo ai riti il loro significato.

Quindi se il folklore ha un senso la storia degli zingari è una storia di libertà nel tempo che sa usare le tracce del vento come le danze mitiche indiane protette dalla luna e dai fuochi che richiamano un’arcaica religiosità. Patrimonio di culture ma anche storie di uomini e di popoli. 

Ora, cerchiamo di riflettere su tale questione. Io sono uno di quelli che ha voluto riaprire la discussione sulla legge di tutela delle minoranze etno – storiche proprio per una questione di inclusione sia dei popoli stanziali che del popolo armeno. Il problema si pone. Non soltanto in termini giuridici istituzionali, ma anche antropologici. 

 

* Pierfranco Bruni coordinatore Progetto Etnie MiBACT

 

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