Maria Carta e il Canto Rituale

 

pubblicato il 16 Giugno 2014 -   Costume e società

Un viaggio  etnico - rituale nel canto poetico di Maria Carta 

a 80 anni dalla nascita

 

di Pierfranco Bruni

 

Nei Canti di Maria Carta, nata a Siligo il  24 giugno 1934 e morta a Roma il 22 settembre 1994, l’intreccio  tra tradizione italiana e linguaggio sardo delinea un percorso in cui lo scavo etno - linguistico non definisce una rappresentazione ma sottolinea il “popolare” che è parte fondante nei modelli etnici.

Nel “Canto rituale” di Maria Carta c’è una spinta che si avverte su due versanti. Quello della proposta di una vera e propria cultura popolare attraverso parametri in cui il sentimento dell’appartenenza è un graffio profondo nella civiltà di un popolo che si porta dietro un “primitivismo” quasi ancestrale che è dovuto al luogo e alle eredità che esprime un luogo non luogo. Quello linguistico che ha ramificazioni articolate all’interno  di un’area geografica che è quella chiaramente del Mediterraneo ma la Sardegna, come tutta la cultura sarda, risente di influssi che tengono insieme un intreccio tra Oriente ed Occidente. Un canto rituale nel destino del mito.

      Maria Carta sia nelle sue canzoni che nel suo testo poetico (la contaminazione è fondamentale) si avverte la trascrizione di una geremia che sollecita il cantico non favolistico ma funebre. Il rituale in fondo diventa uno scavo nella coscienza della civiltà sarda ma nello stesso tempo accanto alle matrici di derivazione vi sono le forme autoctone che insistono appunto come identità del luogo.

      Il “Canto rituale” di Maria Carta è un viaggio e viaggiando è come se recuperasse i sistemi di una letteratura, in cui la terra madre rappresenta la storia di un popolo come ethos ma anche come lingua. Sembra un andare nel regno dei morti ma questo andare diventa anche un ritornare perché, ricordando o ridefinendo i personaggi che sono nell’altrove, il presente esistenziale si fa costantemente contemporaneità e la proposta letteraria e poetica è dentro il processo esistenziale in un rapporto tra terra – memoria - rito. È  come se entrasse in quel viaggio di andata e ritorno che però ha delle valenze tragico simboliche.

      Il canto, così, diventa, una litania e la funzione di quella cultura barbaricina è tutta intrisa di sguardi pesanti, di parole robuste, di accenti drammatici. Un canto fatto di storie che raccontano la vita di uomini e di donne che hanno abitato l’isola e l’hanno vissuta come metafora di una “Spoon river”, ovvero alla Lee Masteers.

      Lingua e fenomeni antropologici (etno – poetici) sono un unicum che caratterizza il “Canto rituale” di Maria Carta come in questi tre versi dal testo dal titolo “Bigia de riu”: “Amore fadadu/fuggito lei gli ha fatto fattura”.

      L’ethnos che campeggia ha un profondo radicamento, il cui legame è tutto giocato tra lo strumento della parola e quindi l’uso del linguaggio e il contenuto. Termini come: “De sa catighera”, “la pupìa”, “fadada”, “sotto le pale de sa catighera” ci riportano a un mondo mitico che soltanto nel linguaggio lirico sacrale è possibile catturare. I tre concetti dell’etno-storia dell’etno-linguistica e dell’etno-letteratura sono ben definiti proprio nella ritualità del suo linguaggio.

      Il mito, comunque, resta un arcaico nel linguaggio rituale che si fa, appunto, canto. Ed ecco ancora le ramificazioni di una antropologia della penetrazione nel tempo: “Ai bagliori del fuoco il mio libro/illustrato fissavano i nudi greci/poi Madau vide Mosè/le sette piaghe d’Egitto mise il pugno sul libro”(Da “Mattia Madau”). Si nota l’evidente rimescolio del raccordo tra cultura e lingua.

      Il viaggio continua tra i destini di una terra e i “rimitanos”, ovvero i diseredati. E in questa terra di civiltà assopite c’è sempre una bambina che sembra avere le mani di vento. Ci sono i segreti e i ricordi, le madri defunte che con la loro ombra raccontano il tempo della storia nel tempo del presente non dimenticando “i piedi scalzi dell’infanzia”. È come se si entrasse sempre nell’anima di un paese: “Entro stanotte in questo paese/che ha luci gialle stravaganti/è gente all’antica vestita di bianco”(Da “Efisio Concas”).

      Il canto (o il cantico) di Maria Carta è un attraversare il senso di un tempo mascherato ma mai scomparso che la ritualità del canto porta sulla scena con il suo battuto dentro un “bidda beru” con le “boghe” che provengono da lontano. E così il paese vero, quello vissuto da Maria e quello che noi abbiamo tra i segni dei ricordi, si ascolta nella memoria metaforizzata dal linguaggio e dal ritmo.

 


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