Racconto di Pierfranco Bruni

pubblicato il  1° Dicembre 2013 - Editoriale Letteratura

La Calabria è sempre più solitudine

Mio padre è un’assenza lunga e mia madre canta tra la “sierra misteriosa” nella Calabria dei miei silenzi

  

di Pierfranco Bruni

 

Una chitarra suona…“…Il bandolero stanco/scende la sierra misteriosa/sul suo cavallo bianco/spicca la vampa di una rosa/quel fior di primavera/vuol dire fedeltà/e alla sua capinera/egli lo porterà”.

Cantava questo tango mia madre. “Tango delle capinere”. Tante vite fa. Io ascoltavo la sua voce. La dolcezza nelle sue carezze riempivano i miei giorni.

Tango.

Ero lì tra gli spazi della mia grande casa. In Calabria. E mio padre maestoso vestiva i suoi abiti di cacciatore. La sua autorevolezza non mi tagliava i dubbi che campeggiano tra le ombre del mio tempo spezzettato.

Tutto aveva un senso e tutto si giocava con delle regole.

Mia madre mi custodiva tra i suoi capelli e tra le mani il cuore.

Mio padre un gigante che sembrava non invecchiare.

Poi le lune hanno inseguito gli orizzonti e persino una “vampa di una rosa” non è servita a colorare le fermate del tempo e il tempo è impazzito camminando camminando dentro di me e sul mio viso oltre i pensieri e le parole che raccontano il silenzio dell’età.

Ora piove.

Non senti come piove, mi ha detto mia madre per telefono ed io, a distanza di chilometri, ho ascoltato quel piovere sbattuto tra le piante d’inverno del mio giardino, e l’unica palma rimasta a segnare la vita che c’è stata, e a solcare le solitudini che soltanto le tartarughe hanno afferrato.

Non sono triste e non ho malinconie.

È come sentissi ancora mia madre cantare tra le stanze di primavere e le rose d’estate… Ricordi che sono ferite e non nostalgie. Perché restano ferite?

Mio padre non c’è più. È partito per i viaggi indefinibili anche se io avverto la sua presenza nei passi felpati che toccano l’anima.

Sono mesi di assenza. Non ci sarà mai oblio. I ricordi non portano vita ma soltanto segnano il passaggio su ciò che c’è stato e ciò che non c’è più, anche se tra le corde delle chitarre andaluse le fantasia, a volte, sembrano disegnare onde di pazzia.

Solo le tartarughe hanno toccato la solitudine degli spazi vuoti tra le piante sfiorite e il ragazzo che sono stato e le ombre che sfogliano il mio sguardo.

Ancora c’è l’eco della voce giovane di mia madre che mi canta: “Violino tzigano” di Luciano Tajoli.

C’era sempre una disputa tra mia madre e mio padre. Mio padre tifava per “Granada” cantata da Claudio Villa mentre mia madre puntava diretta al “Tango del mare”.

Mi danzano le sue parole e il suo canto nei miei pensieri e raccolgo:

“Mare perché/questa notte m'inviti a sognar/mentre soffro e non so più scordar/il mio perduto amor./Dimmi cos’è/questa musica strana che tu/dolcemente sussurri quaggiù/e fai più triste il cuor./ Forse sarà la musica del mare/che nell'attesa fa tremare il cuore./Torna ogni vela e tu non vuoi tornare,/che lacrime amare, versare fai tu./Mare sei tu/che una sera portasti al mio cuor/in un sogno di nuvole d’or,/che mai non scorderò”.

È passato il tempo.

Il tempo è passato ed io ancora sono nel mio porto a dialogare con mio padre e non riesco a dargli voce nonostante le tante prove di scrittura. Mi fermo sempre all’inizio.

La sua assenza ha chiuso le mie parole tra le conchiglie abbandonate sulla scrivania. E ci sono suoni nelle notti e nelle albe che hanno annunciato mattini.

Erano quasi le quattro del mattino. Mio padre è andato via e la palma che apriva la passeggiata nel mio giardino si è spezzata tra le ore di un novembre che mai dimenticherò.

Ero a Roma. 30 novembre. Convegno dedicato a Pascoli.

“Cominciavano così i tuoi ultimi venti giorni di vita, papà. Ed io sempre con la caparbietà di poterti dare ancora coraggio e segnarti un’altra àncora tra le maree che già invadevano i tuoi occhi. Ma oltre le maree c’era il naufragio e tu fino all’ultimo hai cercato, come gli antichi combattenti, di aggrapparti ai fili dei tramonti cercando di sfilacciarli allontanandotene.

“Sei stato un combattente. Così mi ha ripetuto il tuo bravo medico personale che tu hai stimato e voluto bene sino agli ultimi istanti. È stato un combattente tuo padre. Un combattente della vita con la pazienza dei saggi, mi ha ripetuto Giuseppe. Don Giuseppe lo hai chiamato stringendo le sue mani.

“Chissà quante volte mi hai cercato in quelle ore di viaggio sino all’ultimo intreccio tra la vita e la morte. Sei stato l’uomo che si è giocato la vita a dadi mi avrebbe detto Roberto Vecchioni.

“Tutte le volte, in quei venti giorni, che ti salutavo mi strappavi pezzi di cuore fino a quando mi hai chiesto di poggiare la testa sulla tua ed io ti chiesi perché e tu, con un filo di voce, mi sussurrati semplicemente: voglio trasmetterti il mio pensiero... E poi vennero gli altri giorni nello spezzettamento del tuo lento andar via…

“Mi sono violentato sino ad accettare ancora una preghiera che avevo già pregato… Ma il tempo è passato, papà e i mesi anche e passeranno altre lune, altri fiumi, altre mareggiate. Tu sei rimasto in quel giardino ad osservare i silenzi e a custodire solitudini…”.

Ci sono voci nel vento.

È ancora mia madre che canta.

Questa volta mi riporta a “Maruzzella” di Renato Carosone.

Mia madre mi canta nei ricordi che sono mistero e fantasia: “Maruzzella Maruzzè,/t'he miso dint'a lluocchie/'o mare e m'he miso/'npietto a me 'nu dispiacere./'Stu core me fai sbattere/chiu forte 'e ll'onne/quanno 'o cielo è scuro:/primma me dice si,/po' doce doce me fai murì”.

Comincio a capire ora perché sono stato e sono un uomo che il mare se lo porta dentro.

“Marinaio e tu papà un capitano di lunga vista”.

Cosa c’è laggiù nell’Arizona? Io riascolto le capinere dalla voce di Nilla Pizzi. Ma si sono intrecciate le ore e i pezzi di vita.

Perché non ho più il sorriso della mia giovinezza.

Cerco di essere impareggiabile pur restando un uomo in rivolta. Lo sarò ancora lo sarò sempre. Resterò con il vuoto dei sorrisi e con l’ironia con la quale cerco di salvarmi.

Una volta credevo che la bellezza ci avrebbe salvato. Bisognerebbe dimenticare per salvare la bellezza.

Giulio, l’altro giorno incontrandolo a Napoli, mi ha abbracciato e mi ha chiesto senza altri indugi: dimmi, cosa è il tempo.

Non ho trovato parole antiche e scavate nei vocabolari dei miei poeti scrittori filosofi teologi. Mi è uscito un sussurro: … sai il tempo è ciò che ferisce il viso il corpo le mani e a volte le idee ma ci salva il cuore l’anima il sogno… Sarà vero? E ancora? Il tempo è quando non ci saremo più.

Mi ritrovo tra i vuoti della mia casa.

La Calabria è sempre più solitudine e piove. Pioverà ancora.

La voce giovane di mia madre nel “Tango delle rose” di Giorgio Consolini: “Là, là tra le rose e i fior/l'idillio incominciò/e furon baci,/carezze audaci/poi le follie della passion”.

Ma sì che di tempo ne è passato.

“Papà, non ti sei perso. Forse sono io che ho bisogno di trovarti…”.

E poi verranno altri giorni. Soltanto l’amore mi salverà. Ci sono i ricordi…

Caro lettore,

non afferrarti ai ricordi. I ricordi vanno e vengono. Come le nuvole. Non c’è bisogno di rincorrerli.

Mio padre ha ed è una assenza lunga. Non mi stancherò. Lui sa. E mia madre intona i sogni di una capinera.

Piove abbastanza. Troppo.

Non so se abbastanza sia più di troppo…

 

I genitori dello scrittore Pierfranco Bruni alla fine degli anni Cinquanta

Un giovane Pierfranco Bruni agli inizi degli anni Settanta

 

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